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Memorie corte. L’influenza “suina” del 2009

In queste settimane di epidemia del coronavirus, molti sono andati con la memoria all’epidemia del 2003 più nota come Sars. Pochi o nessuno hanno esercitato la memoria con una vera e propria pandemia assai più recente.

A partire da metà aprile 2009, infatti, diversi Stati (con epicentro in Messico) riportarono casi di infezione nell’uomo da un nuovo virus influenzale di tipo A/H1N1 (noto come “influenza suina”), poi denominato A(H1N1)pdm09. Si tratta di una infezione virale acuta dell’apparato respiratorio con sintomi simili a quelli classici dell’influenza.

L’influenza A/H1N1 venne impropriamente definita come “influenza suina”. In realtà un comunicato del Ministero della Salute nel 2015 precisava che: “Il virus H1N1 si diffonde da uomo a uomo ormai da 5 anni. Già nel 2009, all’atto della sua comparsa, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità Animale (OIE) aveva rilevato come la variante H1N1 ceppo California non fosse stato isolato negli animali. Già allora il nome di “influenza suina” non era corretto e per questo motivo era stato suggerito di definire tale pandemia “influenza nord-americana”.

Test di laboratorio hanno indicato che l’epidemia era stata scatenata da un nuovo sottotipo del virus A/H1N1 mai rilevato prima, né nei maiali né nell’uomo. Sulla base delle procedure stabilite dal Regolamento sanitario internazionale, il 25 aprile 2009 il Direttore generale dell’Oms Margaret Chan ha dichiarato questo evento una “emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale”.

Esplosa in Messico, gli Stati Uniti furono uno dei paesi più colpiti dall’influenza A di tutto il mondo. I casi confermati furono 66.216 e le morti 1519. I primi casi apparvero nel marzo 2009 in California, per poi allargarsi progressivamente a Texas, Arizona, New York ed il resto degli stati (a fine maggio furono contagiati abitanti di tutti e cinquanta gli stati).

Nel corso della pandemia del 2009-2010, il numero di morti in Europa riportati ufficialmente dal Centro europeo per il controllo delle malattie (ECDC) è stato dichiarato di 2.900 persone. Ma, dopo qualche anno, lo stesso dato, pubblicato su Lancet, è stato stimato, sempre per la sola Europa, a ben 16.400.

La discordanza creò parecchio disorientamento e molte polemiche, alimentando lo scetticismo verso le autorità sanitarie e politiche: com’era possibile che il numero delle vittime fosse aumentato a pandemia finita? In realtà, l’equivoco è sempre lo stesso.

Un conto sono le diagnosi ufficiali, confermate con un tampone faringeo, un altro conto è la mortalità in per cause respiratorie o cardiovascolari attribuibile all’influenza. Le prime sono disponibili solo per chi è ricoverato in ospedali in cui è stato effettuato il test.

Ma ci sono migliaia di altre persone, in cui l’influenza ha dato il colpo di grazia ad un equilibrio fisico già fragile. Nella maggior parte di questi casi non c’è un test di laboratorio a conferma della diagnosi, che quindi non viene registrata come tale.

L’11 giugno 2009, l’Oms aveva ufficialmente dichiarato l’esistenza di uno stato di pandemia da nuovo virus influenzale, con passaggio alla Fase 6 dei livelli di allerta pandemico individuati dal Piano di preparazione e risposta alle pandemie influenzali.

Il 10 agosto del 2010 il Direttore Generale della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) aveva dichiarato conclusa la fase 6 dell’allerta pandemia e quindi si era entrati nella fase post-pandemica. In questa fase, l’attività dell’influenza ritorna a livelli normali.

Durante e dopo ogni pandemia, i ricercatori, gli scienziati, gli esperti di salute pubblica e le organizzazioni internazionali acquisiscono una migliore comprensione della complessità e della dinamica delle pandemie influenzali. Ma i nuovi ceppi virali che si presentano con nuove caratteristiche ogni volta mettono a dura prova le conoscenze e i vaccini approntati nelle epidemie o pandemie precedenti.

Dalla pandemia del 2009 forse c’erano da trarre lezioni più profonde di quella della Sars nel 2003. Eppure molti ricordano quella più remota piuttosto che quella più recente, forse perchè la prima ebbe il suo focolaio in Cina e la seconda tra Messico e Stati Uniti. Ma qui entrano in campo considerazioni di carattere politico più che scientifico e, come abbiamo visto anche nella prima fase di esplosione del Coronavirus, questa strumentalizzazione ha contribuito a fare i suoi danni.

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