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La Fiat come metafora del declino industriale italiano

In vista dell’iniziativa  “Torino. Il fallimento della riconversione della città” pubblichiamo un contributo che analizza le varie fasi della più grande industria di auto italiana.

Una vicenda strettamente legata alla storia del capitalismo italiano e alle trasformazioni della città, che mette in luce il ruolo dello stato nei confronti degli imprenditori straccioni abituati ad usare lo stato come un bancomat. Dai grandi investimenti di Mussolini su Mirafiori; passando per la stagione dell’offensiva operaia – all’epoca pronti e capaci di controllare la grande fabbrica -; fino alla controffensiva padronale, ai licenziamenti di massa e alla fase di finanziarizzazione targata Marchionne, lo Stato italiano non ha fatto altro che regalare fondi pubblici a questa azienda senza nessuna garanzia sul piano occupazionale, ed è sempre stato politicamente orientato alle scelte degli Agnelli prima, di Marchionne e degli Elkann poi.

Il risultato è che gli azionisti si sono arricchiti fuori misura – come loro stessi dichiarano – gli operai, invece, hanno perso il lavoro. 

Oggi di quel 6% di area urbana, una volta adibito a fabbrica di automobili, ne è rimasto un vecchio cimitero abbandonato mentre Torino si inabissa tra disoccupazione, precarietà ed emigrazione. I responsabili di tutto questo hanno nomi e cognomi, buona lettura.

La Fiat come metafora del declino industriale italiano

La Fiat in Italia ha rappresentato indubbiamente l’esempio più rappresentativo della grande produzione di massa.

È noto che Giovanni Agnelli raccomandava di “copiare, copiare, copiare, memorizzate tutto quel che vedete e, mi raccomando, non aggiungete nulla di testa vostra” quando mandava i tecnici a Detroit ad imparare dalle officine Ford. Parliamo degli anni ’20, anni in cui fu inaugurato il Lingotto, il primo stabilimento italiano che adottava la catena di montaggio.

Il sistema Ford può essere descritto da tre ingredienti principali: i metodi scientifici di Taylor, la catena di montaggio e l’integrazione verticale.

Quest’ultima rappresenta la gestione più allargata possibile delle lavorazioni all’interno. Non fu una scelta pensata all’inizio da Ford. Le auto d’epoca erano composte da un telaio e da una carrozzeria che, ad esempio, era acquistata all’esterno e poi assemblata all’interno come modulo.

Chassis della Ford T allo stabilimento di Highland Park

Solo in seguito Ford, nel gigantesco stabilimento di River Rouge, pensò di portare tutte le lavorazioni all’interno, “dai minerali al prodotto finito”.

Questa scelta scaturì inizialmente da problemi di produttività perché i fornitori della Ford non riuscivano a soddisfare le richieste crescenti in termini di volumi della casa madre. I metodi che avevano permesso alla Ford di aumentare enormemente la produzione non erano stati ancora adottati dalle altre aziende.

Le dimensioni degli stabilimenti era quindi gigantesca. Nel 1938 Hitler inaugurò lo stabilimento di Wolfsburg (città creata dal nulla attorno alla fabbrica) e Mussolini nel 1939 inaugurò Mirafiori.

Nascita di Mirafiori

Queste erano le basi concettuali sulle quali fu realizzato il Lingotto prima (1923) e Mirafiori dopo (15 maggio 1939).

Lo stabilimento Fiat di Mirafiori

Non è solo l’iperbole di quella cifra tonda: un milione di metri quadrati per il solo stabilimento – che erano in realtà più del doppio in terreno disponibile (all’incirca 2.200.000 mq, sette volte la superficie del Lingotto), e che diventeranno, al colmo della parabola, addirittura 3 milioni e mezzo (oltre il 6 per cento del territorio urbano)!” (Marco Revelli, da Storia fotografica dell’industria automobilistica italiana, p. 29, Bollati Boringhieri, 1998).

I 10.000 operai iniziali dello stabilimento diventano 60.000 negli anni ’70 nei reparti fonderia, stampaggio, meccanica e carrozzeria.

Fine degli anni ’70 , i 35 giorni alla Fiat e la marcia dei “quarantamila”

La vicenda del 1980 sono state recentemente commemorata a distanza di quarant’anni. In estrema sintesi si trattò di una mobilitazione, di uno sciopero e picchettaggio davanti ai cancelli di Mirafiori che durò 35 giorni.

La protesta scaturisce dalla richiesta da parte della dirigenza della Fiat di messa in cassa integrazione 24 mila dipendenti a zero ore per 18 mesi. In alternativa l’azienda propone il licenziamento di 15 mila lavoratori. La vicenda si conclude con la cassa integrazione per 22 mila che in pratica non tornarono più in fabbrica.

Prima di quel momento, dice Revelli, solo a Torino, c’erano 130 mila dipendenti diretti. “130 mila operai tecnici e impiegati, vuole dire che intorno alla FIAT giravano, tenendo conto delle famiglie 300/400 mila persone, quasi metà della popolazione torinese, concentrati in 5/6 grandissimi stabilimenti.” Solo a Mirafiori ce n’erano 60 mila.

Come racconta Marco Revelli in Lavorare in Fiat (Garzanti, 1989) la ristrutturazione della produzione era già avvenuta e quell’episodio fu solo l’atto conclusivo di quel processo.

L’automazione principalmente e la separazione funzionale. L’introduzione di migliaia di robot, principalmente nel reparto di lastro-ferratura, aveva consentito il salto di produttività. C’erano poi le “settorizzazioni” che permettevano di separare funzionalmente una lavorazione dall’altra. Era stato costruito ad esempio un grande magazzino di scocche tra la lastratura e la verniciatura per permettere ai processi a valle di funzionare anche nel caso che la lastratura si fosse fermata.

E nelle linee ad alta automazione non c’erano più le squadre di operai ma un “conduttore di linea”, cioè un addetto che aveva il compito di far funzionare le macchine che diventarono le sue uniche “interlocutrici”.

Revelli, partendo dalla conoscenza diretta degli operai di fabbrica, degli esponenti del sindacato e della politica di allora, aveva raccontato come, negli anni ’70, la conoscenza operaia aveva permesso il controllo della produzione.

Una massa di persone inizialmente spaesate, provenienti da tutte le parti d’Italia, prevalentemente dal sud, che avevano imparato a conoscersi e a collaborare. Comprendere l’interdipendenza dei reparti era stato fondamentale e con gli scioperi a “gatto selvaggio” solo in un reparto riuscivano a bloccare l’intera produzione.

Gli interventi di ristrutturazione non avevano mirato quindi esclusivamente a aumentare la produttività sostituendo gli operai con le macchine ma erano entrati nella organizzazione produttiva per sottrarre il controllo della produzione agli operai.

Vittorio Ghidella e la Fiat degli anni ‘80

Vittorio Ghidella fu il volto dei successi industriali della Fiat degli anni ’80. Divenne responsabile del settore auto della Fiat nel 1979 e fu lui la mente industriale della ristrutturazione e dei nuovi modelli di successo, la Fiat Uno in cima a tutti.

Nella letteratura internazionale sull’automobile (il settore automotive del MIT è il più importante) dopo Giacosa (l’inventore della Topolino) c’è Ghidella, che fu un autentico innovatore nei campi del processo e del prodotto.

La capacità di affrontare il tema della complessità, cioè quella di diversificare l’offerta, portò la Fiat all’avanguardia in quel periodo. La creazione delle prime piattaforme di prodotto, un pianale con componenti standardizzati, da cui poi ricavare una gamma vasta di modelli, fu imitata successivamente dalla concorrenza.

Alla fine degli anni ’80 il gruppo Fiat era il primo in Europa per vendite e il secondo nel mondo (dopo General Motors). Sarà stata questa la spinta a progettare un’alleanza con la Ford perché l’idea era quella di trasformarsi in un grande gruppo mondiale già dall’inizio degli anni ’90.

Il conflitto tra Romiti e Ghidella è noto. Romiti, amministratore delegato dell’epoca, “uomo di Mediobanca”, spedito in Fiat da Cuccia per controllare i finanziamenti raccolti negli anni precedenti da Mediobanca per sostenere la Fiat.

Mentre l’idea e la determinazione di Ghidella era quella di investire l’enorme mole di profitti raccolti in quegli anni nell’auto, la posizione di Romiti e di Mediobanca fu quella di “diversificare”. Ritenevano l’investimento nell’auto troppo rischioso. Vinse la finanziarizzazione e Ghidella fu cacciato.

Gli anni ’90, lo “Stato imprenditore” che non c’è

La storia della Fiat degli anni ’90 e quella dell’Italia si sovrappongono. Nel 1991 si firma il trattato di Maastricht mentre il trattato di Schengen entrerà in vigore nel 1995. Le crisi politiche ed economiche italiane si riverberano sulla Fiat, già a partire dal 1992.

Il dibattito sullo “Stato leggero” è intenso ed è già cominciata la stagione delle privatizzazioni.

Le variate condizioni generali in termine di sostegno all’industria da parte dello Stato, in termini di sussidi principalmente nel caso italiano, il rispetto delle bande di oscillazione della moneta e l’insostenibilità generata dal processo di unificazione tedesca sono fatti noti.

Un’altra grande caratteristica della produzione della Fiat era la concentrazione nel mercato italiano. Per molti anni ancora più del 60% della produzione era venduto in Italia. Se l’Italia subiva una crisi economica questa immediatamente si rispecchiava in una crisi della Fiat. Questa condizione probabilmente era chiara a Ghidella che pensava di mondializzare l’azienda.

Ma in altri paesi europei il rapporto tra Stato e mercato erano molto differenti. In particolare in Germania e in Francia. Il controllo pubblico sulle attività produttive in Germania avviene tramite i lander. Il lander della Bassa Sassonia è il principale azionista della Volkswagen e le banche pubbliche regionali finanziano le attività produttive.

Il controllo francese invece è esercitato direttamente dallo Stato centrale. La Renault è stata un’azienda pubblica fino al 1996, ma continua ad essere partecipata dallo Stato, mentre il capitale pubblico è entrato in PSA solo recentemente.

Il potere della proprietà della Fiat ha invece tenuto sempre fuori il potere politico, provando ad assoggettarlo e ricattarlo a più riprese per ottenere sussidi. Ma lo Stato italiano non è mai entrato nel capitale azionario pur potendolo in teoria pretenderlo vista la mole di aiuti statali erogati lungo la storia della azienda.

Tutte queste condizioni portano la Fiat a perdere forza, passando da crisi in crisi. Negli anni ’90 l’unico momento di ripresa fu legato all’iniziativa della rottamazione promossa dal primo governo Prodi.

L’alleanza con General Motors

Alla fine degli anni ’90 la Fiat era agonizzante. Dopo il ritiro per ragioni di età di Gianni Agnelli arriva Paolo Fresco, allora vice presidente della General Electric, che assume il ruolo di presidente. Paolo Cantarella è rimosso dal ruolo di amministratore delegato nel 2000.

Le tappe principali dell’alleanza tra Fiat e General Motors: 13 marzo 2000. L’accordo viene firmato a Milano. Detroit acquista il 20% di Fiat Auto e, in cambio, Fiat spa entra con il 5,15% nel capitale di Gm, diventando il primo azionista privato della casa americana.

Per comprendere il clima in cui matura questa scelta non c’è niente di meglio che leggere le parole di Fresco stesso in un’intervista di Pierluigi Vercesi rilasciata al Corriere della Sera nel 2018.

Torniamo a Fiat: quale fu la sua strategia?

«Proposi all’Avvocato di vendere Fiat Auto. “È la cosa giusta” disse “ma il nonno si rivolterebbe nella tomba. Lo faccia quando sarò morto”. Testuali parole: “Per ora cerchi un’alternativa che sia progressiva”.

Cominciai una trattativa con i tedeschi di Mercedes Benz: offrivano 10 miliardi di euro, noi ne chiedevamo 12. A quel punto portai il presidente di Daimler, Jürgen Schrempp, a New York dall’Avvocato. Quando uscimmo, Schrempp disse: “Non ho superato la prova”. Agnelli non riusciva a entrare in sintonia con i tedeschi».

Quindi tutto da rifare?

«Qualche tempo prima mi avevano cercato da General Motors. Li richiamai e giocai il tutto per tutto: stiamo chiudendo a 12 miliardi con i tedeschi, firmiamo tra 15 giorni, avete qualcosa da proporci? Dissero che 12 miliardi andavano bene ma preferivano partire rilevando il 20%.

Risposi che la proposta mi allettava, perché l’Avvocato auspicava una soluzione graduale. Però dovevano darmi garanzie. Si rifiutarono, ma i tempi erano stretti e alla fine accettarono la fatidica clausola: a richiesta di Fiat, sarebbero stati obbligati a comprare il restante 80%».

Con quella «trappola», pardon, garanzia, lei ha salvato la Fiat…

«No, la Fiat l’ha salvata Sergio Marchionne. Diciamo che io gli ho fornito uno strumento efficace. Quando la nostra posizione sul mercato si deteriorò, Marchionne negoziò la rinuncia alla clausola ottenendo in cambio una penale salatissima e la restituzione gratuita del 20% delle azioni. Avrei tentato di farlo anch’io, ma l’Avvocato era morto e avevo ritenuto opportuno dimettermi».

Marchionne e la Chrysler

Marchionne arriva nel 2004 quando la Fiat era dichiarata “tecnicamente fallita”. Raccoglie un po’ di denaro dalla General Motors come spiegato da Paolo Fresco. Poi, con molta cautela promuove qualche investimento.

Arriva la crisi del 2008. A partire da questo momento lasciamo la parola a Riccardo Ruggeri, un ex manager del gruppo Fiat degli anni ’90, che nel libro Fiat, Remain o Exit (Grantorino libri editore) spiega con ironia e arguzia quello che realmente è accaduto e le “rappresentazioni teatrali” di Marchionne e del gruppo dirigente dell’epoca.

Leggiamo quello che scrive in 2009-2018 Sergio Marchionne secondo tempo.

Intanto la crisi del 2008 aveva cominciato a colpire anche gli Stati Uniti, le tre Big dell’Auto (GM, Ford, Chrysler) sono in ginocchio, Ford decide di salvarsi da sola, le altre chiedono aiuto allo Stato. Il Presidente Obama decide di salvare GM (la parola autentica “nazionalizzazione mascherata” non si può usare, siamo nel paese del liberismo più sfrenato, o no?) e di “vendere” Chrysler (peccato che sia di proprietà di Daimler, ma il Presidente tutto può). La tedesca Daimler ha rischiato di fallire per l’avventura Chrysler, si sussurra che il giochino le sia costato 60 miliardi di dollari.

Al primo tintinnio di manette (ebbene sì, gli americani lo fanno), i tedeschi gettano la spugna, e tornano di corsa in Germania.

Chrysler viene offerta a tutti i costruttori di auto del mondo, tutti la rifiutano. Perché?

Arriva Marchionne, e in tempi rapidi l’operazione si chiude.

Trovo subito curiosa questa operazione, sembra un gioco delle tre carte, eppure al tavolo verde c’è Barack Obama, appena eletto Presidente, c’è la Fiat con Marchionne. Come può un’azienda giudicata “junk” da una primaria società di rating americana appena due mesi prima, acquistare, in America, la fallita Chrysler senza metterci del cash ma solo “carta”: disegni e know how (presunto)?

Riflettendo con il Wall Street Journal è corretta la sintesi “Una nazionalizzazione mascherata seguita da una privatizzazione facilitata”. Di norma chi compra, se ci mette quattrini veri, pretende il potere, il management, la sede del Quartier Generale, lo sviluppo prodotto, la cassa, gli investimenti, la difesa dei suoi stabilimenti nazionali. Altrimenti non avrebbe senso, chiosa il WSJ. Sacrosanto.

Infatti è finita così, all’Italia sono rimasti tanti Piani industriali ben infiocchettati e quattro stabilimenti non strategici (i cattivi dicono “cacciavite”), legati all’andamento del mercato italiano ed europeo. In America le small car di tecnologia verde italiana non si sono viste, perché al cliente americano non interessavano. Quello specchietto fu solo un modo per tranquillizzare un Obama a quel tempo in versione Greta.

L’America, grazie al genio del deal maker Marchionne, ha “salvato” anche Fiat, lasciando la proprietà formale a noi investitori, dando agli americani la governance effettiva (un’operazione Cuccia rovesciata).

Così è finita, come doveva finire: Detroit è rimasta una delle capitali dell’auto mondiale, Torino è diventata una città della cultura. Quel che è certo, l’Italia non ha più un’industria dell’auto, è come la Spagna.

Marchionne nel frattempo, procede con passo da bersagliere all’integrazione fra Fiat e Chrysler, negozia con durezza il “costo del lavoro”, sia con l’Amministrazione Usa che con i sindacati americani UAW.

Ottiene grandi benefici sui costi, è evidente che la contropartita (sottesa) sarà: investimenti di prodotto su Jeep e RAM, investimenti sugli stabilimenti ma solo in quelli americani. Niente trippa per l’Italia. Non sì può dire, ma sarà così, lo scopriremo presto.

Nel frattempo, continua implacabile la politica di Marchionne del privilegiare la cassa su ogni altro aspetto. Altro che “cicli di sviluppo”: non ci sono i quattrini, non si fanno aumenti di capitale.

C’è il problema dell’Europa, intesa come investimenti industriali e come sviluppo prodotti di nuova generazione: auto elettriche ibride e veicoli a guida autonoma. Che fare?

Marchionne ha un problema ancora più grande: l’Italia. Avendo saltato gli strategici cicli di sviluppo (analizzati nel “Primo Tempo della sua gestione) è in un terribile cul de sac.

Deve come ovvio confermare che il cervello e il cuore di FCA sarà l’Italia. Quindi, gli investimenti prioritari qua devono avvenire. Lui sa che non finirà così, perché è già tutto deciso, FCA sarà un’azienda americana. Allora ha un’idea, l’ennesima, al solito geniale.

Si muove su due piani, diversi ma complementari, necessari a realizzare il suo “disimpegno italico (tagliare la corda e non pagare pegno). Si inventa una strategia prodotto-mercato suggestiva: uscire dalle auto medio-piccole per clienti poveri ed entrare nel ricco segmento premium di fascia alta.

Il futuro ha i nomi di Alfa Romeo e di Maserati, due marchi prestigiosi. I “competenti” nostrani hanno orgasmi multipli nell’assistere in diretta al miracolo. Nei miei Carnei di allora battezzai questa strategia “ballon d’essei colorati’: applicati a finti Piani Industriali.

Si apre un dibattito surreale sul costo del lavoro, sulle regole, sulle pause (sic!). C’è pure un consulente giapponese. Tutti si scatenano, le ideologie liberal-liberistiche e quella marxista si scontrano, tutti prendono posizione.

In realtà è tutto finto, perché FCA non ha né i prodotti da produrre e né i quattrini per fare gli investimenti industriali relativi. Si crea così un milieu socio culturale ove “la meglio gioventù” dei salotti, dell’accademia, del sindacato, delle redazioni giornalistiche si scontreranno per lungo tempo sul nulla, perché in realtà si trattava di una gigantesca bolla di fake truth.

Quello di cui si dibatteva sarebbe stato fatto in America, era già tutto scritto nei patti para-sociali ufficiali o segreti poco importa. Per l’Italia non e era neppure la trippa per gatti.

I “competenti“ che facevano dotte discussioni sul segmento Premium (suonava bene) non sapevano che era tecnicamente infattibile. FCA non era attrezzata per riprendere un percorso Premium dal quale era uscita trent’anni prima.

La mitica Audi ci aveva messo vent’anni (sic!) per entrare in tale segmento, pur essendo tedeschi e pur spendendo una montagna di quattrini, e avendo al vertice Ferdinand Piech. Poi ci volevano talenti progettativi, fornitori ultra qualificati, reti di vendita specializzate nell’alta gamma, etc. etc. E poi quattrini freschi a tavoletta. E poi …

Che fare? Ovvio, affrontare il problema dal punto di vista comunicazionale, la sempreverde politica degli “annunci” torna pimpante e pagante in casi come questi. L‘ispirazione? Il parallelo con “gli aerei di Mussolini” con cui il Duce gabbò persino Hitler.

Così, ogni anno Piano industriale, più aggressivo del precedente (uno degli obiettivi qualificanti erano le solite nuove 400.000 Alfa Romeo prodotte all’anno che avrebbero lanciato l’azienda al successo planetario). Marco Cobianchi sui Piani di Marchionne ci scrive un libro imperdibile, American Dream.

Il più divertente di questi piani fu “Fabbrica Italia”. Prevedeva un investimento di 20 miliardi di euro senza che ci fossero né i prodotti, né i clienti, né i 20 miliardi. Questa fake truth era talmente stravagante, al limite del ridicolo, che lo stesso Marchionne, due anni dopo, fece autocritica e chiese scusa (sic!).

Pochi capirono che quelli non erano Piani Industriali, ma un solo gigantesco Piano comunicazionale di annunci che davano il via a “tavoli” sindacali e politici ove mancavano prodotti, clienti, investimenti, quattrini, sostituiti da chiacchiere infinite e vuote.

Un grande teatro dell’assurdo, tenuto in vita, secondo una raffinata strategia comunicativa, da oracolari battute di Marchionne sparate mentre sfrecciava in su e in giù per l’Atlantico.

L’unico aspetto certo, e sempre presente dei vari Piani, erano i cassaintegrati che si muovevano a fisarmonica, a seconda dei bisogni.

Assistemmo a una ipnosi collettiva e pluriennale di un’intera classe dirigente, in costante stato di apnea intellettuale. Tutti pendevano dalle labbra del prestigiatore Marchionne. I suoi adepti persero ogni capacità di separare il grano (la realtà) dal loglio (la fuffa, la bugia). Però sembravano felici, convinti di vivere e condizionare la storia.

Un bel giorno del 2014, nell’Auditorium Chrysler di Auburn Hill, il secondo edificio d’America dopo il Pentagono, fu presentato il primo Piano Industriale di FCA. Riassumeva tutti i finti Piani precedenti, ma questo doveva apparire quantomeno “veritiero”; perché sarebbe stato presentato alla Borsa.

Per 11 ore e 18 minuti i manager di FCA si alternarono sul palco sotto la sapiente guida del “domatore” Marchionne, bombardando i presenti con parole, numeri, grafici, slide. Una grande rappresentazione teatrale. Chapeau! In questo piano un obiettivo era chiaro: azzerare il debito con ogni mezzo.

E azzeramento fu.

Un amico mi assicurò che gli italiani presenti (giornalisti, consulenti, sindacalisti) si commossero, come alla presentazione del “Fabbrica Italia”. La strada verso Wall Street ora era spianata.

In quegli anni Marchionne diede il meglio di sé. Con lui, per noi investitori, è stata sempre primavera. Con il giochino degli annunci, degli scorpori, delle quotazioni in borsa) prima di CNH Industrial, poi di Ferrari, Marchionne ha continuato, fino alla sua morte, a creare ricchezza finanziaria.

Da una grossa cuscuta trasse infinito miele. E lo distribuì. A noi. Non ci aveva mai mentito, sempre l’aveva detto e fatto: “Sono qua per fare gli interessi degli azionisti”: E così è stato.

E gli stakeholder? Sacrificati, a favore degli azionisti (Ceo capitalism in purezza). C’est la vie.

Dal 2009 la strategia di Marchionne è stata lucida, focalizzata a creare valore in qualsiasi modo per FCA, lavorando per trovare un compratore (ovviamente nel linguaggio del politicamente corretto si deve scrivere “alleanza alla pari”).

Sono intellettualmente soddisfatto di aver previsto in tempi lontani come sarebbe finita, ma in fondo per uno del mestiere non era poi così difficile. Come investitore storico (2009) sono stato trattato con i guanti, mai investimento (seppur risibile) fu meglio ricompensato.

Certo, come torinese e italiano sono invece profondamente depresso, anche se conosco la battuta che si fa in questi casi: “è il Ceo capitalism, bello mio”. Tutto chiaro, tutto bene, ma come investitore che fare? Remain o Exit?

L’operazione Marchionne è del tutto chiarita. Restano le macerie.

Stellantis, ultimo capitolo.

Come si è visto, la vendita di FCA al gruppo PSA era stata ipotizzata. PSA aveva acquisito Opel-Vauxhall nel 2017, lasciato dalla General Motors in ristrutturazione.

L’obiettivo è sempre lo stesso: economie di scala, sinergie, tagli di costi.

Il processo di semplificazione del mercato automobilistico ha avuto inizio nel 2000, con le prime acquisizioni. Gli analisti di mercato ipotizzavano 6 grandi aziende, due negli USA, due in Europa e due in Asia.

Le cose non sono andate così. Non sono andate così perché molte aziende non sono riuscite ad integrarsi (la vicenda di Daimler con Chrysler è stata accennata da Ruggeri, anche la Ford con la Volvo non funzionò e così in altri casi), e non sono andate così anche perché nello scenario automobilistico si sono affacciati altri attori come quelli indiani e cinesi ad esempio.

Non una fusione, ma un’alleanza tra Renault e Nissan, invece ha funzionato, anche perché effettivamente le due aziende erano complementari.

A varie ondate, di crisi in crisi, si stanno realizzando alcune delle fusioni ipotizzate.

Avevano invece funzionato le annessioni della Volkswagen, quelle della Seat, della Skoda e dell’Audi. Il discorso sull’Ostpolitik tedesca nei confronti dei paesi dell’ex patto di Varsavia richiederebbe spazio che qui non abbiamo.

Certo è che le catene del valore si sono consolidate e che la Germania è diventata molto competitiva dopo la riunificazione grazie alla produzione di componentistica a basso costo di manodopera in Repubblica Ceca, in Slovacchia, in Ungheria e in Polonia.

La storia della Fiat in realtà è finita alla fine degli anni ’80. Col senno di quello che è accaduto, dell’unificazione europea in primis, è evidente che le uniche carte da giocare erano quelle di Ghidella. Ma le cose non andarono in quella direzione.

Si potrebbe commentare il processo di centralizzazione del capitale come la conferma scientifica della teoria di Marx. Centralizzazione senza concentrazione, direbbero Bellofiore e Halevi, perché la dislocazione della produzione non prevede più concentrazione umana in sedi sempre più grandi, ma una gestione sempre più sofisticata delle filiere.

Si potrebbe anche commentare con la teoria della distruzione creatrice di Schumpeter. Senza innovazioni di processo come fu il fordismo, innovazioni che moltiplicano la produttività, le aziende del settore, in un regime concorrenziale, sono costrette ad assistere ad una tendenza dei profitti ad azzerarsi.

È quello che è accaduto negli anni ’90. La competitività della Germania è determinata da fattori geopolitici più che da fattori tecnologici.

In questo scenario, il destino della produzione di auto in Italia è destinato a declinare. Anche se si mantiene un certo livello di produzione di componentistica automotive in quanto le grandi multinazionali del settore continuano ad avere sedi in Italia, in particolare nel lombardo-veneto.

Sono diventate prevalentemente fornitrici di aziende tedesche e francesi visto che il gruppo Fiat ha progressivamente diminuito le sue quote.

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