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Terzo Settore. Il business della benevolenza/2

Il Terzo Settore in Italia ha raggiunto un giro d’affari di circa 67 miliardi di euro, con un fatturato pari al 4,3% del Pil, ossia il peso di un settore di punta come quello della moda made in Italy (66,8 miliardi nel 2019).

È quanto si legge in una ricerca condotta da Unicredit e dall’istituto di ricerca Ipsos, che hanno intervistato 2.104 organizzazioni del settore non profit. L’indagine stima che nel Terzo Settore lavorino oltre 650mila persone, con un incremento nell’ultimo decennio di circa il 35%.

Ma a queste 650mila persone ufficialmente “impiegate” nel Terzo Settore, vanno aggiunti i volontari che prestano la loro opera gratuitamente. “Dato che il personale volontario costituisce oltre il 90% del totale delle risorse umane impiegate nel settore non profit”, si legge nel documento, “sono di cruciale rilevanza la comprensione e la quantificazione del tempo dedicato al volontariato e dell’impatto economico che esso ha sul settore”.

Sei istituzioni del Terzo Settore su dieci sono coinvolte nei settori di cultura, sport e ricreazione, a cui seguono quelli di sanità, assistenza e protezione civile.

Il valore medio delle entrate di una azienda no profit (onlus, cooperative sociali, associazioni, ecc) viene stimato in 286.000 euro. Con un numero di istituzioni no profit pari a 235.232, l’impatto economico del settore in termini di entrate può essere stimato intorno ai 67,276 miliardi di euro, pari al 4,3% del PIL.

Secondo l’Istat, invece, in Italia i volontari sono più di 5 milioni e mezzo, le istituzioni non profit 336mila, i dipendenti quasi 800mila. Il giro d’affari supera i 64 miliardi, rappresentando il 3,5% del pil (il 4,3 secondo altre stime).

E’ quasi superfluo sottolineare come nel Terzo Settore si sia assistito ad un vero e proprio boom di manager, le cui competenze chiave sono perfettamente accostabili a quelle delle attività profit (ma con una specializzazione verso le normative e le “relazioni” con le amministrazioni pubbliche ad ogni livello).

Venti anni fa – solo per avere un termine di paragone – nel censimento Istat 2001 sulle istituzioni no profit (dati 1999) le entrate rilevate erano pari a 37,762 miliardi di euro pari al 3,3% del PIL.

Eppure in questi anni i tagli al bilancio pubblico e alla spesa sociale si sono tradotti in minori convenzioni con le amministrazioni locali e centrali, e minori sovvenzioni a fondo perduto. In termini netti, le convenzioni hanno subito una variazione negativa del 4,2%, mentre le sovvenzioni addirittura del 9,7%. Sono aumentate invece le donazioni private (+6,8%) e l’autofinanziamento (+6,4%).

Il lavoro volontario e gratuito ha una funzione decisiva. In una ricerca condotta negli Stati Uniti, hanno stabilito che il controvalore di mercato di un’ora di lavoro gratuito è in media di 21,79 dollari.

La stima, informa il sito independentsector.org, è stata calcolata con lo scopo di riconoscere anche economicamente quanto il no profit pesa sull’economia.

Ma come è stato calcolato il valore di un’ora di lavoro volontario e gratuito? E’ stata considerata la retribuzione media oraria di tutti i dipendenti privati di livello non dirigenziale, esclusi i lavoratori agricoli, così come diffusa dal Bureau of Labor Statistics statunitense.

Questa media è stata poi aumentata del 12% per comprendere gli eventuali benefit di cui negli Usa usufruiscono molti lavoratori. Il risultato è poco più di 21 dollari all’ora, ma con notevoli variazioni a seconda dello Stato che si viene considerato. A Porto Rico un’ora di lavoro gratuito volontario vale poco più di 11 dollari. A Washington D.C. si toccano i 33 dollari l’ora.

Nell’Unione Europea l’economia che gira intorno al settore no profit, coinvolge oltre 19 milioni di persone, inclusi gli occupati non retribuiti e 82,8 milioni di volontari. Su 10 lavoratori, 7 sono di sesso femminile, più di 8 hanno un contratto a termine e la metà sta in part-time.

Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio “business della benevolenza” che attinge e sottrae soprattutto fondi pubblici al welfare e usa con efficacia la “leva morale” per fare strada ad un settore in cui i parametri profit prevalgono via via sistematicamente a quella originariamente no profit.

In realtà il Terzo Settore è diventato una clava ideologica e un grimaldello economico funzionale allo smantellamento del welfare pubblico e alla de-responsabilizzazione dei soggetti pubblici (Comuni, Regioni, Stato) dalla gestione dei servizi sociali ritenuti un costo da tagliare.

I meccanismi per raggiungere questo disastro sociale sono stati forniti dalle esternalizzazioni dei servizi, che le istituzioni pubbliche dovrebbero invece assicurare in prima persona.

Da qui è nata la proliferazione di onlus, associazioni, cooperative sociali no profit taroccate ma con alti “curriculum morali”, che a mano a mano hanno preso in mano la gestione dei servizi (valga come esempio limite “mafia capitale”).

Il Terzo Settore è in grado di rispondere alla riduzione dei fondi pubblici per il welfare potendo agire su un personale precario e sottopagato e, lì dove possibile, con il lavoro volontario gratuito ma motivato moralmente.

Una condizione invidiabile per qualsiasi azienda e per qualsiasi istituzione pubblica, felice di declinare le proprie responsabilità dall’erogazione dei servizi dovuti alla collettività.

Segue….

Vedi la prima puntata dell’inchiesta sul Terzo Settore

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