In Lombardia una cosa è certa: con la coppia Fontana-Gallera non ci si annoia mai, poiché i due ogni giorno ne inventano una nuova. Purtroppo, però, sono sempre invenzioni a danno dei cittadini.
Mentre in Lombardia la percentuale dei positivi sui tamponi effettuati è ancora il doppio che nelle altre regioni e i decessi quotidiani restano la metà del totale nazionale, la giunta regionale, con la delibera n. XI/3132/2020 ha aperto al rimborso dei tamponi effettuati privatamente (i soli che le organizzazioni e i cittadini possano richiedere), ma solo nel caso che essi risultino positivi.
In pratica, se il tampone, imposto dall’Istituto Superiore di Sanità in caso di esito positivo al test sierologico, risulta invece negativo, il cittadino se lo paga.
Questo bizzarro meccanismo sembra fatto apposta per scoraggiare a fare il test, ma anche un modo per nascondere la mancanza di servizi territoriali che, come si dice ormai da mesi, è il più grave problema della Regione Lombardia.
Peraltro, anche sul test sierologico la giunta Fontana è stata contraddittoria, passando dall’affermarne la sicurezza nel certificare l’immunità a sostenerne invece la sua non utilità.
Per quanto riguarda i prezzi del test sierologico e del tampone, la Regione non ha stabilito alcun limite né criterio, per cui – nelle circa trenta strutture che li effettuano – si passa da un minimo di 25 euro a un massimo di 95 per il primo e da 60 a 110 per il secondo.
In questa situazione di sfacelo, restano completamente inascoltate le voci degli esperti (infettivologi, virologi, ecc) secondo cui l’effettuazione di massicci screening è fondamentale nell’attuale fase dell’epidemia. Dei più pratici ed economici test “pungidito”, in Lombardia, si sono perse le tracce.
I tamponi, la Regione non li ha mai fatti nella quantità necessaria, buttando invece decine di milioni (frutto di donazioni private, ma non per questo meno utili) nell’impresa dell’ormai tristemente noto Ospedale della Fiera, di cui ci siamo già occupati più volte. Rispetto a tale questione è stato presentato nei giorni scorsi un esposto alla magistratura da parte dell’Adl-Cobas, in cui si sostiene che la costruzione dell’Ospedale Fiera sarebbe stata dettata da esigenze propagandistiche e da interessi della Lega anziché da esigenze sanitarie.
Una tesi assolutamente credibile che anche noi abbiamo sostenuto su questo giornale, sulla quale la magistratura milanese ha aperto un’indagine conoscitiva. Tra l’altro, ai vertici della Fondazione che regge l’ospedale, la Lega ha posto diversi suoi esponenti di rilevo, prima tra tutti Giulia Martinelli, che ne è vice presidente dopo essere stata a capo della segreteria di Fontana.
La questione dell’Ospedale Fiera sta assumendo anche risvolti inusitati. Infatti rappresenta il primo caso in cui dei donatori minacciano di citare in giudizio l’ente a cui hanno elargito del denaro.
E’ il caso dell’avvocato Giuseppe La Scala, responsabile di un grande studio legale che ha donato 10.000 euro per la costruzione dell’Ospedale Fiera. Sebbene poco convinto delle scelte sanitarie della Regione, La Scala, da buon avvocato, si concentra però sull’aspetto giuridico e ancor più sulla trasparenza dell’operazione, in particolare sui regolamenti e sui meccanismi a scatola cinese che sono stati ideati e che rendono difficile un controllo sull’utilizzo dei fondi donati.
Afferma La Scala: “La Fondazione Comunità, una sorta di emanazione di Fondazione Cariplo, ha costituito al suo interno un fondo dedicato il cui primo donatore è stata Fondazione Fiera con 50mila euro e gli spazi messi a disposizione. Questo fondo dedicato aveva un comitato di gestione composto da un rappresentante della Fondazione Comunità e due di Fondazione Fiera con funzioni di indirizzo, cioè di consigliare a chi dare i quattrini. Fondazione Comunità sgancia i quattrini a quelli che fanno iniziative connesse all’ospedale e questi rendicontano alla Fondazione Comunità che, a sua volta, rendiconta a se stessa e a Fondazione Fiera. Insomma, se la cantano e se la suonano”.
Indignato dalla notizia della possibile chiusura dell’Ospedale, a poche settimane dalla sua apertura e di fatto mai utilizzato (risultano solo 25 pazienti durante tutta la gestione), l’avvocato milanese minaccia di rivolgersi al tribunale per avere chiarezza sulla vicenda e sull’uso sconsiderato delle donazioni private.
Forse anche a causa di queste denunce, Fontana sembra ora voler fare marcia indietro sull’annunciata chiusura dell’Ospedale Fiera, ma è in grande difficoltà. In primo luogo, sembra che la struttura non risponda agli standard richiesti dal governo per la riserva di posti letto di terapia intensiva, da tenere disponibili per probabili riacutizzazioni dell’epidemia, poiché non dispone di competenze specialistiche di supporto (cardiologia, pneumologia ecc.). In secondo luogo perché ben presto la Fiera avrà bisogno degli spazi per le sue iniziative.
Nel frattempo, sono già circa quaranta le denunce preparate dal comitato “Noi denunceremo”, costituitosi a partire dalle 53,000 testimonianze raccolte in un sito Facebook.
Coordinatrice del comitato è l’avvocatessa bergamasca Consuelo Locati che coordina un gruppo di sei legali disponibili a dare voce, a prezzo concordato, a chi ha perso un caro nella pandemia. L’avvocatessa Locati ha perso il padre ed è stata anche lei colpita dal virus, ma per fortuna si è salvata.
Obiettivo del comitato non è ottenere risarcimenti economici, ma “trovare giustizia e smantellare l’omertà. C’è in corso un rimpallo di responsabilità tra regioni, governo e amministrazioni locali che è un celare tutto quello che è successo dietro uno scudo politico che va fatto cadere. Forse in Lombardia basterebbe che Fontana ci porgesse le sue scuse, ma lui continua a sostenere di avere fatto tutto bene”.
I singoli medici – ci tiene a precisare Consuelo Locati – non sono, secondo il comitato, colpevoli, bensì vittime dello stesso sistema sanitario che li ha mandati allo sbaraglio, nell’impossibilità di difendere se stessi quanto i malati.
Le azioni legali di cui abbiamo scritto si aggiungono a quelle già intentate dai portavoce di Potere al Popolo Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi, a quelle dei lavoratori del “Palazzolo-Don Gnocchi” – dove i dipendenti furono invitati a non mettere le mascherine per “non inquietare gli ospiti” e sono avvenuti decine di decessi – e del Comitato dei familiari dei ricoverati del Pio Albergo Trivulzio di Milano (oltre 400 morti da Covid-19).
Proprio dal Pio Albergo Trivulzio è giunta due giorni fa una notizia straziante: il suicidio di un ricoverato. L’uomo avrebbe compiuto il gesto perché depresso all’estremo dalla mancanza di contatti con i suoi cari, mentre attorno a lui altri ricoverati morivano a decine.
I familiari dei ricoverati denunciano che da mesi le visite sono sospese e questo provoca depressione e sconforto sia nei degenti che nei loro familiari e amici. L’anziano ospite, 80 anni, si è suicidato impiccandosi con un lenzuolo.
Questa circostanza getta anche un’ombra inquietante sulla sorveglianza all’interno dell’istituto perché la preparazione per un gesto del genere, da parte di un ottantenne ammalato, ha richiesto presumibilmente parecchio tempo senza che nessuno intervenisse per scongiurarlo.
Il suicido dell’ospite del Pio Albergo Trivulzio evoca peraltro anche la situazione più generale degli anziani durante la pandemia – anche senza arrivare a tale tragicità – che è stata trattata solo con continui appelli a non uscire di casa.
La Lombardia è una regione in cui vivono milioni di anziani spesso soli. L’isolamento domestico che perdura da mesi, la costrizione a una vita solitaria e sedentaria saranno causa di patologie o aggravamenti delle stesse, sia organiche (diabete, ipertensione ecc.) che psicologiche e mentali (ansia, crisi di panico, depressione).
L’isolamento degli anziani, in Lombardia, potrebbe protrarsi anche a lungo poiché, dato che una vera “Fase 1” di chiusura totale non è mai stata effettuata, si continuerà probabilmente a “convivere con il virus” per lungo tempo.
Sembra quindi disastroso pensare di trattenere ancora a lungo gli anziani nelle loro case senza prevedere dei servizi territoriali di assistenza e di sostegno sia fisico che psicologico. Tuttavia, questo problema è ignorato dall’amministrazione lombarda, che ha già enormi responsabilità nello sterminio degli anziani delle case di riposo (la delibera dell’8 marzo che “chiedeva” alle Rsa di ospitare malati di Covid-19 “leggeri”).
Ci auguriamo che tutte le iniziative legali di cui abbiano scritto, e tutte le altre di cui sta diventando persino difficile dare notizia, possano ottenere giustizia, anche se non potranno restituire ai promotori l’affetto dei loro cari.
Tuttavia, la condanna politica della giunta Fontana è già chiara, poiché frutto di anni e anni di politica sanitaria privatistica e di definanziamento della sanità pubblica. Una catena di politica sanitaria che inizia con la giunta Formigoni, condannato per corruzione e distrazione di fondi e attualmente detenuto, continuata con la presidenza Maroni e oggi con la giunta Fontana.
Il commissariamento della Regione Lombardia è il minimo che si possa chiedere oggi per salvare altre vite dei cittadini lombardi, dopo oltre 15.000 morti causati anche da questa politica.
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