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Il Viminale contro gli operai della logistica

L’agenzia ANSA ha riporta nel pomeriggio di sabato 21 marzo la notizia secondo cui Sono in arrivo per oggi, in Italia, circa 3 milioni di mascherine” provenienti da Egitto, India, Cina, Russia; “il materiale sarà recuperato tramite mezzi dell’aeronautica militare”.

Di seguito, l’ANSA informa che Proteste e conflittualità sindacale nel comparto logistica, trasporti e spedizioni, stanno rallentando la consegna di prodotti di indispensabile uso” nell’emergenza Coronavirus, come farmaci, mascherine, camici.

Lo evidenzia il Viminale – scrive sempre l’ANSA – in una direttiva in cui invita tutti i prefetti ad attivare le “opportune misure di mediazione ovvero di dissuasione, ritenute del caso per prevenire il fenomeno“.

Come si deve intendere una notizia confezionata con cotanta maestria? Forse nel senso che le “opportune misure di mediazione ovvero di dissuasione” dovrebbero “prevenire il fenomeno” per cui i lavoratori di “logistica, trasporti e spedizioni” si oppongano a che la loro salute venga sacrificata in nome del profitto dei padroni a lucrare anche sulla distribuzione dei “prodotti di indispensabile uso”? Eccoli i colpevoli delle mancate consegne “di prodotti di indispensabile uso“!

Ecco servito un nuovo “untore” da mettere all’indice: il lavoratore di logistica e spedizioni che osa mettere la propria salute e quella dei propri familiari, coi quali entrerà in contatto, a fine turno, davanti al profitto. Ecco il colpevole, dunque, se le mascherine tarderanno a giungere a destinazione. Ecco “il fenomeno”, come lo definisce il Viminale, da dare in pasto a tutti coloro che urlano contro il “corridore nel parco”, ma trovano “legittimo” e necessario che migliaia di lavoratori, in tutti i settori, non solo nella logistica, continuino a operare a contatto ravvicinato, senza le minime misure di precauzione, perché “l’economia deve andare avanti”, come sentenziano le comari affacciate alle finestre, o i Sindaci che girano per i paesi, megafoni alla mano, ammonendo che si può uscire di casa “solo per andare a lavorare”.

Eccolo il “nemico della patria”: il lavoratore della logistica! Eccolo lì il sabotatore della “unità della nazione” stretta attorno al tricolore che, nel ritrovato abbraccio interclassista, sventola dai balconi; ecco il detrattore dell’italico “andràtuttobene”: a chi, quando, come andrà tutto bene? E a danno di chi, a qualcuno, senza dubbio, andrà tutto bene, come è sempre andato?

E se i lavoratori si oppongono, ecco che scattano le “opportune misure di mediazione ovvero di dissuasione”. Lo “stato d’emergenza” assume anche queste forme; o meglio: questi contenuti. Un passo ulteriore, e molto pesante, sulla strada dell’esperimento teso a “pacificare” lo scontro tra le classi. Il terreno “ideologico” viene preparato da tempo.

Da decenni, si inculca nelle menti una “unità della nazione” estranea a ogni contrasto di classe tra padroni e operai, tra borghesi e proletari, all’insegna di “cittadini”, “consumatori”, “famiglie”, “itagliani”, in cui scompare ogni differenza di classe.

Gli esponenti dei differenti settori della borghesia, travestiti da leghisti o democratici, fanno a gara a invocare “Governi di salute pubblica” e “unità della Nazione”: ovviamente, la buona salute del capitale e l’unità dei profitti contro il lavoro salariato.

Il settore di logistica e trasporti è importante, certo. Ma ci si è preoccupati di adottare misure d’emergenza particolari, specifiche, speciali, per “la consegna di prodotti di indispensabile uso”? Oppure i mezzi militari servono solo per il trasporto delle bare delle vittime del virus? Oppure i militari per le strade servono solo per controllare “i soliti furbetti”, che una volta erano quelli del cartellino e oggi sono un po’ tutti quelli che si azzardino a violare il mantra del “iorestoacasa”?

Persino il giornale del vescovi, Avvenire, titola “I militari per strada: il vero rischio è che poi ci restino”. Vero è che, alla maniera chiesastica, il giornale sembra dar per scontato che “in Paesi dalla solida tradizione democratica” – e si sottintende l’assioma che l’Italia sia uno di quelli – tale pericolo non sussista; ma il sasso è stato in qualche modo lanciato persino dalla CEI.

Insomma: siamo un bel pezzo avanti sulla via dello “stato d’emergenza permanente”, che la borghesia agogna da sempre quale “condizione normale” dello scontro sociale. E l’unità della nazione, contro “i soliti” che “pensano solo a se stessi” e con “proteste e conflittualità sindacale”, rallentano “la consegna di prodotti di indispensabile uso“, oggi non ha nemmeno bisogno di essere imposta con metodi bruschi: è sufficiente insistere nella campagna “ideologica” in corso da anni, affinché lo “stato d’emergenza” permanente sia percepito e invocato quale provvedimento dovuto, per “il bene di tutti”.

Sempre l’agenzia ANSA, nello stesso servizio, ha scritto che “È arrivato il momento di fermarci, ma per davvero. Confidiamo in voi“: è l’appello firmato dai 243 sindaci dei Comuni Bergamaschi, a partire dal primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori, inviato al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al governatore lombardo Attilio Fontana.

Bene: fermiamoci. Ma fermiamoci tutti. Fermateli tutti.

PS: in tardissima serata il Presidente del consiglio ha decretato che “Al di fuori delle attività ritenute essenziali consentiremo solo lo svolgimento di lavoro in modalità smart working e consentiremo solo le attività produttive ritenute comunque rilevanti per la produzione nazionale“. La Confindustria si sta attrezzando per una dfinizione molto larga delle “attività ritenute essenziali”.

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