Grandi opere, nuove colate di cemento, deregulation, ammorbidimento delle norme che tutelano i lavoratori e le lavoratrici a tutto vantaggio di imprese e della rendita, eliminazione delle tutele sociali, fine del blocco degli sfratti e dei licenziamenti per chi è ‘regolare’, mano libera a fondi immobiliari e investimenti speculativi, mentre chi vive e lavora in situazioni ritenute illegali o informali è già sotto attacco: questa, secondo l’attuale esecutivo, sarebbe la ricetta infrastrutturale per uscire dalla crisi.
Evidentemente, nulla ha insegnato un anno di pandemia, in cui la prima invocazione rivolta alle persone per proteggersi è stata quella di restare a casa.
Ma come si rimane a casa, se la casa non la si ha, o è perennemente sotto attacco? Dove è il diritto alla salute di chi vive in condizioni alloggiative precarie, inadeguate, sovraffollate e fatiscenti tanto dentro gli affitti privati, quanto nelle case popolari (mal)gestite da istituzioni ed enti più interessati a valorizzare che a manutenere, o che vive con la spada di Damocle dei pignoramenti da parte delle banche?
Anche il Ministero alle Infrastrutture, con cui si era aperta un’interlocuzione, appare meno disponibile al confronto e all’ascolto.
È evidente che nel Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale non ci sono passaggi degni di nota capaci di affrontare la questione abitativa. Decisamente le richieste crescenti di casa e dignità di abitanti in difficoltà e generazioni sempre più precarie e impoverite le cui condizioni materiali sono state messe ancora più a dura prova dalla pandemia, non vengono recepite.
Emblematico è anche l’approccio alla questione dell’edilizia scolastica e degli studentati, dove invece di allestire strumenti in grado di calmierare il mercato privato che sfrutta impunemente giovani precari, il ministro Giovannini ha ben pensato di offrire ulteriore spazio agli investimenti privati, ammorbidendo ulteriormente i criteri di abitabilità.
Per non parlare, infine, delle orecchie da mercante fatte alla richiesta di abolire immediatamente gli escludenti articoli 3 e 5 del “Piano Casa” Renzi-Lupi del 2014 che, combinando la negazione della residenza agli abitanti ritenuti senza titolo, e la massiccia vendita delle case popolari, hanno prodotto una negazione sostanziale dei diritti sociali e civili, che ben poco ha da invidiare alle leggi sull’urbanesimo, agli sventramenti e le deportazioni di mussoliniana memoria.
Evidentemente, è troppo profonda la distanza tra chi pensa che occuparsi di politiche abitative significhi fare greenwashing e avviare nuovi cantieri per opere inutili e dannose. Iniziative giustificate con la necessità di far ripartire il comparto delle costruzioni, senza però puntare con decisione sul riuso dell’esistente pubblico e privato finalizzandolo ad una nuova stagione di edilizia residenziale pubblica.
Si utilizza il termine social housing per mascherare un abbandono sistematico del ruolo dello stato nella gestione dell’abitare, consegnando di fatto nuovamente nelle mani della rendita e del mercato le soluzioni da mettere in campo. In questo modo si rinuncia al ripristino del controllo pubblico sui canoni di locazione e la pianificazione urbanistica orientata alla cura della città pubblica.
Anzi: ancora una volta, come esemplificato dal capitolo Caput Mundi del PNRR, si ritiene che la ricetta per la ripresa sia alimentare quella monocoltura turistica che sottrae alloggi, saccheggia e svuota i territori, e fa da moltiplicatore alla gentrification e ai processi espulsivi dei residenti che non riescono ad essere ‘resilienti’ rispetto alle sempre crescenti pretese della rendita.
Nonostante l’interlocuzione interrotta, la nostra capacità di intrecciare il ragionamento e il conflitto non si è mai interrotta.
Ragionando insieme a partire dalle linee dei picchetti antisfratto, dalle piazze, dai cortei, dalla costruzione delle barricate per opporci agli sgomberi delle occupazioni abitative, abbiamo continuato ad aggiungere tasselli a quella proposta popolare di Legge sull’Abitare che abbiamo evocato dal 27 marzo con la petizione ‘Senza Casa Non C’è Salute!’ (www.change.org/LeggeAbitare2021), poi nel corso del Convegno nazionale svolto nell’occupazione abitativa di Metropoliz a maggio 2021, e che oggi sentiamo come più che mai imprescindibile.
Oggi ancor di più di quel 19 ottobre di alcuni anni fa, non possiamo che affermare che la lotta, l’organizzazione, la riappropriazione diretta di reddito indiretto attraverso la casa siano l’unico terreno di riscatto possibile per tutte quelle persone che sono state rese precarie, sfruttate e abbandonate persino dopo la pandemia da istituzioni che pensano che il problema della casa sia una questione di rendita, di profitto del terzo settore, o peggio ancora una questione di ordine pubblico.
Ancora una volta, dunque, non possiamo che gettare il cuore oltre l’ostacolo e chiamare a raccolta sabato 26 giugno a Roma tutte le realtà nazionali impegnate sul terreno del diritto all’abitare. Proponiamo di muoverci insieme in corteo alle ore 15 da Piazza della Repubblica per confluire a Porta Pia sotto le finestre del Ministero Infrastrutture e Trasporti per riprendere un confronto prima che la situazione diventi più drammatica.
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