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Crisi sanitaria, per “salvare l’economia”

Più passa il tempo, più la gestione della pandemia si rivela caotica, scriteriata, illogica. Soprattutto fallimentare.

Questa evidenza riguarda tutto l’Occidente capitalistico, non solo il nostro disgraziato Paese. Le differenze esistenti sono così minime da rendere quasi superflua un’analisi differenziale. Quindi possiamo prendere in esame quel che sta avvenendo in Italia come “tipico” di un modo di affrontare l’epidemia.

La scelta di “convivere con il virus” per non fermare la produzione, fin dall’inizio, ha reso impossibile delineare una strategia razionale ed efficace. Si è dunque andati avanti mettendo toppe su un vestito logoro che non tiene davanti alla valanga di contagi.

Il “vestito logoro” è chiaramente il sistema sanitario. Con la parte “pubblica” debilitata volontariamente – 37 miliardi di tagli in dieci anni, su indicazione dell’Unione Europea come mezzo per ridurre deficit e debito pubblico – e quella privata incapace per dna a svolgere un “servizio pubblico”. Nata per fare della salute un business, infatti, neanche davanti alla peste mostrerebbe un briciolo di “spirito di Esculapio”.

Lockdown parziali, semitotali, “leggeri”, riaperture senza limiti, nuove chiusure, si susseguono senza un filo logico riconoscibile. Che però, dopo dieci mesi, sta diventando evidente.

Tutte le misure di limitazione delle attività commerciali e sociali – la produzione continua ad essere totalmente esentata dagli stop, indipendentemente dalla sua “essenzialità” o meno – sono prese allo scopo di non arrivare al collasso del sistema ospedaliero.

Sembra una cosa logica, ma solo se si dimentica che l’obbiettivo dichiarato sarebbe quello di tutelare la salute di tutta la popolazione. Ma la strategia adottata fin dall’inizio – convivere con il virus – è incompatibile con questo obbiettivo.

Quindi il governo – tutti i governi dell’occidente neoliberista – si preoccupa solo di contenere la pressione sugli ospedali. Perché in quel caso si vede quel che la pandemia sta provocando. In quelle file chilometriche davanti a i pronto soccorso, con le bombole d’ossigeno portate alle auto con a bordo i casi più gravi; in quelle corsi intasate di barelle parcheggiate alla meno peggio; in quegli operatori sanitari che barcollano sotto il peso di turni senza limiti… chiunque può verificare il fallimento dei governi. Passati e presenti (lo smantellamento della sanità pubblica dura ormai da 30 anni…).

Dunque diventa “logico” fermare qualcosa – le attività commerciali legate al tempo libero e alla cultura, in primo luogo – per portare i dati su contagiosità, mortalità, ricoveri, entro i limiti tollerabili per un sistema sanitario devastato.

Anche il governo italiano ha sfornato dei suoi “criteri oggettivi” per motivare l’entità delle chiusure (zone gialle, arancioni, rosse, ecc). Ma è bastato che uno scienziato serio – il fisico Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, più volte vicino al Nobel – mettesse gli occhi sul più noto di questi criteri (l’indice Rt) per decretarne l’inconsistenza a causa della “volatilità” dei dati raccolti su base regionale.

Se la “forchetta” di un indice – limite minimo e limite massimo – è troppo ampia, quel numero non ha più quasi significato scientifico. Può servire, al massimo, per capire “grosso modo” se la situazione sta peggiorando o meno. Ma una risposta scientifica è altra cosa, richiede una precisione superiore…

Scendendo da piano scientifico a quello “politico” la situazione ovviamente peggiora. Il “caso Calabria” diventa quasi un paradigma del fallimento della “regionalizzazione”.

Lì, per una lunga serie di cause – dall’incompetenza assoluta della classe politica locale alle infiltrazioni della ‘ndragheta, alla complicità dei dirigenti della sanità locale – il disastro è di dimensioni maggiori. Tanto che da tempo l’assessorato alla sanità è stato sottratto alla competenza regionale per affidarlo a dei “commissari” nominati direttamente dai governi.

E abbiamovisto su questo il disastro ulteriore. Prima è stato messo in quel ruolo un generale dei carabinieri – “metodo Salvini-Meloni”, potremmo dire – che è crollato non appena qualcuno gli ha rivolto una domanda su quel che prevedeva l’incarico affidatogli. Per coprirsi poi di ridicolo quando, per giustificarsi, ha ipotizzato un complotto megagalattico nei suoi confronti al momento dell’intervista (“forse mi avevano drogato”). Chissà se lo vedremo in compagnia del collega Pappalardo, prima o poi…

Dopo è stato nominato un direttore sanitario “in odor di sinistra” (addirittura di Leu!), che non ha fatto neanche in tempo a sedersi sulla poltrona, spazzato via da un video meritoriamente girato da compagne di un collettivo femminista cosentino.

Alla fine il governo Conte si è rassegnato a optare per una “diarchia” mettendo di fianco i nomi di uno storico frequentatore di consigli di amministrazione pubblici (l’ex rettore della Sapienza *) e il più sperimentato dei medici dell’emergenza a livello planetario, Gino Strada.

Il diavolo (neanche il tempo di firmare la nomina e si è scoperto che è indagato per falsificazione di concorsi) e l’acqua santa, insomma, per garantire nei limiti del possibile che “la gestione” resti nelle mani di sempre e, però, qualche cosa di concreto sia fatto per salvare almeno qualche vita calabrese in più. Un modo di ripulirsi l’immagine senza mollare di un centimetro l’osso, pronti magari a dare “la colpa” di eventuali problemi all’unico che non c’entra nulla con quel disastro.

Infine, la guerra dei vaccini. Dopo l’annuncio della Pfizer è arrivato quella di Moderna, altra big pharma statunitense, per di più finanziata dall’amministrazione Trump con 2,4 miliardi di dollari perché producesse questo risultato possibilmente prima delle elezioni. Le vie della scienza sono però complicate dalla “durezza dei fatti”, e così questo annuncio torna utile a The Orange solo per corroborare la propria immagine mentre si rifiuta di riconoscere la sconfitta elettorale.

Anche l’annuncio di Pfizer, però, non è stato privo di sospetti “politici”, visto che è arrivato il giorno dopo l’attribuzione ufficiale della vittoria a Biden.

E poi sono annunciati in dirittura d’arrivo quelli di Johson & Johnson, di Astrazeneca, ecc. Silenzio assoluto su quello russo (Sputnik) e uno di quelli cinesi (Sinovac), che era in fase di test su persone in Brasile (lì c’è anche un “giallo”, con un morto per “effetti collaterali” smentito però dai cinesi).

In ogni caso, l’arrivo di un vaccino provatamente efficace, a disposizione di tutta la popolazione (italiana ed europea, in questo caso; per i paesi in via di sviluppo ci penseranno gli dei o i cinesi), richiederà tempi non brevi.

Oltre ai “normali” problemi logistici – il vaccino Pfizer deve esser mantenuto a 75 gradi, e richiede perciò una rete di distribuzione che non esiste ancora – ci sono quelli organizzativi. Basti pensare che ancora mancano 15 milioni di dosi di normale vaccino antinfluenzale, che quest’anno veniva consigliato a tutti per aiutare a distinguere i casi Covid dai semplici stati febbrili stagionali.

L’insieme di questi elementi, e altri che sarebbe troppo lungo elencare, danno il quadro di una stratega assurda. Che non mira a “bloccare l’epidemia” ma a “non bloccare la produzione”.

Non è riuscita a fare né l’uno né l’altro. E dire che era prevedibile fin dall’inizio

* Più veloce della luce, il nuovo commissario – Eugenio Gaudio – ha già rinunciato  all’incarico.

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