Innescando un processo di innovazione su vasta scala, delegato ad un semplice accordo individuale diretto tra impresa e lavoratore, senza dover ricorrere ad una contrattazione sindacale collettiva nazionale o di secondo livello. La mela avvelenata è servita.
I test attuati in questi giorni a causa della crisi per il Coronavirus, nelle due regioni Lombardia e Veneto, sono stati una prova generale di fattibilità dello smart-working in numerose aziende e hanno invogliato decine di lavoratori a passare a questa modalità lavorativa, presentata principalmente nei vantaggi per il lavoratore, alcuni indubbi, sorvolando sugli aspetti problematici, che vanno invece evidenziati.
Ricordiamo a tutti i lavoratori a cui potrebbe essere proposto di passare allo smart-working, ormai sdoganato e testato, che il datore di lavoro è tenuto a redigere un accordo scritto e che essere assistiti dal sindacato è più che mai opportuno per i motivi che andremo ad elencare in seguito.
Il quadro normativo ha un percorso storico che merita di essere ricordato, la prima menzione di questa nuova tipologia di prestazione lavorativa, non vincolata alla sede dell’azienda, al tempo unicamente indicata conme telelavoro, risale al protocollo sottoscritto da Confindustria nel 1993, mentre il primo accordo interconfederale viene siglato il 9 giugno 2004, a recepimento dell’accordo quadro europeo del 16/7/2002.
Lo smart working è un’evoluzione del telelavoro e si differenzia da questo su diversi aspetti, permessi dall’introduzione di nuove tecnologie e necessità di ulteriore flessibilizzazione dei tempi di lavoro. Un progetto pilota di sperimentazione, chiamato E.L.E.N.A. “Experimenting flexible Labour tools for Enterprises by eNgaging men And women”, co-finanziato con i fondi del programma europeo REC (Rights, Equality and Citizenship) e in collaborazione con il Ministero per le Pari opportunità, è stato avviato nel 2016 con alcuni dipendenti del Gruppo Acea.
Ma è stato il Jobs Act del Lavoro Autonomo, infine, a definirne e disciplinarne le caratteristiche con gli artt. 18 a 23 della legge 22.5.2017 n. 81.
Lo smart working o lavoro agile è una modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato, che si realizza con un accordo tra le parti per svolgere l’attività lavorativa senza particolari vincoli di orario o luogo di lavoro, in parte all’interno e in parte all’esterno dei locali aziendali, entro gli orari di lavoro massimi giornalieri con l’utilizzo di strumenti tecnologici. Il lavoratore resta sottoposto al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro.
L’accordo scritto deve specificare le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e degli strumenti utilizzati dalla lavoratrice e dal lavoratore. Inoltre, deve individuare i tempi di riposo della lavoratrice e del lavoratore, l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dalla lavoratrice e dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali e le condotte connesse all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali medesimi, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari.
L’accordo è oggetto di comunicazione obbligatoria di cui all’art. 1, comma 1180 della legge n. 296/2006; la comunicazione deve indicare anche la durata dell’accordo ed eventuali variazioni.
Emergono delle criticità in materia di sicurezza, non è chiaro infatti se le attuali norme sui dispositivi previsti sul posto di lavoro, quali monitor adeguati, sedie ergonomiche, etcc possano dunque essere disattese, in quanto lo smart worker, ovvero il lavoratore agile, è “libero” di lavorare dove meglio crede. Per quanto riguarda eventuali infortuni sul lavoro e in itinere, è prevista l’assicurazione del lavoratore, ma con verifica dei criteri di ragionevolezza, mentre non vengono menzionate eventuali malattie professionali, derivanti dal non utilizzo dei dispositivi di cui sopra.
Perché le associazioni datoriali spingono da anni per avviare lo smart working?
Viene spesso indicato come “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”
Gli obiettivi dichiarati sono essenzialmente cinque: ridurre l’impatto ambientale delle emissioni CO2, migliorare l’equilibrio vita privata-lavoro dei dipendenti, diminuire l’assenteismo, abbattere i costi strutturali (affitti, utenze, etcc), aumentare la produttività. Sono gli ultimi tre ad essere fondamentali per l’impresa. Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano l’entità di questi benefici è enorme “si può stimare un incremento di produttività del 15% per lavoratore e una riduzione del tasso di assenteismo del 20%, risparmi del 30% sui costi di gestione degli spazi fisici per quelle iniziative che portano a un ripensamento degli spazi di lavoro” .
In particolare, l’aumento della produttività sarebbe conseguenza della diversa tipologia di controllo sul lavoratore stesso, che passa da una forma diretta, cioè nel luogo di lavoro aziendale ed entro precisi termini temporali, ad un controllo a distanza, necessariamente spostato sulla performance, che dovrà essere in qualche modo misurabile e verosimilmente sarà ricalibrata sul raggiungimento di obiettivi specifici, scaricando così sui lavoratori la responsabilità finale dei risultati ottenuti.
Senza contare il fatto che il lavoratore mette a disposizione dell’azienda, a titolo gratuito, il proprio immobile e relativi costi di riscaldamento invernale, condizionamento estivo e di connessione internet, per i quali non è previsto un contributo, ma si dà per scontato che siano una contropartita equa per avere, sulla carta, maggiore libertà. Infatti la legge 81 si limita a dire che la retribuzione non può essere inferiore a quella dei lavoratori che svolgono l’attività in azienda. Si può tranquillamente affermare che a parità di retribuzione il lavoratore agile subisce una decurtazione del reddito complessivo.
L’extra profitto generato dall’abbattimento dei costi e dall’aumento di produttività, non è stato oggetto di analisi da parte del legislatore, ma deve essere oggetto di contrattazione.
L’entità di tale profitto in realtà potrebbero essere straordinario. Secondo uno studio della multinazionale REGUS, entro il 2030 lo smart-working varrà 10.000 miliardi di dollari. Questa cifra è il valore aggiunto lordo all’economia globale portato dalla riduzione dei costi e dall’accrescimento della produttività innescati dalla diffusione dello smart working su vasta scala. Si tratta dell’ennesimo trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale.
I punti di analisi devono essere comparativi dei vantaggi sugli svantaggi, e vanno aperte, a nostro avviso, contrattazioni sugli accordi, puntando a renderli collettivi, più che individuali. E’ necessario che i lavoratori siano consapevoli che i vantaggi possono nascondere svantaggi non calcolati e questi ultimi devono essere valutati con molta attenzione, oltre ad essere fatti pesare nella trattativa.
Il risparmio di tempo nei trasferimenti casa e lavoro è certamente un fattore importante, soprattutto per chi vive lontano dal posto di lavoro o in città ad alto traffico veicolare, purtroppo scontiamo anni di tagli alla spesa pubblica per infrastrutture e trasporti, e di un’urbanizzazione priva di criteri razionali. Tuttavia è bene ricordare che l’effetto secondario è l’isolamento sociale, la mancanza di interazione con i colleghi, la diminuzione del contatto umano a favore di quello virtuale, e questo può facilitare l’insorgenza di stati mentali negativi.
Lo stesso equilibrio vita – lavoro potrebbe avere conseguenze non volute, quali il fagocitamento della sfera privata in quella lavorativa. Potrebbe aumentare lo stress da prestazione, dovuto all’aumento del controllo e dalla necessità di raggiungere gli obiettivi prefissati, che saranno stringenti. Su questo non ci sono dubbi. Da uno studio sui dati empirici della Prof. Canonico della London School of Economics pubblicato nel giugno 2016, emerge chiaramente che l’entusiasmo iniziale per il lavoro da casa, scende nel medio periodo, quando diventa routine, minando la produttività del lavoratore. E’ giocoforza che l’azienda vorrà intraprendere misure per incentivare il mantenimento della quota desiderata.
La svolta digitale è una sfida epocale, che va affrontata con i tempi e i modi necessari ad inquadrarla correttamente, che non sono quelli dati dalla risposta ad un’emergenza sanitaria.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa