21 maggio, a Roma si terrà il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute). L’evento è co-organizzato dall’Italia, durante l’anno della Presidenza di turno del G20, e dalla Commissione europea.
Come spiega lo stesso governo italiano, Il Summit rappresenta un’opportunità per il G20 e per tutti i leader invitati, tra i quali i responsabili delle organizzazioni internazionali e regionali e i rappresentanti degli organismi sanitari globali, per condividere le esperienze maturate nel corso della pandemia ed elaborare e approvare una “dichiarazione di Roma”.
Sul piano dei lavori concreti – sempre alquanto aleatori in questi appuntamenti – Il Summit si baserà:
- sul Coronavirus Global Response, la maratona di donazioni che lo scorso anno ha raccolto quasi 16 miliardi di euro da donatori di tutto il mondo per l’accesso universale a trattamenti, test e vaccini contro il coronavirus
- sull’attuale lavoro delle istituzioni e dei consessi multilaterali, in particolare l’Organizzazione Mondiale della Sanità e i Regolamenti Sanitari internazionali
- su altre iniziative e processi in materia di salute, compresi quelli che si svolgono nell’ambito del G20 e del G7.
Lo svolgersi di un G20 in Italia, a 20 anni dal G8 di Genova, che vide un’immensa mobilitazione popolare e il criminale attacco poliziesco che portò alla morte di Carlo Giuliani, a centinaia di feriti, provocazioni come alla scuola Diaz, ecc, può legittimamente suscitare l’impressione di deja vu, un bis di qualcosa di già noto.
Ma sarebbe un errore accettare questa nostalgia come chiave per inquadrare il problema. Venti anni non sono passati senza conseguenze.
Intanto non c’è più quel movimento mondiale contro i “grandi vertici” della globalizzazione neoliberista. Milioni di persone che da Seattle a Goteborg, da Porto Alegre a Genova, contestavano la governance capitalistica sotto le insegne del No Global.
Le lotte ci sono, ma sono molto frammentate. Tra settori sociali e all’interno di ognuno di loro, tra movimenti di paesi diversi che si incrociano poco o nulla, e più spesso si dividono fino all’individualizzazione all’interno di ogni confine. Restano dei sentiment comuni, ma nessun collegamento stabile di qualche rilevanza politica.
Non si tratta di ricostruire oggi quel movimento, ma di prendere atto della nuova situazione per crearne uno del tutto nuovo e all’altezza dei tempi.
In secondo luogo – ed è un elemento di forte discontinuità rispetto al “passaggio di millennio” (da Seattle 1999 a Genova 2001) – il G20 non somiglia nemmeno lontanamente al vecchio G8. Quello era l’espressione del potere neoliberista consolidato e senza alternative, fortemente coeso al suo interno e con un nemico chiaro in testa: i lavoratori di tutto il pianeta, le loro organizzazioni sindacali, sociali e politiche.
Quegli otto paesi – il vecchio G7 più la Russia – totalizzavano il 65% del Pil mondiale. La presenza di Putin – allora non era affatto considerato un “nemico” – garantiva che il vecchio mondo diviso in due, tra capitalismo e socialismo reale, era definitivamente seppellito. Era il trionfo del “pensiero unico” e dell’egemonia planetaria degli Stati Uniti.
Il G20 di oggi rappresenta una potenza economica ancora più grande, vicinissima all’80% del Pil mondiale. Ma è oggi un luogo di scontro interno tra concorrenti.
Basta una rapida occhiata ai componenti. Oltre al vecchio G7 (Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Giappone) ci sono i Brics (Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica), nonché Argentina, Indonesia, Australia, Turchia, Arabia Saudita, Messico, Svizzera e Spagna come “invitato permanente”.
Il peso economico dei “grandi 7” si è ridotto a circa il 46% (quasi 20 punti in meno, in venti anni). La Cina, da sola, promette il sorpasso sugli Usa nel 2028. Ma tutto dipenderà da come gli Usa sapranno rispondere alla crisi pandemica. Potrebbe insomma avvenire anche prima.
Nel G20 ci sono blocchi di interessi in conflitto esplicito (Turchia versus Unione Europea, Usa contro Russia e Cina, ma anche in parte contro la UE, ecc), competizione non solo economica, alleanze a geometria variabile a seconda dei cambiamenti di governo (l’Argentina di Fernandez non è più quella di Macrì. il Brasile di Bolsonaro non è quello di Lula o Roussef, ecc).
Non vedere le divisioni e immaginare di contrastare il G20 con il complesso di idee, analisi, parole d’ordine, obbiettivi utilizzati contro il G8 sarebbe perciò un mancare sicuramente il bersaglio. Ma anche allora, possiamo dire dopo 20 anni, non è che siano riusciti a fare breccia più di tanto.
La pandemia, oltretutto, ha accelerato una crisi globale che da 15 anni ormai risulta insuperabile (ri ridefiniscono i rapporti di forza tra le varie macroaree economiche, ma “la crescita” complessiva resta un sogno).
E proprio le diverse gestioni dell’epidemia ha approfondito il divario tra modelli sociali che hanno dato priorità alla produzione rispetto alla salute e quelli che, al contrario, hanno messo la lotta al virus prima di tutto.
Non stranamente, l’ansia di profitto ha giocato contro se stessa: i paesi più neoliberisti (Usa, Brasile, Unione Europea tutta) hanno pagato il prezzo più alto sia in vite umane che in punti di Pil. Gli altri (la Cina, in primo luogo, ma anche Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda) sono passati quasi indenni sia sul piano delle perdite umane che dell’economia. La Cina, soprattutto, sta da nove mesi segnando record di crescita mai visti prima.
Il G20 di fine maggio, per coincidenza, si occupa proprio di sanità. E questo ne fa, al di là dei limiti operativi prevedibili, una formidabile occasione per mettere sotto processo 30 anni di privatizzazione dei sistemi sanitari pubblici in tutto l’Occidente.
Dovunque “il privato” era stato privilegiato si è dovuto registrare il massimo del fallimento. Nell’Italia della giungla regionalizzata, non a caso, la palma del peggiore è andata alla Lombardia, il cui sistema sanitario è stato quasi azzerato dalla successione Formigoni-Maroni-Fontana.
Ma non si tratta di “criticare il passato”. Fuori da ogni illusione di “ritorno alla normalità”, fuori da ogni fantasia idiota sul “tornare come prima”, dobbiamo sapere che questa pandemia è diventata endemica. Non se ne andrà con l’estate e non scomparirà con i vaccini. Bastano i risultati dei primi studi che limitano a sette-otto mesi il periodo di immunità post vaccinazione o guarigione.
Ad ottobre, insomma, bisognerà cominciare a vaccinare quelli di gennaio-marzo, mentre ancora non sarà stata vaccinata tutta la popolazione. E poi di nuovo, ogni anno, come per l’influenza stagionale, ma con margini di rischio molto più grandi.
Tutti i sistemi sanitari pubblici saranno perciò sottoposti stabilmente e per lunghissimi periodi a uno stress elevato. Come personale, strutture, organizzazione, macchinari, medicinali, ecc.
E’ una consapevolezza che si è fatta faticosamente strada anche ai vertici dei governi. Persino Mario Draghi – l’irresponsabile che ha deciso di “riaprire tutto” parlando di “rischio calcolato” – è costretto ad avvertire che “non sappiamo per quanto tempo durerà questa pandemia o quando ci colpirà la prossima“.
E che perciò “Dobbiamo sostenere la ricerca, rafforzare le catene di approvvigionamento e ristrutturare i sistemi sanitari nazionali. Dobbiamo rafforzare il coordinamento e la cooperazione globali“.
Ma ristrutturare come? Ridisegnando il sistema sanitario pubblico con massicci investimenti, formazione e assunzione di migliaia di medici e infermieri? Oppure proseguendo nella politica dei tagli di spesa e nell’aumento delle convenzioni con i privati?
Insomma: cambiando radicalmente strada o continuando a foraggiare il sistema che è fallito?
Silenzio, naturalmente. Ci farà la sorpresa quando avranno raggiunto un equilibrio tra interessi innominabili.
Già solo per questo vale la pena di partecipare allo sciopero generale della sanità proclamato dall’Usb, il 21, e alla manifestazione nazionale del 22, proposta da Potere al Popolo. Ma in ballo c’è molto di più, ed è ora di cominciarne a ragionare…
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