Mentre gli industriali continuano a pretendere che non siano sospese le attività produttive, da 13 giorni dall’inizio delle misure di distanziamento sociale, le raccomandazioni giuste del personale medico, dell’OMS e delle istituzioni italiane chiedono con insistenza a tutti noi italiani di rimanere nelle nostre case.
Mentre da un lato chi rimane a casa vive la sofferenza della reclusione forzata e dall’altro si usa la retorica degli eroi per il personale medico-sanitario, c’è stata una parte di paese che non si è potuto fermare. Parliamo degli operai, lavoratori che svolgono attività non realizzabili tramite telelavoro, perché applicate fisicamente alla produzione. Dopo grandi insistenze, scioperi spontanei e organizzati dal sindacalismo conflittuale, finalmente Conte sembra aver ceduto e la sera di sabato 21 marzo ha annunciato la sospensione delle attività produttive non essenziali. Peccato che il decreto non sia ancora uscito, nessuno ha ancora potuto leggere nero su bianco quali siano le attività riconosciute come essenziali e quali no, online si alternano liste che lasciano più di qualche legittimo dubbio sull’efficacia delle presunte restrizioni e per di più è notizia di queste ore che Confindustria stia ancora facendo pressione sul governo affinché la scelta sia il più morbida possibile e il decreto non venga emanato prima di mercoledì.
In questo contesto, una domanda sarà sorta spontanea al cittadino medio: ma la classe operaia non era roba del passato? Il tema della scomparsa della classe operaia e della manifattura in Italia, della transizione alla società post-industriale, vive ormai in Italia da più di 30 anni (Gallino, 2003; Paci, 1991 solo per fare alcuni esempi).
Ed è certo vero che, in Italia come a livello europeo, dagli anni 70 ad oggi abbiamo assistito ad un cospicuo processo di deindustrializzazione e offshoring delle attività manifatturiere a basso valore aggiunto verso le economie emergenti. Tuttavia, questa transizione non significa che la manifattura, e con essa i lavoratori che partecipano alla produzione, siano spariti. Insomma, il fatto che non tutti ormai abbiamo un operaio tra i membri della famiglia, il fatto che non appartengano alle nostre reti sociali, non vuol dire che non esistano.
L’Italia, infatti, è ad oggi il settimo produttore manifatturiero (in senso stretto, ovvero escludendo attività estrattive e costruzioni) al mondo, e il secondo in Europa dopo la Germania[1], e rappresenta il 2,3% della produzione e il 3,2% delle esportazioni su scala globale[2]. Sul piano nazionale, la manifattura in senso stretto esprime il 17% del PIL nazionale (anno 2019)[3]. Qual è allora, oggi, lo stato del mondo operaio?
Secondo dati ISTAT, nel 2019 sono circa 8 milioni e 538 mila quei lavoratori che sono inquadrati come operai. Parliamo di oltre il 47% dei lavoratori dipendenti (18 milioni in Italia) e del 36,5% di tutti gli occupati. Il lavoro operaio, dunque, non è scomparso, e non è nemmeno diventato un fenomeno marginale.
Questa categoria, tuttavia, ricomprende non solo il lavoro di fabbrica, ovvero la categoria dei lavoratori impiegati nella manifattura con mansioni inerenti la produzione. Infatti, per operai le statistiche oggi intendono quei lavoratori che svolgono mansioni “strettamente inerenti al processo produttivo”[4], ma che non necessariamente stanno solo nella produzione manifatturiera. Tra gli esempi i lavoratori nei servizi di cura alla persona, nei servizi turistici, e nel commerciale come i lavoratori della logistica, impiegati in imprese tecnicamente di servizi, spesso anche di grandi dimensioni.
Di questo gruppo, gli operai che lavorano nelle attività manifatturiere, gli operai di fabbrica veri e propri, sono circa 2,8 milioni. Contano il 58,8 percento di tutti i lavoratori impiegati in questo settore, e il 65% dei lavoratori dipendenti. Stiamo parlando, quindi, del 15% del totale dei lavoratori dipendenti. E circa un occupato ogni 8, in questo paese, è – ancora – un operaio di fabbrica.
Come gli operai si distribuiscano geograficamente nel paese, se lavorino in grandi o piccole fabbriche e che tipo di contratti abbiano, sono informazioni che è possibile soltanto approssimare dai dati ISTAT. C’è un dato che però, seppur abbozzato, vale la pena evidenziare per questa fase di emergenza coronavirus.
Si tratta di guardare, a “quanto è concentrato” il lavoro operaio oggi, ed è possibile farlo elemento dimensionale d’impresa, distribuzione tra settori e occupazione operaia. La presenza della piccola impresa (con numero di addetti inferiore a 10), sia nell’industria in senso stretto che nell’economia in generale, è un tratto distintivo della struttura economica italiana.
Stando al nuovo censimento permanente delle imprese di ISTAT[5], queste aziende rappresentano infatti il 97.6 percento del totale delle imprese italiane. Sarebbe ragionevole dunque pensare che queste imprese siano il fulcro dell’occupazione dei dipendenti. In realtà, tuttavia, a livello generale queste imprese impiegano il 51% dei lavoratori dipendenti (e una percentuale simile di operai[6]).
Nella manifattura il contributo delle piccole imprese è ancora inferiore: pur costituendo l’84 percento delle imprese, vi lavorano poco più di un quarto dei lavoratori dipendenti (circa 900 mila persone). Il grosso dei lavoratori dipendenti nel comparto industriale, ovvero il 56%, e allocato invece in imprese almeno 50 addetti, e il 30% di questi (oltre un milione) in imprese che superano i 250 addetti.
Se potessimo trasferire le stesse proporzioni sul lavoro operaio di fabbrica, potremmo quindi affermare che il lavoro in contesti di fabbrica di medie e grandi dimensioni è a tutt’oggi una realtà per almeno metà degli operai. Tale condizione di concentrazione dei lavoratori di fabbrica è anche associata spesso allo svolgimento di mansioni nelle quali la prossimità al proprio vicino di postazione è essenziale. È una cosa di cui tenere particolarmente conto in questa fase, nella quale per contenere il contagio da coronavirus ci viene detto che il distanziamento sociale è l’unica arma a disposizione.
Nell’impossibilità tecnica di assicurare il distanziamento sociale, e anche viste le disposizioni governative che permettono l’uso di dispositivi di protezione individuale che vera protezione non l’assicurano, diventa ampiamente giustificato, quantomeno per motivi di sanità pubblica, il blocco delle attività non essenziali.
Per 13 giorni a partire dalle misure di distanziamento sociale, il governo ha continuato a permettere che queste attività continuassero a operare. Nelle misure esposte sabato da Conte, la decisione di chiusura è stata annunciata come relativa alle attività essenziali, ma anche “strategiche”. Sotto le pressioni di Boccia e della feroce classe padronale italiana, resta da vedere nello specifico quali settori e tipologie di attività questa interpretazione includa, e in quali condizioni i lavoratori di questi settore saranno messi in condizione di operare.
Ci sembra che in un simile contesto le ragioni dello sciopero generale indetto dall’Unione Sindacale di Base per mercoledì 25 restino tutte sul piatto, e siano anzi ancora più urgenti di fronte alla sporca partita giocata da Confindustria, alla sottomissione del governo e all’inettitudine delle maggiori sigle del sindacalismo confederale.
*Potere al Popolo
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Gallino, L. (2003). La scomparsa dell’Italia industriale. G. Einaudi.
Paci, M. (1991). Classi sociali e società post-industriale in Italia. Stato e mercato, 199-217.
[1] https://data.worldbank.org/
[2] https://www.confindustria.it/home/centro-studi/temi-di-ricerca/tendenze-delle-imprese-e-dei-sistemi-industriali/tutti/dettaglio/rapporto-industria+-italiana+-2019
[3] Elaborazione su dati ISTAT
[4] Fonte Glossario Lavoro e retribuzioni ISTAT
[5] Il censimento copre il 24 percento delle imprese italiane, responsabili dell’84,4 percento del valore aggiunto nazionale, e che impiegano il 91,3 percento dei lavoratori dipendenti. Sono esclusi dal censimento i settori agricolo, di amministrazione pubblica, difesa e assicurazione sociale obbligatoria.
[6] Nel 2017 corrispondeva al 56%.
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