Non so in che famiglia sia cresciuto il Presidente del consiglio Mario Draghi; e, sinceramente, visto il suo presente, non mi interessa conoscere i suoi trascorsi.
Quando ieri, a proposito degli avvenimenti ucraini, raccontava al Corriere che «l’invasione non mi ha sorpreso», perché memore dei «precedenti di quello che l’Unione Sovietica aveva fatto in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia. Ricordo che si parlava nella mia famiglia delle atrocità commesse a Budapest nel 1956», è difficile dire fino a quale livello l’ignoranza si combini con la deliberata riproposizione, adattata alla Russia putiniana, dei più triti slogan catto-democristiani nei confronti dell’URSS.
A proposito di “atrocità a Budapest”, ricordiamo solo un particolare: la moglie dell’allora ambasciatore sovietico, Jurij Andropov, che assistette dalle finestre dell’ambasciata ad alcuni di quegli atti di “liberalismo”, perse la ragione e non riuscì più, fino alla morte, a metter piede fuori di casa.
Già: proprio a causa «delle atrocità commesse a Budapest nel 1956»… dalle bande fasciste, dagli ex collaborazionisti nazisti e hortysti, nei confronti di gruppi di poliziotti disarmati, funzionari governativi e semplici militanti comunisti.
Tanto per ricordare al signor Draghi: già nei primi giorni dell’operazione “Focus”, organizzata dagli USA, curata dalla missione militare britannica a Budapest e diretta operativamente dalla Germania, vennero liberati di galera oltre 9.000 ex fascisti e collaborazionisti.
Quella “rivolta per la libertà”, tra ottobre e novembre 1956, costò la vita (cifre ufficiali) a circa tremila persone, tra cui 700 soldati sovietici e diverse altre centinaia di comunisti ungheresi (molti di origine ebrea) e esponenti del governo, assassinati e appesi a testa in giù agli alberi di Budapest, dai fascisti dell’ex regime di Miklós Horthy.
Oltretutto, che si tratti di reminiscenze non solo di cui «si parlava nella mia famiglia», ma anche apprese negli oratori e nelle sacrestie della destra scelbiana, ce lo conferma il fatto che lo stesso ritornello fosse stato diffuso qualche settimana fa da Enrico Letta allorché, calzato il cimiero e armato di scudo (crociato), aveva tuonato contro chi (nella fattispecie: Michele Santoro) gli rimproverava «gli attacchi che il suo partito rivolge contro quelle poche voci dissonanti, giornalisti e intellettuali, che osano sollevare qualche interrogativo sulla guerra in corso in Ucraina».
Con ogni evidenza, le sommosse controrivoluzionarie, o apertamente fasciste, i golpe neo-nazisti, tentati o riusciti, passati o presenti, agitano ancora i liberali, siano stati essi allevati dai gesuiti o nell’azione cattolica.
In più, Draghi, dall’alto della sua esperienza, può certo dire che «l’invasione non mi ha sorpreso», perché «C’erano i precedenti».
Come no! Come sorprendersi, se si parla di un popolo che non solo si è macchiato, nella sua storia, del peccato di aver sperimentato per settant’anni qualche forma di socialismo, mentre la parte eletta degli ucraini aveva lavato quell’onta schierandosi coi nazisti.
Ma si tratta anche di individui che – in un modo o nell’altro, sovietici o borghesi che siano- al momento opportuno tirerebbero fuori quell’anima asiatica e barbara che li porta, sempre e comunque, a far dire al liberale europeo civilizzato, che «l’invasione non mi ha sorpreso», perché «C’erano i precedenti».
Dai discendenti di un popolo, nel cui sangue scorrono ancora globuli dell’Orda d’oro che lo aveva tenuto soggiogato per quasi tre secoli, cos’altro si può aspettare il borghese educato e timorato di dio, la cui mente non è minimamente sfiorata dal dubbio che gli «atti disumani dell’esercito russo», «l’orrore di Bucha», «quello che hanno fatto ai bambini e alle donne», portino una firma ben diversa da quella messa agli atti, senz’appello, dal “tribunale” dell’inquisizione euro-atlantica.
È così che il benpensante civilizzato, di fronte al barbaro asiatico, può ben dire che «Comincio a pensare che abbiano ragione coloro che dicono: è inutile che gli parliate, si perde solo tempo».
Qualunque cosa tu gli dica, lui parla un’altra lingua, quella che poi, alla fin fine, ti induce solo a ripetere che «l’invasione non mi ha sorpreso», perché conoscevo i «precedenti di quello che l’Unione Sovietica aveva fatto».
Che importa che sia sovietico o borghese, quella è una differenza formale: il russo è “asiatico e barbaro” ed è quindi «inutile che gli parliate». Mandiamo piuttosto le armi, con una decisione «presa quasi all’unanimità in Parlamento», perché i «termini della questione sono chiari: da una parte c’è un popolo che è stato aggredito, dall’altra parte c’è un esercito aggressore».
E siccome quella decisione «presa quasi all’unanimità in Parlamento», non riscuote ancora abbastanza “unanimità” nel Paese, quale miglior occasione, ora che ci si avvicina al 25 Aprile, di quella del ribattere quotidianamente sul tasto della resistenza?
In quanti, e con quali “sfumature”, si sono sentiti in dovere di farlo e di continuare quel filone che sembra così lineare e semplice!
Basta ripetere la medesima parola e il gioco è fatto: resistenza. Peccato che, nella storia, persone, gruppi, organizzazioni, eserciti, abbiano resistito in tanti modi diversi, per tante ragioni diverse, anche opposte, ad altri partiti, ad altri eserciti, a movimenti così lontani l’uno dall’altro!
Ma, a forza di ribattere, pensano i liberali in doppiopetto che «non si voltano dall’altra parte di fronte all’inciviltà», qualcosa comunque rimane.Come Goebbels già sapeva…
Ecco allora che un “filosofo” come Flores d’Arcais – che già un paio di settimane prima aveva classificato una cauta dichiarazione dell’ANPI su Buča come «capolavoro di ambiguità» – ora, sollecitato dal “pacifismo” pasquale del Corriere, ribadisce la propria filosofia: «Non mandare le armi è un oltraggio alla Resistenza».
D’altronde, l’ordine è arrivato dritto dritto dalla von der Leyen: «Io non faccio distinzioni tra armamento leggero o pesante. L’Ucraina deve ricevere ciò di cui ha bisogno per la difesa».
Il filosofo nostrano è così convinto che alla domanda se si possa «definire resistenza quella che stanno facendo in Ucraina», che risponde in tono assoluto: «Mi sembra evidente. C’è stata un’invasione». E siccome «c’è chi, come l’Anpi, in proposito ha posizioni contrastanti…», il “dialettico” risponde quasi annoiato «Come per il massacro di Bucha. In un comunicato del 4 aprile l’Anpi ha scritto di condannare il massacro in attesa di appurare cosa è avvenuto, perché è avvenuto e chi sono i responsabili. Questo quando tutte le informazioni e le testimonianze convergenti avevano già dato una risposta»: una sola, categorica e impegnativa per tutti; «un massacro di civili compiuto dai militari russi in ritirata».
Beati gli incrollabili della fede, non importa se berlingueriana, craxiana, occhettiana o “trotskiana”: gli anni passano e il tipo di fede può mutare; importante è non avere dubbi, specie riguardo ai russi! E dunque, mettere in dubbio «questa realtà già acclarata» su Buča, come fa l’ANPI, il prode “girotondino” la reputa «un’oscenità ai valori della Resistenza. Significa oltraggiare la Resistenza».
Non resta che sciogliere d’imperio quel covo filo-putiniano che è diventato l’ANPI, che «ha condannato l’invio delle armi in Ucraina» e procedere senz’altro con l’ordine venuto da Bruxelles: «Gli ucraini hanno deciso di resistere nell’unico modo possibile di resistere: con le armi».
D’altra parte, l’attuale presidente dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo, «è più giovane di me che sono del 1944 ed è soltanto un ex-deputato cossuttiano». Quel “soltanto” scioglie definitivamente i dubbi hegeliani del Flores, che elogia invece il presidente onorario dell’ANPI, Carlo Smuraglia, che un mese fa aveva dichiarato che gli «ucraini stanno cercando di difendere la loro democrazia» e vanno aiutati «anche con le armi».
Ora, che il nostro “putinismo” cominci e finisca immediatamente non appena si inizi a discutere dell’orrore di Vladimir Vladimirovič per il periodo sovietico, per le scelte dei bolscevichi; che la democrazia di Vladimir Vladimirovič la sperimentino ogni giorno i comunisti russi: su questo, ci sono abbastanza esempi su questo giornale.
Ma, allo stesso tempo, anche esempi su quale sia la loro democrazia, la democrazia nazi-golpista di Kiev, questo giornale ne sta riportando, come minimo, dal 2014.
A questo punto, a tutti loro – filosofi, banchieri, generali e gesuiti- non resta che preparare la strada per il 25 Aprile e mettere all’angolo quello che «è soltanto un ex-deputato cossuttiano» e che, in spregio alla democrazia liberale, si azzarda a giudicare “inopportuna” la presenza delle bandiere NATO alle manifestazioni per il 77° della Liberazione.
Quale onta! «Se le bandiere ci fossero dovrebbero essere le benvenute. Quest’anno più che in passato», sentenzia il radicale Benedetto Della Vedova, evidentemente nostalgico di Iraq, Libia, Jugoslavia.
«Il tema non sono le bandiere che peraltro non si sono mai viste. Il problema è la resistenza… Noi sappiamo che il popolo ucraino è un popolo resistente e sappiamo che ci dovremmo solo domandare cosa fecero i partigiani. Ecco, di sicuro non ebbero incertezze», mica come quel «ex deputato cossuttiano» (Sandra Zampa); «Il 25 Aprile è di tutti gli italiani che si riconoscono nei principi di libertà e democrazia e nella Costituzione» (Walter Verini).
Certo: i loro «principi di libertà e democrazia»; quei principi che per noi hanno sempre e ovunque un contenuto di classe e storicamente definito, al pari di dittatura, di resistenza, di fascismo. E, chissà perché, proprio la categoria dell’antifascismo, in tutte le loro dichiarazioni, non compare mai.
Spiccano invece capolavori di ignoranza come quelli dello scrittore fiorentino, ospite regolare del Corriere, il quale, intenerito dalle “Storie d’amore” con protagonisti «lui operaio metalmeccanico» e lei «psicologa in un ospedale psichiatrico di Leopoli», furono costretti a star lontani per un po’ perché «In Ucraina ci fu il colpo di stato dei separatisti russi». La vogliamo chiamare, per questa volta, solo “ignoranza”?
In ogni caso, in un paese in cui la Resistenza antinazista e antifascista viene evocata per sostenere i nazisti, succede anche questo: che l’ignoranza di molti venga nutrita con dovizia di «testimonianze convergenti» e poi proclamata quale «realtà già acclarata», per ricordare i «precedenti di quello che l’Unione Sovietica aveva fatto».
Con una battuta russo-sovietica, a proposito di precedenti tra Russia borghese e Unione Sovietica socialista, si potrebbe ricordare al banchiere: “Come dicono a Odessa: sono due grosse differenze”.
Alcuni filosofi, banchieri, preti stonacati, si sono auto-incaricati di capovolgere di nuovo la scienza, sul modello della Umwälzung del signor Dühring. Non è la nostra strada.
Al corteo del 25 Aprile noi ci andiamo con la bandiera rossa.
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marco
perfettamente d’accordo e felice che se ne sia parlato.
per questo 25 aprile stavo cominciando a temere di dover scegliere tra il sicuro martirio o il dovermene stare a casa.
ma per garantire la sicurezza di tutti, anche dei singoli compagni “sciolti” non sarebbe il caso fin d’ora di fornire indicazioni per la concentrazione di coloro che vorranno venire con la propria bandiera rossa?
meglio stare tutti insieme ed eventualmente mettere più distanza possibile tra Noi e “loro”.
Trovo grottesco che dopo 30 anni (avevo 16 anni la prima volta) che vengo a questa celebrazione con la mia bandiera sovietica, quest’anno debba aver paura di essere aggredito e pestato da bande di squadristi, nemmeno nostrane e fasciste, ma di nazisti direttamente importati da una zona di conflitto.