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Covid-19: lo strano caso delle archiviazioni a scoppio ritardato

Le archiviazioni di Roma, a scoppio ritardato, non toccano l’inchiesta di Bergamo: chi gestì la pandemia nel 2020 rimane indagato

A scoppio ritardato, visto che il provvedimento è del 18 maggio 2021, sta facendo rumore l’archiviazione disposta dal Tribunale dei Ministri di Roma per l’ex premier Giuseppe Conte e gli ex ministri Roberto Speranza, Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Lorenzo Guerini, Roberto Gualtieri e Luciana Lamorgese, accusati in decine e decine di denunce di svariati reati in relazione alla gestione della pandemia da Covid-19.

USB sottolinea la sospetta tempestività della diffusione di una notizia con due anni di ritardo, proprio quando la Procura di Bergamo indaga – a seguito della denuncia presentata dall’avvocato Vincenzo Perticaro a nome di Asia USB nel marzo 2020 – 19 tra ministri, politici e alti dirigenti della Sanità e proprio sul tema della gestione della pandemia.

L’archiviazione disposta dai giudici del Tribunale dei Ministri accorpa tutte le denunce presentate da organizzazioni e privati di estrazioni le più disparate: dai no vax a Taormina, ai gilet arancioni etc. Nel mucchio è finita la denuncia di Asia USB, presentata oltre che a Roma in diverse altre procure italiane, compresa quella di Bergamo che ha invece ritenuto di dare seguito all’esposto.

L’antica archiviazione di Roma sostiene che “in nessun modo l’epidemia può dirsi provocata dai rappresentanti del governo” – fatto che nessuno ha mai contestato – e ribadisce che tutte le decisioni prese all’epoca sono politiche, quindi al di fuori del sindacato della magistratura.

In parallelo, però, i giudici romani si avventurano in improbabili assunti: “Deve ribadirsi che, soprattutto in una situazione di incertezza come quella sopra descritta non era esigibile da parte degli organi di governo l’adozione tout court di provvedimenti in grado di impedire ogni diffusione dei contagi che non tenessero conto della necessità di contemperare interessi diversi e in particolare la tutela della salute e la tenuta del tessuto socio economico della collettività”.

Insomma, se all’epoca governo, regioni e organismi tecnici non hanno proceduto con gli strumenti a disposizione, non hanno istituito zone rosse intorno ai focolai Covid, come accaduto in provincia di Bergamo, se non esisteva un piano pandemico aggiornato, se non c’erano scorte di dispositivi di protezione, se insomma i morti si sono contati a migliaia nella sola Lombardia, per i giudici di Roma è perché la politica aveva il diritto-dovere di tutelare la “tenuta del tessuto socio economico” e di “contemperare interessi diversi”, ovviamente sempre quelli dei più forti, dei più ricchi, dei più potenti.

Un altro modo per dire chi se ne frega se la gente muore, difendiamo prima di tutto bilanci e profitti. Per fortuna c’è un giudice a Bergamo che fa il suo lavoro.

Unione Sindacale di Base

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La recente ordinanza della Procura di Bergamo sui gravi accadimenti avvenuti nel febbraio/aprile 2020 nella provincia orobica costituisce, se non un punto di arrivo, una tappa importante per cercare di ricostruire responsabilità politiche ed individuali della peggior catastrofe sanitaria dai tempi delle peste manzoniana.

Quello che ne emerge è il racconto di un sistema di potere nazionale, regionale e locale assolutamente impreparato a gestire una crisi pandemica di inusitata virulenza, un evento eccezionale, ma prevedibile e previsto da parte di chi ha come proprio compito quello di studiare il possibile sviluppo di eventi come questo. Ciò nonostante, non solo non hanno rinnovato il piano pandemico ma non hanno neppure applicato quanto previsto in quello fermo a quindici anni prima che, per quanto obsoleto e fuori dallo stato dell’arte, avrebbe potuto limitare i danni.

Ma ripercorriamo i fatti dall’inizio.

Il mese di febbraio inizia tranquillo, si sente qualche voce preoccupata e Confindustria gira uno spot:” Bergamo is running”, che rivisto solo pochi giorni dopo farà accapponare la pelle. Gori sta alla grancassa degli industriali e organizza pranzi, aperture straordinarie dei negozi del centro, biglietti dei bus gratuiti al grido di “tutti a Bergamo”.

Così si sono ignorati segnali di allarme che provenivano dal primo paese colpito, la Cina, in nome di una sufficienza razzista: cose da asiatici, qui noi abbiamo una sanità che il mondo intero ci invidia.

Ci si limitò quindi a vietare i voli diretti da e per la Cina sorvolando, è il caso di dirlo, le diverse triangolazioni possibili con scali europei intermedi. Infatti il tourbillon di viaggi sulla via della seta non cessò fino alla fine di febbraio e moltissimi uomini d’affari facevano spola. Una delle mete italiane di questo andirivieni era giusto giusto la Val Seriana il cui oro fu per

secoli il tessile successivamente delocalizzato proprio in Cina. Quindi imprenditori italiani che avevano forti contatti con il paese asiatico andavano e tornavano tranquillamente.

Se la Val Seriana aveva conosciuto tempi migliori con l’industria tessile è pur vero che, una volta scomparsa o quasi, non se ne sarebbe stata con le mani in mano. La voglia “de laurà” è nell’aria da queste parti e quindi la vallata, di fatto una città lineare di centomila abitanti fortemente connessa con il comune di Bergamo, cominciò a pullulare di fabbriche e fabbrichette molte delle quali legate all’automotive. Una valle e una città ad altissimo tasso d’interazione sociale, uno scalo aeroportuale che è il terzo del Paese e una fortissima vocazione all’industria. L’industria ed il sistema produttivo bergamasco e bresciano, che hanno tra le più alte concentrazioni di lavoro operaio d’Italia, spiegano sia la velocità di diffusione del virus sia il perché si sia fatto di tutto affinché le attività produttive non si fermassero.

Siamo al 23 febbraio e, mentre da alcuni giorni è iniziato un lockdown a Codogno, all’ospedale di Alzano viene trovato un paziente positivo al Covid. Il pronto soccorso viene chiuso, astanti e parenti vengono radunati nella Chiesa del nosocomio. Dopo alcune ore il pronto soccorso viene riaperto e, nel volgere di pochi giorni, si riempirà di malati.

La fine di febbraio si consuma tra ventilate chiusure e pressioni inusitate sui politici locali da parte degli imprenditori per scongiurarle. In questo aspetto tutta l’inchiesta, che passa giustamente sotto la lente di ingrandimento le responsabilità dei politici e la catena di comando della sanità nazionale e lombarda, sembra non fornire alcuna risposta.

Era pronto l’esercito, carabinieri e polizia venuti da fuori e alloggiati a Zingonia, prove generali di blocchi stradali.

Blocchi che non scatteranno mai trascorrono quindici giorni, quindici giorni di sirene e campane a morto dove si attende la zona rossa come una benedizione.

Ma non fanno niente.

L’8 marzo il lockdown nazionale, da Siracusa ad Aosta.

Qui si continua a morire, molti negli ospedali, ma tanti anche a casa da soli. In due mesi la pandemia miete duemila vittime in Val Seriana e altre quattromila nel resto della provincia.

Si muore come mosche ma le fabbriche ancora non si fermano, devono passare altri giorni preziosi perché ufficialmente siano costrette a farlo e con le dovute eccezioni assai utili per aggirare la disposizione.

Basta dichiarare che produco imballaggi per medicinali e la scappatoia è trovata.

Si muore negli ospedali strapieni ma anche nelle RSA trasformate in lazzaretto e ricovero per malati dimessi, i balconi si riempiono di striscioni che recitano il rito apotropaico dell’andrà tutto bene.

Come è andata a finire lo sappiamo.

Quando tutto o quasi viene riaperto la voglia e la rabbia per quanto accaduto, la canalizzazione del lutto in un senso compiuto portano a diverse e pur piccole manifestazioni.

Nasce un piccolo presidio davanti all’ospedale di Alzano, attivisti e attiviste che si ritrovano tutti i sabati davanti al nosocomio con cartelli che chiedono conto della mancata zona rossa, solidarizzano con il personale sanitario e con il suo spirito di abnegazione, chiedono le dimissioni di Fontana, Gallera, direttore dell’ATS e dell’ASST, gli stessi oggi indagati.

Il primo provvedimento di iscrizione sul registro degli indagati non riguarderà però costoro. Infatti un anno dopo la polizia si renderà protagonista di una bruttissima pagina repressiva, perquisendo ed indagando due attivisti del comitato di denuncia per delle lettere minatorie ricevute da Confindustria. Lo fa sulla base della pregressa appartenenza di questi a gruppi della lotta armata negli anni 70, ipotizzando una fantomatica associazione sovversiva.

Anni dopo la cosa si sgonfierà, il PM chiederà l’archiviazione della quale però non si sa ancora nulla.

Il resto è storia di oggi, Fontana appena rieletto, con molti meno voti assoluti ma con alle spalle il vento di quelli che bisogna dimenticare e tornare al lavoro. Persino in Val Seriana le percentuali lo plebiscitano del sessanta per cento, anche ad Alzano e Nembro.

Vedremo cosa dirà il processo e se prevarrà l’attribuzione di responsabilità a livello nazionale o regionale.

Quello che è sicuro è che non ci saranno sfracelli e che cane non mangia cane.

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