Per me le vere “ore d’aria” non erano le marce forzate lungo i muri di un cortile di cemento,una specie di vascone plumbeo sotto l’occhio delle telecamere, sovrastato da un rettangolo di cielo che appariva lontanissimo, irraggiungibile.
La vera zona franca delle mie giornate recluse era la biblioteca. Tra i libri, sia pur rinchiusi in un ambiente angusto, con la vista su un muro che qualche detenuto aveva affrescato a palme e orizzonti di mare, respiravo l’illusione del ritorno a casa. Erano gli autori cari di sempre, ma anche nomi sconosciuti: bastava aprirne le pagine e ti venivano incontro altre vite, altre esperienze; ti sembrava di andare lontano…
La biblioteca non era solo libri, ma anche momento di incontri e di attività culturali. Le teneva una funzionaria della biblioteca comunale, una persona buona, allegra e ben decisa a far valere l’autonomia della cultura: il corso d’inglese, il cineforum, l’ascolto di canzoni, momenti di scrittura collettiva.
Le guardiane si affacciavano raramente oltre quella porta (ne vidi una sola prendere in prestito qualche libro).
Potevamo far proposte e fu così che riuscii a richiedere una serie di film di Ken Loach, puntualmente reperiti dalla cineteca comunale e proiettati nella nostra “ora d’aria libera”.
Ma quella che fece cadere le ultime timidezze delle mie compagne i catena nei miei confronti fu la proposta di una canzone di De André, “L’ora di libertà”.
Nei primi tempi ero considerata con stupore, forse con un po’ di diffidenza. Avevano visto al telegiornale le scene del mio arresto, con la resistenza del movimento NO TAV intorno alla volante che mi portava via (qualcuna mi ricordava sorridendo la prima volta che mi vide passare nel corridoio della sezione “nuove giunte”, dal vivo, nel momento stesso in cui quelle immagini venivano proiettate in TV).
E’ oggettivamente difficile capire come qualcuno possa rinunciare alle misure alternative alla galera, anzi è quasi impossibile per chi la galera la sta provando e chiede invano quelle misure alternative…Ma dalle loro domande, accanto alla perplessità, si affacciava anche l’intuizione che solo una causa grande e bella poteva indurre a tale scelta.
L’ “attenzione particolare” che l’apparato penitenziario mi riservava tenendomi in sezione chiusa oltre il limite previsto dal regolamento, ai loro occhi era una credenziale in più.
Ma fu quella canzone ad abbattere definitivamente ogni barriera: fu ascoltata con emozione e canticchiata nei corridoi. Da quel giorno divenni la “zia”e, per le più giovani, la “nonna”.
Ora penso a loro con angoscia, le so inermi davanti all’epidemia, invisibili per un sistema il quale, più che mai, al di là di un buonismo da sepolcri imbiancati, condanna a morte chi è scomodo, vecchio, solo, indifeso.
La sera della mia uscita, quelle mie sorelle mi hanno chiesto di non dimenticarle, di far conoscere l’indecenza e l’inutilità del carcere, di raccontare le loro storie di ordinaria ingiustizia.
Nelle carceri italiane, come nei CPR, si sta morendo in catene, perché non viene applicato neppure quello straccio di decreto, già di per sé insufficiente, che prevede per pochissimi la scarcerazione e, in più, la nega ai detenuti delle strutture penitenziarie che, con manifestazioni, hanno denunciato il sovraffollamento penitenziario e le inesistenti garanzie igenico sanitarie , causa di contagio inevitabile.
Voi tutti che affrontate questi momenti “nelle vostre tiepide case” tra i vostri affetti di sempre, e prendete come una pesante necessità il fatto di restare a casa (“agli arresti domiciliari” dite) pensate a chi sogna la propria casa e ne è tenuto lontano, nell’indifferenza di tanti…: anche se voi vi ritenete assolti, siete per sempre coinvolti.
Liberi tutte e tutti! Liberi subito!
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