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L’insostenibile modello della sanità privata – Parte 1

Solo pochi mesi fa, a novembre, dalle pagine del Sole 24 Ore Barbara Cittadini, Presidente di Aiop, l’Associazione Ospedalità Privata che riunisce le strutture sanitarie private di ricovero e di cura, accreditate e non, commentava così gli esiti del primo bilancio sociale realizzato dall’Associazione: “Con questo lavoro abbiamo voluto spiegare ciò che facciamo nelle aree dove operiamo, con un impegno che va oltre il business e si traduce in responsabilità verso i bisogni del territorio, dell’ambiente, dei lavoratori (…) Siamo un valore aggiunto per questo Paese: l’auspicio è che questo modello virtuoso di assistenza sanitaria, paradigmatico di un modo di fare impresa sano, sostenibile e felice, volano per l’economia, possa essere sempre più riconosciuto”.

Oggi, di fronte all’emergenza sanitaria determinata dall’epidemia di Coronavirus, quelle parole risuonano nelle orecchie quasi come il canto funebre di un Servizio Sanitario Nazionale ormai al collasso.

Su cosa si è retta infatti la prosperità di quel modello di sanità privata, a detta della presidente di Aiop “sano, sostenibile e felice”, che sfiora gli otto miliardi per valore di produzione?

Possiamo dire che la fortuna di questo modello si è costruita, in prima battuta, sulla progressiva e costante sottrazione di risorse alla sanità pubblica, che infatti dal 2010 al 2019 ha visto perdere 37 miliardi di finanziamenti, a fronte di una crescita del fabbisogno nazionale di 8,8 miliardi; lo stesso trend si osserva guardando al dato del rapporto tra spesa sanitaria e PIL, che si ridurrà dal 6,6% del 2019-2020 al 6,5 nel 2021 e al 6,4 nel 2022.

Si tratta quindi di una tendenza ancora in atto, che non accenna ad arrestarsi e ciò non ci stupisce, considerando che il taglio della spesa pubblica sociale è diretta espressione delle ricette di austerità imposte dall’Unione Europea nell’ottica del rispetto dei vincoli di bilancio.

Ricette che tra l’altro l’Unione Europea si affretta ad inasprire e consolidare anche in una situazione di emergenza sanitaria come questa, vista la brusca accelerata che è stata impressa in questi giorni all’approvazione finale del MES, l’ennesimo strumento che, come denunciato da tempo, non fa altro che stringere ancora di più il giogo delle politiche di austerità e impedire politiche espansive di spesa pubblica; a riprova che anche di fronte alla pandemia,  l’Unione Europea, lungi dall’essere fonte di sostegno, rimane ben salda nel suo unico ruolo di guardiana di quell’austerità che ha portato il nostro SSN al collasso.

La dinamica di definanziamento appena descritto ha quindi creato le condizioni per il successo di lungo periodo del business della sanità privata; infatti, il principale esito di questo progressivo definanziamento della sanità pubblica è dato dal fatto che oggi il fabbisogno sanitario degli italiani non trova piena copertura nell’offerta di servizi e prestazioni del servizio sanitario pubblico.

Questo ha determinato due effetti; da un lato, un fenomeno rilevante e diffuso di rinuncia alle cure. Nel 2016, 12,2 milioni di persone, oltre il 20% della popolazione italiana, è stata costretta a rinunciare o a rinviare per motivi economici almeno una prestazione sanitaria che era stata loro prescritta come necessaria a livello medico.

Dall’altro, vediamo qual è la reale chiave di successo del business della sanità privata, ovvero il fatto che dal 2007 al 2016 la spesa sanitaria privata degli italiani ha continuato a crescere, raggiungendo il picco di 35,2 miliardi nel 2016. Rispetto a questo fenomeno, va innanzitutto smentita la retorica dell’”ipocondria di massa” che porterebbe a spendere in maniera incontrollata per visite e accertamenti non necessari.

I dati ci dicono che non si tratta affatto di “consumismo sanitario”, bensì di necessità sanitarie oggettive che non trovano risposta nel pubblico, se si considera che oltre il 50% di chi ha ricorso alla spesa sanitaria privata lo ha fatto per problemi di scarsa accessibilità alle cure in ambito pubblico (liste d’attesa lunghissime, difficoltà logistiche legate alle strutture sanitarie pubbliche, scarsa compatibilità con orari di lavoro).

Inoltre, va sottolineato che la spesa sanitaria privata non risulta essere appannaggio esclusivo di persone abbienti alla ricerca di prestazioni migliori e personalizzate, ma costituisce una voce di spesa strutturale dei budget familiari in modo trasversale a tutti i gruppi sociali, per di più con un impatto sociale fortemente regressivo, in quanto tale voce, in rapporto alla spesa totale per consumi, pesa di più sulle famiglie a basso reddito; nel 2016, 7,8 milioni di persone hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi o indebitarsi per coprire spese sanitarie private e questo è avvenuto soprattutto al Sud e al centro tra le famiglie a basso reddito (25,2%) rispetto a quelle con reddito medio e alto.

Dietro al divario evidente tra Nord e Sud, vediamo un ulteriore tassello che, insieme ai tagli alla sanità pubblica, si è rivelato cruciale nell’operazione di smantellamento del SSN, ossia la regionalizzazione; con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha introdotto il federalismo sanitario, si sono creati di fatto 21 sistemi sanitari diversi ed è emersa una dinamica divaricante che moltiplica le disuguaglianze tra territori lungo l’asse Nord Sud penalizzando l’area Sud e Isole.

Basti pensare che il 69% di chi rinuncia alle cure si trova nel Sud e nelle Isole e le liste d’attesa più  lunghe si riscontrano sempre nel Sud e nelle Isole. A ciò si aggiunge il fenomeno dei “migranti della salute” dal Sud, che cercano prestazioni che nel proprio territorio non sono fornite o sono di qualità inadeguata; un ulteriore moltiplicatore di disparità, visti anche i costi da sostenere per gli spostamenti.

Ancora una volta, nonostante sia palese che si tratti di scelte di assetto politico istituzionale che hanno prodotto soltanto diseguaglianze e sperequazioni tra territori e gruppi sociali, si continua a perseguire  questa strada, come dimostra il progetto dell’autonomia differenziata, che andrà a spaccare ancora di più il paese, sempre in spregio ai principi di unitarietà e universalismo a cui si informava il SSN.

In definitiva, i dati ci dicono che il modello “sano, sostenibile e felice” di cui parla la presidente di Aiop  è quello di un sistema di sanità che inasprisce le diseguaglianze sociali tra Nord e Sud e tra ricchi e poveri, subordina la soddisfazione di un diritto primario come quello alla salute alla propria capacità reddituale, con 12,2 milioni di italiani di fatto “espulsi” dal Servizio Sanitario Nazionale; è un modello, insomma, che contraddice in toto la funzione storica del Servizio Sanitario Nazionale come strumento di coesione sociale incardinato sui principi dell’universalismo e della progressività dell’imposizione.

Se questo è il prodotto del cosiddetto “modello misto pubblico-privato” in condizioni di “normalità”, non meno disastrosa appare la situazione di emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del COVID19, che ha portato all’esplosione di tutte le falle già strutturalmente presenti nel sistema e che ci restituisce chiaramente due dati rispetto alle contraddizioni del sistema; il primo è quello della de-responsabilizzazione delle strutture private che, seppure coordinate dalle ASST, si sono organizzate negli anni in modo autonomo, soprattutto nei settori più remunerativi e non in relazione ai bisogni sanitari della popolazione; basti pensare che i posti privati per le malattie infettive sono solo il 6% del totale.

Inoltre il settore privato non è immediatamente disponibile e deve esserne sollecitato l’intervento. Mentre in Spagna si è provveduto ad una vera e propria requisizione delle strutture private, entro un termine stringente di 48 ore e sotto minaccia di pesanti sanzioni, da noi il presidente Fontana ha concluso accordi con gli operatori privati ringraziandoli per la collaborazione…come se non fosse un atto dovuto ma una gentile concessione! Non è dato poi sapere se tutto questo comporterà dei costi aggiuntivi per la Regione.

La seconda constatazione riguarda il fatto che il decentramento regionale non produce solo diseguaglianze ma anche inefficienze, con le regioni che agiscono secondo impostazioni e modelli operativi di intervento diversi, a fronte invece della necessità di centralizzazione, uniformità di interventi e programmazione nazionale.

Questo aspetto è emerso in tutta la sua drammaticità con l’emergenza in corso, quando proprio i diversi modelli di intervento delle Regioni in ambito sanitario hanno provocato un ritardo nella gestione dei focolai e dei pazienti positivi; una dinamica che complica la gestione della pandemia e l’accumulazione dei dati, che è fondamentale, a livello scientifico, per elaborare informazioni sia sul virus che sulla sua diffusione. Per questo motivo la battaglia politica per bloccare l’autonomia differenziata è prioritaria e cruciale anche e soprattutto sul fronte della sanità.

Il cambiamento radicale del sistema e in particolare l’espulsione dei privati dalla sanità e l’abolizione di questo sistema “misto pubblico-privato” dietro cui si nascondono solo storture e sperequazioni ai danni dei più deboli, deve essere pensato come prospettiva strutturale e di lungo periodo e non solo come necessità contingente legata alla pandemia.

Il primo passo non può che essere appunto quello della requisizione immediata delle strutture sanitarie private, che deve essere attuata senza alcun indennizzo, rifuggendo dalla subalternità culturale alle logiche aziendalistiche, che vedono gli imprenditori come benefattori che mettono generosamente al servizio della collettività i propri mezzi; parliamo infatti di soggetti privati che da anni beneficiano di finanziamenti pubblici a pioggia, senza che tali finanziamenti tornino redistribuiti equamente in termini di benefici alla collettività. (segue)

*Potere al Popolo, Milano

 

 

 

 

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