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Tempi di guerra

Per cui se servirà,

Del sangue ad ogni costo

Andate a dare il vostro

Se vi divertirà

Il Disertore, Boris Vian, 1954

Siamo in guerra.

Siamo entrati come co-belligeranti dentro un conflitto dagli esiti incerti e che ha preso una spirale molto pericolosa. Questo è avvenuto senza che nessuno – tra l’altro – abbia dichiarato guerra al nostro paese.

L’Unione europea ha, di fatto, dichiarato guerra alla Russia, mentre alcuni strateghi di Washington non nascondono che vorrebbero fare dell’Ucraina un nuovo “Afghanistan” per Mosca.

Il grado di pericolosità che stiamo affrontando è dato principalmente da due fattori.

Innanzitutto non vi è una cornice condivisa all’interno della quale possano trovare risoluzione le frizioni scaturite dall’iper-competitività tra differenti attori geopolitici, e coloro che prendono decisioni sembra non tengano conto delle possibili conseguenze delle loro scelte, il più delle volte scellerate, come nel caso dell’invasione ucraina.

É una tendenza che vediamo in atto da tempo, ma che non era mai degenerata neanche nei momenti di più critici della storia recente, probabilmente a causa del persistere della reciproca deterrenza atomica; deterrenza che all’oggi vediamo piuttosto relativizzata.

Ora siamo ad un gioco “a somma zero” dove, per ciò che riguarda i decision makers, la strategia e la tattica da scacchisti sembra essere stata sostituita dall’improvvisazione di chi gioca a dadi.

Tra le grandi potenze fa eccezione la Cina, ma anche lei ha tracciato alcune “linee rosse” molto precise, su cui non esiterebbe a muoversi, se necessario.

Chiariamoci subito: il vecchio equilibrio delle forze aveva prodotto uno stallo, che non era immobilità ma un equilibrio precario.

Ma ora la situazione sembra precipitare in un rapido susseguirsi di punti di non ritorno, in cui l’espressione “nulla sarà come prima” assume ogni giorno una maggiore stratificazione semantica, e certo non di segno positivo.

Anche i discorsi dei singoli statisti hanno abbandonato i toni diplomatici tipici del “tempo di pace” per assumere quelli bellicosi dei tempi di guerra.

Siamo di fronte ad una rottura.

Due fatti relativamente recenti sembravano far supporre che il dado fosse già stato tratto e che ci stavamo avviando ad una imponderabile escalation militare. Ma poi le cose sono sostanzialmente rientrate, producendo un nuovo riassetto di relazioni senza che la piega degli eventi risultasse catastrofica.

Stiamo parlando dell’abbattimento dell’aereo Su-24 russo avvenuto il 24 novembre 2015 ad opera di due F-16 turchi, ai confini della Siria, e l’uccisione di Qasem Soleimani da parte degli Stati Uniti, il 3 gennaio del 2020.

Due fatti macroscopici, anche se gestiti con l’antico “equilibrio”. Era infatti dall’inizio degli anni Cinquanta che un aereo russo – allora sovietico – non veniva abbattuto da un paese NATO; e, per ciò che concerne il leader militare iraniano – di fatto il “numero 2” del regime degli ayatollah -, non era mai successo che gli Stati Uniti rivendicassero apertamente l’uccisione extra-giudiziale di un ufficiale di alto profilo di un paese con cui formalmente non sono in guerra.

In entrambi casi, si era in presenza di un cocktail di fattori esplosivi per attori di peso assoluto, che moltiplicava l’instabilità dell’area.

Ma lo shock fu riassorbito, alzando comunque pericolosamente l’asticella, in entrambi i casi con reazioni relativamente limitate rispetto da parte dei “danneggiati”, mentre i vari attori coinvolti cercavano di capitalizzare ciò che era successo.

Se ora diamo uno sguardo all’atlante dei conflitti tutt’ora irrisolti, ci accorgiamo che la forma della guerra è entrata sempre più come mezzo di risoluzione di questioni politiche che non hanno trovato soluzione.

In Ucraina siamo di fronte ad un conflitto iniziato nella parte finale del 2013 – ma che possiamo retrodatare, nei suoi fattori scatenanti, al 2004 con la “rivoluzione arancione” – che non ha trovato una soluzione diplomatica. Una conflitto che come tanti altri sembrava “congelato”, ma è diventata guerra a tutti gli effetti e ci sta trascinando verso l’imponderabile.

A voler tagliare con l’accetta, è stata la fine dell’URSS a creare le condizioni in cui ci troviamo ora.

La frizione tra Occidente e Russia, per il contrasto evidente tra l’allargamento ad est della NATO – insieme al processo di integrazione dell’Unione Europea -, è diventato scontro aperto, dove a questo punto nessuno sembra voler fare un passo indietro, mentre infuriano i combattimenti e l’invasione russa non ha sortito gli effetti sperati di una guerra lampo quasi chirurgica.

Se a Washington ed a Bruxelles hanno “giocato con il fuoco” in tutti questi anni, Mosca non si è accontentata di proteggere manu militari le due Repubbliche Popolari dopo averle tardivamente riconosciute, ma si è lanciata in una invasione che stride alquanto con il linguaggio usato per definirla: “operazione speciale”.

Una forzatura di Putin tesa a riallineare la politica complessiva rispetto all’Occidente, ma che ha incassato una dura condanna in ambito ONU l’altro giorno.

Le Nazioni Unite hanno messo ai voti una risoluzione che esige che Mosca metta fine ai bombardamenti e ritiri le proprie forze dall’Ucraina, approvata con 141 voti favorevoli, 35 astenuti (tra cui la Cina), e solo 5 che hanno votato contro.

Particolare non secondario, il conflitto sembra internazionalizzarsi non solo per il moltiplicarsi dei soggetti che hanno un ruolo nelle differenti forme che assume la guerra (anche Giappone e Australia manderanno armi e applicheranno le sanzioni), ma per l’affluire in Ucraina di neonazisti e jihadisti, come hanno fatto del resto durante gli otto anni di guerra alle popolazioni del Donbass.

Il nostro governo, e le forze parlamentari che lo sostengono, hanno deciso di farci entrare di fatto come co-belligeranti, inviando armi all’Ucraina attraverso un “ponte aereo” da Pisa verso Polonia e Romania.

Questi due Stati, entrambi membri della NATO, diventeranno quindi gli hub finali della catena logistica militare anti-russa promossa dagli stati della UE, esponendosi non troppo ipoteticamente alle immaginabili ritorsioni di Mosca – messa sempre più con le spalle al muro – che potrebbero far scattare il famigerato Articolo 5 dell’Alleanza Atlantica.

In caso di attacco russo, secondo quando recita l’articolo, gli Alleati possono reagire “intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.

Detto senza mezzi termini un conflitto NATO e Russia, che tutti vorrebbero evitare a parole, ma che nessuno fa niente per impedire.

Inoltre, invieremo a coprire il “fianco est” della NATO mezzi e uomini, in numero potenzialmente superiore a quello di un qualsiasi altro contingente militare italiano all’estero in funzione di combattimento dal dopoguerra ad oggi.

Le tragiche avventure in Afghanistan e Iraq, in cui l’Italia ha avuto un ruolo subordinato ma non troppo secondario, non contavano un tale dispiegamento di uomini in un singolo teatro, né una così spiccata inclinazione ad accoglierne i profughi, cosa che da sola chiarisce il “doppio standard” utilizzato a casa nostra.

In meno di una settimana, L’Unione Europea, che sembrava in un primo tempo non così reattiva, ha messo l’elmetto, a cominciare dal proprio capofila tedesco, che ha deciso, così come gli altri paesi del continente, invio di armi all’Ucraina, sanzioni inedite contro la Russia ed un progetto di riarmo a largo raggio che gela il sangue nelle vene a chi sa anche solo vagamente cos’è stato il militarismo tedesco nel Novecento.

Macron non è stato da meno e Sanchez, un poco più titubante, si è allineato.

Unione Europea e Occidente hanno intrapreso poi una serie di altre misure che ledono il diritto di informazione e non permettono in Europa l’accesso ad alcuni canali russi, forme di boicottaggio sportivo, ma anche il settore dell’intrattenimento e della cultura non sono stati da meno. Perfino i gatti russi non potranno comparire nelle fiere feline!

In questo clima sciovinista e baldanzoso è tutto un” tintinnar di sciabole” che ricorda le classi dirigenti europee alla vigilia del massacro della Prima Guerra Mondiale. Con l’Italia che sta andando forse anche oltre.

Si vuole scatenare una “peste emozionale” come tessuto connettivo di un montante movimento reazionario di massa, in cui il processo di creazione del nemico assume forme parossistiche, non dissimili da quelle del Ventennio.

Un clima dove la “crisi dei valori dell’Occidente”, cui ci aveva portato la pandemia, sembra risolversi nel tentativo di mobilitazione bellica al fianco di uno Stato dove governa una galleria di mostri post-sovietici fatta di oligarchi, gansters e neonazisti.

Uno Stato che per otto anni ha fatto – e continua a fare – la guerra alle popolazioni del Donbass, che aveva ferocemente represso (anche recentemente) ogni forma di dissidenza interna, in un clima di militarizzazione che non ha pari alle nostre latitudini.

Una élite corrotta e parassita, quella ucraina, di cui l’attuale Premier è degno rappresentante, ma funzionale all’Occidente, dal quale erano giunti soldi e armi in grandi quantità.

Questo tentativo di mobilitazione reazionaria, che è l’ultima risorsa ideologica di una classe dirigente in crisi di legittimità, può però ribaltarsi contro i propri artefici, considerato che i fattori di oggettiva instabilità e la diffusa percezione di insicurezza sta aumentando a dismisura.

Si incrementa il solco tra “paese legale” votato a questa nuova crociata ed il “paese reale” uscito malconcio da due anni di pandemia, da più di un decennio di crisi e che vede profilarsi all’orizzonte l’ipotesi di una escalation bellica – cui è contrario – e una stagflazione forse peggiore di quella degli anni Settanta.

Un Paese che pone grande attenzione a quello che sta succedendo, come dimostrano i dati Auditel sui telegiornali dei canali “generalisti” e gli ascolti delle reti di notizie. Anche se fatica a trovare voci che escono dal coro guerrafondaio…

Quel minimo di cerniera che ancora costituiva “la politica” sembra ulteriormente rompersi dentro la rigidità delle scelte fatte a Bruxelles, costi quel che costi.

Austerità e guerra sembrano le uniche ricette elaborate dalle geniali menti delle oligarchie europee per uscire dalla crisi.

Rovinare i loro piani, diviene una questione vitale per tutti noi.

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1 Commento


  • Alex1

    Condivido in pieno l’analisi

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