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L'”ordine mondiale” si è rotto

In una guerra si affermano punti di vista “bipolari” corrispondenti agli interessi in campo. In una guerra tra paesi capitalisti – la differenza tra oligarchie multinazionali e oligarchie quasi soltanto nazionali è ininfluente – il punto di vista del “popolo” scompare o viene schiacciato su quello del “proprio” capitalismo.

L’ordine che proviene dal potere è sempre lo stesso: “mettete da parte dubbi e obiezioni, arruolatevi sotto il nostro comando”.

La guerra in Ucraina non fa eccezione. Ma c’è stavolta qualche differenza sostanziale, nella reazione popolare delle “sinistre”. Uno sbandamento e un’incertezza che non possono essere addebitati solo alla evidente debolezza degli impianti teorici, delle visioni del mondo, delle capacità di analisi su questioni complesse.

C’è stavolta una novità strategica, che segna anche un passaggio di fase storica.

Avevamo fatto l’abitudine – tutti noi “occidentali – ”alle “guerre americane” contro paesi molto più deboli (le “guerre asimmetriche”). Guerre sostanzialmente non contrastabili sul piano militare, in cui l’establishment e i media europei sostenevano più o meno convintamente la posizione Usa, lasciando qualche spazio anche per le critiche soft o comunque per i dubbi.

In quei casi le sinistre e i pacifisti hanno potuto schierarsi contro, manifestare, scrivere e promuovere appelli. Non si producevano troppe conseguenze e il potere non ne veniva disturbato più di tanto. L’unico “incidente” è stato il caso di due senatori di sinistra che nel 2008 mandarono sotto il governo sulla guerra in Iraq e Afghanistan.

Ora la situazione è radicalmente diversa. C’è qualcun altro che “mena”, con metodi e violenza non troppo dissimili da quelli usati per 30 anni dall’imperialismo Usa/Nato. Possiamo esercitarci nei distinguo sui dettagli – è vero che ancora non ci sono bombardamenti a tappeto sulle città ucraine paragonabili a quelli Usa/Nato su Baghdad, Falluja o Belgrado – ma ben pochi riescono a cogliere queste differenze. Anche perché i media di regime hanno cancellato ogni accenno a quelle vicende…

Ma gli effetti sono piuttosto simili: vittime civili, popolazioni in fuga, radicalizzazione degli odi reciproci tra “vicini” che in tempi recenti erano parte della stessa “famiglia”.

L’Occidente neoliberista si trova perciò questa volta in una posizione molto diversa, sia soggettivamente che nella percezione comune. Dopo 30 anni di espansione inarrestabile ad Est, guerre in Medio Oriente, Afghanistan, Africa, colpi di stato camuffati da “rivoluzioni arancioni” in ogni angolo del pianeta, deve ora misurare ogni passo per non alimentare una escalation dalle conseguenze incontrollabili.

E’ perfino rimasto spiazzato dalla mancata dissoluzione del governo ucraino, di cui aveva previsto la fuga fino ad offrire pubblicamente “un taxi” per raggiungere una capitale europea.

In quel caso la “maledizione” sulla Russia e su Putin si sarebbe svolta secondo le solite movenze – sanzioni economiche, promozione degli “oppositori interni”, campagne mediatiche ad hoc – ma senza mai sfiorare alcun tasto davvero pericoloso.

L’occupazione militare russa e il fronte ucraino costringono invece a cercare una risposta operativa più visibile, per ora limitata alla fornitura di armi che difficilmente arriveranno – una volta passato il confine – nelle mani di qualcuno che possa usarle (nella guerra contemporanea, chi ha il controllo dello spazio aereo può distruggere qualsiasi convoglio).

Fare “di più”, come chiedono tanti combattenti da operetta (da Enrico Letta in giù), significa fare un passo nell’ignoto. Ammettere nella Nato o accettare l’adesione dell’Ucraina nell’Unione Europea, per di più con procedure specialissime e immediate (come auspicato dalla maggioranza del Parlamento di Strasburgo, fortunatamente – bisogna dire in questo caso – privo di ogni potere legislativo) equivarrebbe a portare la UE in guerra.

Semplicemente impensabile, in questo momento e con l’attuale autonomia strategico-militare europea.

Ma un “ordine mondiale” si è rotto. Forse definitivamente.

L’intervento militare russo consegna però all’Occidente neoliberista un’occasione formidabile per ripulirsi l’immagine verso i propri stessi popoli, dopo 30 anni di aggressioni vigliacche, l’aumento spaventoso delle disuguaglianze sociali, una gestione criminale della pandemia, le responsabilità nel cambiamento climatico, ecc.

In più, investendo i popoli ucraini, li consegna al nazionalismo più reazionario, già presente in quel paese in modo violento, esteso e legittimato da tutti i governi degli ultimi 8 anni (con milizie e partiti neonazisti che hanno alimentato ogni giorno l’aggressione militare al Donbass).

Come se non bastasse, la diaspora ucraina nei paesi europei – attualmente ingigantita dal flusso di profughi – diventa così “l’acqua” dentro cui potrà svilupparsi una presenza nazista operativa all’interno delle “democrazie occidentali”, tollerata e magari utilizzabile alla bisogna contro l’opposizione sociale e politica interna.

Sul piano macro, le sanzioni contro la Russia accelerano un processo già in atto da tempo: la separazione tra macro-aree economiche di dimensioni continentali, ufficializzando la fine completa della “globalizzazione”.

Al di là delle manovra finanziarie – rapide da decidere e fare – una quantità incalcolabile di aziende “fisiche” devono ridisegnare le proprie catene di fornitori, ricalcolare i costi di produzione a causa dell’esplosione dei prezzi delle materie prime (energetiche e non, visto per esempio il record del grano), cambiare il “parco clienti”, ecc.

Il rilancio del neoliberismo occidentale – in nome del quale in due anni di pandemia erano state sacrificate milioni di vite pur di non fermare mai la produzione – trova così limiti sempre più rigidi da superare. E i piccoli sotterfugi – come le mancate sanzioni sulle filiere del gas proveniente dalla Russia – non cambiano l’equazione complessiva, visto che il flusso potrebbe tranquillamente essere interrotto dalla controparte, non appena conclusi gli accordi di fornitura supplementare ad altri “clienti” (la Cina, l’India, ecc; ovvero quasi la metà dell’umanità).

Non è finita.

La transizione ecologica viene di fatto abbandonata (le centrali a carbone restano in funzione, quelle a gas dovranno fare i conti con prezzi crescenti e disponibilità in calo), moltiplicando le “eccezioni” alla tassonomia di fonti energetiche e tecnologie da considerare “green”, dilatando i tempi di sostituzione delle tecnologie più inquinanti, ecc.

E sappiamo che il limite naturale – l’evoluzione catastrofica del cambiamento climatico – ha una potenza “fisica” dello stesso genere di una guerra nucleare.

Questo elenco, sicuramente incompleto, di problemi concretissimi sollevati dalla decisione putiniana di imporre un traumatico stop all’espansione della Nato a est, necessiterebbe di risposte all’altezza della situazione.

Necessiterebbe di protagonisti della decisione politica, non di “amministratori conto terzi” di istituzioni statali da lungo tempo asservite alle banali esigenze delle imprese multinazionali (massimizzare i profitti, ridurre la redistribuzione della ricchezza, ridurre il costo del lavoro, accaparrarsi le materie prime).

Servirebbero statisti capaci di porre gli interessi dell’umanità e dei popoli al di sopra di quelli privati. Servirebbe un’altra visione e concezione del mondo; un multipolarismo non competitivo ma cooperativo, non il tentativo nostalgico – reazionario – di ripristinare quell’Ordine mondiale che dall’89 ad oggi ha preparato il disastro in cui siamo ora entrati. Ma la classe dirigente a disposizione dell’Occidente è nulla, davanti a tutto questo.

La tendenza era abbastanza chiara da tempo. Sulle pagine del nostro giornale e della nostra rivista, negli anni precedenti ed anche più recentemente, troverete anticipazioni fin troppo dettagliate dello scenario che abbiamo davanti agli occhi. E su questo spesso abbiamo dovuto “fare a sportellate” con una sinistra italiana ed europea che guardava altrove.

Ma adesso “la svolta” avviene nei fatti, la Storia prende il sopravvento e le soluzioni per fermare il disastro vanno messe in campo qui ed ora.

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