Di questi tempi il termine “negazionismo” ha assunto una notorietà piuttosto inattesa, uscendo dagli ambiti ristretti in cui era stato coniato – gli studi storiografici su fascismo e nazismo, sull’olocausto e i campi di sterminio – per diventare uno dei tanti “luoghi comuni”, onnisignificanti, che rimbalzano sui media.
In particolare, il termine viene usato per contrassegnare quegli imbecilli, generalmente di destra ma non solo, che considerano il virus Covid-19 come un'”invenzione”, un complotto di forze misteriose (economiche, industriali, geostrategiche, demoniache, ecc), o più semplicemente come una “febbriciattola” in fondo innocua (Bolsonaro & C.).
Per restare sul piano storiografico, però, il negazionismo è una subcultura che non riguarda solo le politiche di sterminio nazifasciste – e dunque, oggi, fondamentalmente i sostenitori attuali di quei regimi contro l’umanità – ma anche altri fenomeni storici. E che coinvolgono forze politiche, ricercatori, giornalisti, ecc, che si autodefiniscono “democratici e progressisti”. O addirittura, in un passato ormai lontano diversi decenni, “comunisti”.
E’ una “corrente storiografica” tipicamente italiana e che è rivolta univocamente a descrivere la stagione della lotta armata come “eterodiretta da forze oscure”. Quando qualcuno prova a dare un nome e un volto a quelle forze esce fuori la radice “di sinistra” oppure quella di destra (senza virgolette): la prima accenna alla Cia statunitense (sempre più timidamente, visto che ora quella “sinistra” è diventata fieramente atlantista ed europeista), mentre quella di destra, assai minoritaria, indica il Kgb.
A ben guardare, però, tutta la “dietrologia” negazionista – ciò che nega la l’autonomia e indipendenza delle organizzazioni combattenti – si concentra su un solo episodio, isolato da tutte le migliaia che hanno caratterizzato gli anni ’70 e, in misura molto minore, gli anni ’80:il “caso Moro”, ovviamente.
Abbiamo dunque, nel complottismo negazionista “di sinistra”, una situazione davvero insolita ed inspiegabile, sul piano storiografico. DI fatto, tutte le decine di organizzazioni armate di quegli anni, solo una sarebbe “sospetta”: le Brigate Rosse.
Più stranamente ancora. Delle centinaia di azioni compiute da quell’organizzazione solo una sarebbe davvero “eterodiretta”. Sempre quella. Come se il prima, il durante (nei 55 giorni ci furono molte altre azioni, nonostante il clima da “coprifuoco h24”) e il dopo fossero ininfluenti.
Sul piano strettamente storiografico questo tipo di “produzione di fango” ha perso molta attrattività e “mercato”. Non ci fanno più i bei soldi di un tempo, insomma, quando i parlamentari cisi costruivano una notorietà andando a sedere delle “commissioni di inchiesta” e alcuni giornalisti “di area” venivano messi a contratto come “collaboratori” delle stesse commissioni.
Non ci si fanno più film “pedagogici” e inguardabili, o libri affastellati di fatti veri e ricostruzioni inventate. Anzi, cominciano a fioccare le querele da parte di persone tirate in ballo tanto per dare “colore” a ricostruzioni di fantasia. E ricercatori estranei ai “soliti giri” hanno preso a piegarsi sul materiale vero su cui lavorano gli storici – fonti e testimonianze – distinguendo tra fatti e suggestioni, o banali falsi mal congegnati.
Paolo Persichetti, ricercatore e “persona non estranea ai fatti”, da anni cura un blog che ha come scopo principale la lotta documentata alla dietrologia e dunque al “negazionismo storiografico” sulle vicende della lotta armata in Italia. E anno dopo anno va affinando la ricostruzione della genesi e della sciagurata vita di questo ignobile fenomeno anti-scientifico. A voi una sintesi delle ultime acquisizioni.
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[L’elenco ragionato dei fatti salienti sarebbe lunghissimo, dato che la “dietrologia” sul caso Moro prese forme “in diretta”, nel bel mezzo degli eventi, su iniziativa dell’allora Pci. Era dunque una “lettura di parte”, non condivisa dal resto della classe politica italiana – e tantomeno di quella internazionale – sia al “centro” che a destra che nell’allora “sinistra radicale” (Democrazia Proletaria, il manifesto, “il movimento”, ecc). Si veda, per esempio, l’intervista a Francesco Cossiga contenuta in Una sparatoria tranquilla, 1997, Odradek Edizioni. Ma la dietrologia è diventata “linea istituzionale”, “versione di Stato”, solo con la presidenza sciagurata di Giorgio Napolitano. NdR]
Il passato, quando è ritenuto scomodo, subisce in genere un processo di rimozione: viene dimenticato, seppellito per poi riemergere qui e là se ne è rimasta traccia. Nel caso della lotta armata degli anni ’70 è avvenuto un processo radicalmente diverso: quella vicenda è stata sottoposta a una ipermemorizzazione fabbricata dai poteri pubblici.
Sappiamo che la memoria è un impasto di ricordo e oblio che nel caso delle memorie private risponde a dei processi di selezione psichica legati alla singola storia del soggetto. Nella memoria pubblica, invece, i processi di selezione sono politici.
Tra i momenti decisivi ci sono certamente i ripetuti interventi del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, per altro uno dei protagonisti della linea della fermezza che volò negli Usa proprio nelle settimane del sequestro Moro.
In più occasioni tra il 2007 e il 2008, fino all’editto pronunciato dal Quirinale il 9 maggio di quell’anno, decretò il divieto di parola pubblica degli ex appartenenti delle formazioni armate degli anni ’70, i quali – sosteneva – «non avrebbero dovuto avvalersi per cercare tribune da cui esibirsi, dare le loro versioni dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni».
Al tempo stesso l’istituzione nel 2007 di una giornata nazionale della memoria delle vittime del terrorismo che si tenne la prima volta il 9 maggio dell’anno successivo, data significativa che relegava lo stragismo con le sue complicità statali negli sgabuzzini della memoria ponendo al centro dei rituali commemorativi il sequestro Moro, mischiando e confondendo l’iperviolenza statuale e atlantica delle stragi con le insorgenze armate provenienti da gruppi sociali oppressi.
Un altro aspetto importante è stata l’attribuzione di un ruolo di amministrazione della memoria pubblica all’associazionismo che si era visto riconosciuto lo status di vittima legittima. Da qui l’elaborazione di discorsi fondati sulla stigmatizzazione etica, l’anatema morale a scapito di un approccio fondato sull’impiego delle discipline dell’analisi sociale, politica ed economica.
La conseguenza è stata l’oblio dei fatti e delle condizioni sociali che determinarono quegli eventi, per altro figli di un modello di società e di produzione nel frattempo superati e dimenticati.
Questa memoria svuotata dalle sue matrici causali ha assunto le sembianze di un spettro che si proietta ancora oggi, oltre il millennio, un po’ come lo spettro marxiano, rinviandoci sbiadite immagini in bianco e nero di una violenza politica irragionevole e manipolata che cancella i colori della storia.
L’eredità, il condensato di questa chimica della memoria statuale sono stati il complottismo (la dietrologia) e il vittimismo.
[A proposito della recente lettera di circa 60 ricercatori, e alla polemica relativa al rifiuto dell’attuale redazione de il manifesto di pubblicare quel testo….]
L’innesco è stato l’ennesimo fake che accostava le vicende legate alla strage di Bologna dell’agosto 1980, che stando alle sentenze della magistratura hanno una matrice di destra, in ogni caso opposta per movente, obiettivi e pratiche operative al fare dei gruppi della sinistra rivoluzionaria armata e delle Brigate rosse, geneticamente antistragiste.
Ma aldilà della ragione specifica, credo che sia stato un segnale importante di cambiamento, la prova di una maturazione del mondo della ricerca, di una nuova consapevolezza e anche della presenza di un maggiore coraggio degli studiosi dovuto forse all’arrivo di nuove generazioni non più embedded, slegate cioè da vincoli e condizionamenti che potevano esercitare fino a ieri le vecchie baronie legate culturalmente al catechismo dell’emergenza e della fermezza tramandato dalla Prima Repubblica.
C’è un clima nuovo a cui ha certamente contribuito la maggiore socializzazione delle fonti di provenienza statale. Recenti aggiornamenti normativi hanno reso più democratico l’accesso agli archivi. Oggi è possibile consultare quei documenti che un tempo erano appannaggio solo della magistratura, delle commissioni parlamentari e dei loro consulenti.
Una circostanza che in passato ha favorito una certa opacità e anche la manipolazione delle fonti stesse. È accaduto che carte scomode venissero ignorate o citate solo in parte. Quel tempo è finito! C’è una nuova generazione di studiosi che non è più disposta ad accettare narrazioni che ignorano i canoni storiografici: la confusione di tempi e luoghi, l’uso dei de relato spesso attribuiti a defunti, le correlazioni arbitrarie, le affermazioni ipotetiche, i sillogismi e le false equazioni, le suggestioni e molto altro ancora condito con un approccio paranoico che rifugge ogni confutazione.
Per decenni l’accesso riservato alle carte è stato un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, per tracciare una narrazione ostile alla storia dal basso, con l’obiettivo di negare la capacità dei soggetti di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale. Così si è finiti in una sorta di nuovo negazionismo storiografico.
[A proposito della precedente letteratura storiografica sul “caso Moro”]
Senza dubbio «La pazzia di Aldo Moro» di Marco Clementi (Odradek Edizioni) e «L’odissea nel caso Moro» di Vladimiro Satta (EdUP), apparsi rispettivamente nel 2001 e nel 2003, hanno segnato una svolta metodologica decisiva.
Finalmente due studiosi, per altro di matrice culturale diversa, riportavano sui dei corretti binari storiografici l’analisi del sequestro Moro. Quanto a dire che quei due lavori furono sufficienti per rendere la situazione chiara, ce ne corre.
I loro studi hanno senza dubbio aperto una nuova strada, seguita poi da altre pubblicazioni e altri autori cresciuti negli ultimi anni ma in misura sempre inferiore rispetto alla mole della pubblicistica complottista, al peso delle narrazioni dietrologiche diffuse sulla stampa, nel cinema e nei grandi format televisivi.
Non c’è competizione: l’industria editoriale è orientata sul tema del cold case,anche perché paga in termini di mercato. Cerca testi sensazionalistici spacciati per inchieste che promettono scoop, garantiscono rivelazioni, spacciano soluzioni agli eterni misteri che per definizione restano insolubili, inarrivabili altrimenti il gioco finisce e il circo chiude. I grandi format televisivi, se osserviamo quel che è accaduto in occasione del quarantennale del sequestro Moro, hanno riprodotto questo schema.
La lettera firmata dai sessanta storici e ricercatori è stata un sasso lanciato in questo stagno putrido, un acquitrino insalubre dove hanno trovato la loro ragion d’essere una pletora di cialtroni, un circo Barnum di pagliacci e mitomani dietro cui si celano figure senza scrupoli.
[E infine anche i “dietrologi” cominciano a litigare fra loro, come accade intorno agli stagni durante la stagione secca…]
Anche la dietrologia non è più quella di una volta. I lavori dell’ultima commissione Moro presieduta dal democristiano Giuseppe Fioroni, oggetto ora di diverse querele rivolte contro uno dei suoi ex membri (l’ex commissario Gero Grassi), hanno scatenato la balcanizzazione della dietrologia, una sorta di tutti contro tutti.
Rivalità, concorrenza nel mercato delle fake news, logica mercantile dello scoop, di chi la spara più grossa tanto poi nessuno verifica e nessuno risponde (ma anche qui le querele ci dicono che qualcosa sta cambiando e un principio di realtà e responsabilità sta per essere introdotto), fiorire di tesi complottiste che si annullano a vicenda divorandosi tra loro, hanno condotto al parossismo il discorso dietrologico.
Una iperbole che lo mette al passo con gli altri cospirazionismi che traversano il pianeta in questo momento e mobilitano le interiora della destra più conservatrice e reazionaria.
A Flamigni, che ha campato per decenni sul monopolio dell’accesso ai documenti e su risultanze peritali incerte, non va giù che questa commissione abbia disposto ingenuamente nuove perizie scientifiche su via Fani, via Gradoli e via Montalcini. Accertamenti che hanno definitivamente sepolto ogni possibilità di utilizzare imprecisioni, limiti ed errori che in passato consentivano di insinuare ricostruzioni complottiste.
La commissione Fioroni, convinta che le acquisizioni storiografiche, le testimonianze dei protagonisti e le ricostruzioni cui erano giunte le cinque precedenti inchieste giudiziarie sulla vicenda Moro fossero inesatte, fuorvianti o patteggiate, con l’enfasi supponente di chi avrebbe finalmente disvelato la verità a tutti nascosta, ha disposto nuove perizie che si avvalevano delle moderne tecniche forensi inesistenti quando vennero condotte le prime indagini.
Da un presupposto errato è scaturito così un risultato virtuoso che oggi è a disposizione di tutti i ricercatori ma che ha scandalizzato Fioroni e gli altri commissari (meno uno), i quali totalmente spiazzati hanno cercato in tutti i modi di ridimensionarle.
In fondo la commissione ha lavorato tre anni per cercare di smontare quello che involontariamente le risultanze scientifiche andavano accertando. Uno spettacolo surreale che tuttavia non è riuscito a cancellare la conferma che in via Fani le cose sono andate come hanno sempre raccontato i brigatisti: nessun attacco è stato mosso da destra, non c’erano superkiller professionisti, agenti segreti, motociclette coinvolte nell’operazione, nessuno ha sparato contro il parabrezza del teste Marini.
Abbiamo anche la certezza genetica che sfata la leggenda di Moro tenuto o passato in via Gradoli e sappiamo che l’esecuzione del presidente Dc all’interno del box di via Montalcini è compatibile con il luogo, le risultanze balistiche, l’analisi splatter (le gocce di sangue) e audiometrica degli spari. Insomma è calato il sipario sulla dietrologia in via Fani.
[L’ultima bufala per tenere insieme una ricostruzione priva di riscontri: l’ipotesi di un “patto segreto” tra brigatisti e servizi. Come se passare venti o più anni in galera possa esseere considerato un “regalo”…]
ll «patto di omertà», come lo ha chiamato Flamigni, il «patto segreto» tra «complici» come hanno scritto altri competitor dell’arcigno custode della verità politica del Pci sul sequestro Moro è una costruzione finalizzata a esportare la parte di responsabilità politica che pesa sui partiti che sostennero la linea della fermezza.
A quarant’anni di distanza invece di interrogare le ragioni che spinsero Dc e Pci a rifiutare la trattativa, sacrificando un uomo per non perdere lo Stato, come recitava il famoso editoriale di Scalfari apparso su «la Repubblica» del 21 ottobre 1978, si insinua l’esistenza di un accordo sotterraneo tra prigionieri delle Br e vertice democristiano suggellato dal cosiddetto memoriale Morucci-Faranda.
Nulla ci dicono sulla dimensione psicologica e culturale che mosse i dirigenti dei due maggiori partiti, come riuscirono a dire che le lettere di Moro erano manipolate, circostanza smentita dall’ultimo lavoro scientifico curato da Michele Di Sivo.
Resta ancora inspiegato il silenzio di Fanfani che venendo meno ad accordi presi non pronunciò il discorso di apertura promesso. Perché tacque? Fu bloccato?
Questioni che si cerca di occultare inventando un patto attorno a un memoriale che raccoglie le deposizioni di Morucci e Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani prima indicati solo con dei numeri. Un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista.
Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del memoriale vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono.
Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano, mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali.
Inesistenti i rapporti tra loro, segnati da rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della colonna romana) e ostilità per la scelte dissociative e collaborative.
Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze?
Un abisso logico senza risposta.
[Il ruolo ignobile del Pci, prima, e delle due filiazioni, dopo…]
Il Pci è senza dubbio la forza politica che grazie al suo importante bacino culturale ha più di ogni altra contribuito a costruire e consolidare questa narrazione.
Il 1984 è stato un anno di svolta per il Pci. La prematura scomparsa di Enrico Berlinguer precipita il partito in uno stallo politico.
In crisi di strategia dopo il naufragio del compromesso storico, il Pci imprime una svolta anche sulla vicenda Moro. Con una mozione presentata il 9 maggio 1984 alla Camera e al Senato prende le distanze dalla relazione di maggioranza che aveva appoggiato l’anno precedente in chiusura dei lavori della prima commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro, e dal primo processo in corte d’assise che si era concluso nel 1983.
La stampa del partito e i suoi intellettuali si mobilitano per produrre da quel momento una intensa letteratura che darà vita a categorie come quella di «doppio Stato», «Stato parallelo» anche sulla scia di un precedente lavoro sui «poteri invisibili» di Bobbio. Nasce la stagione del complottismo.
Il nodo storico-politico che tormenta il Pci è dimostrare che la vita di Moro non venne sacrificata in nome della ragion di Stato, cioè di una linea di fermezza che avrebbe precluso ogni possibilità di trattativa con le Br.
Il Pci tenta di tirarsi fuori dalla responsabilità di aver contribuito, sacrificando Moro, alla disfatta della propria strategia. Una consapevolezza che spinge i dirigenti di Botteghe oscure ad avviare la lunga stagione vittimista e recriminatoria della dietrologia: la neolingua del complotto.
Un paradigma consolatorio che ha creato una vera malattia del pensiero.
[Negare la realtà, a qualsiasi costo, se non corrisponde ai propri interessi politici. Il vero fondamento della dietrologia]
L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile, è divenuto il nuovo modo di giustificare una sorta di contronarrazione che si pretende autonoma, libera e indipendente dai «poteri».
È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni: uno schema cognitivo che riporta all’epoca dell’inquisizione, ai paradigmi interpretativi che i frati domenicani impiegavano individuando il disegno del maligno nei fenomeni incompresi o inaspettati che la società presentava.
L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade, i luoghi di lavoro, lì dove scorre la vita e si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, è il segno tragico di una malattia della conoscenza.
Una sorta di incapacità ontologica che impedisce di accettare non solo la possibilità ma la pensabilità stessa che dei gruppi sociali, siano essi grandi o piccoli, possano aver concepito e tentato di mettere in pratica una via rivoluzionaria.
La dietrologia, il cospirazionismo hanno come essenza filosofica il negazionismo della capacità del soggetto di agire, pensare in piena autonomia. Il complottismo è un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione degli assetti di potere del capitalismo attuale.
Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.
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