Secondo la “narrazione” diffusa dalla destra in questi anni, nelle informative del capocentro Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, sarebbero presenti le prove del legame tra la strage di Bologna e l’attività dei palestinesi svolta in Italia sotto l’egida del “lodo Moro”. Verità alternativa a quella sancita fino ad oggi in sede giudiziaria con la condanna dei neofascisti dei Nar.
Desecretati lo scorso giugno, questi documenti dimostrano invece l’esatto contrario. La crisi dei lanciamissili palestinesi sequestrati a Ortona, ritenuta dalla destra il vero movente della strage, era stata risolta già il 2 luglio 1980, accogliendo le richieste del Fplp.
Quelle carte dimostrano anche il funzionamento concreto dell’accordo del 1973, conosciuto come “lodo Moro”, che non prevedeva il transito di armi e tantomeno l’immunità, ma solo la «neutralizzazione» del territorio.
Il 2 luglio del 1980 le richieste del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina erano state accolte. E dunque le minacce, ventilate nei mesi precedenti, di ritorsioni e attentati contro obiettivi italiani non avevano più ragion d’essere.
Lo raccontano i cablogrammi dell’allora capocentro del Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, documenti da anni al centro di una dura polemica mossa da chi ne chiedeva la desecretazione, sostenendo che lì ci fossero le prove inconfutabili di un legame tra la strage di Bologna e la vicenda di Ortona, di cui si dirà: in sostanza, comunque, che quelle comunicazioni di Giovannone indicassero una responsabilità palestinese nella bomba del 2 agosto alla stazione. E dunque una versione alternativa alle sentenze di condanna passate in giudicato dei tre neofascisti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini.
Invece non è così. Quelle carte, ora liberamente consultabili all’Archivio centrale dello Stato, non avvalorano affatto un collegamento del genere, come da anni si sente invece ripetere dai tanti fautori (politici, storici, giornalisti, ricercatori) della cosiddetta “pista palestinese”. E anzi, se lette in parallelo con i passaggi giudiziari relativi al “caso Ortona”, dimostrano che la trattativa sottotraccia tra l’Italia e i palestinesi si era conclusa con successo già un mese prima della strage di Bologna.
Il sequestro di Ortona
La vicenda è caratterizzata da una marea di elementi, cronaca che ormai si è fatta storia visti gli oltre quarant’anni trascorsi: qui si farà parlare il più possibile le carte. Ma occorre dire subito del “caso Ortona”, da cui tutto trae origine.
Si tratta del sequestro di due lanciamissili Sa-7 Strela privi di armamento e dell’arresto, avvenuto appunto a Ortona in Abruzzo nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1979, di tre autonomi del collettivo del Policlinico di Roma (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri) che trasportavano la cassa che li conteneva.
Traditi da un controllo casuale, e inconsapevoli del contenuto che vi era celato, erano stati chiamati in aiuto con una telefonata in extremis nella serata del 7 da Abu Anzeh Saleh, militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (d’ora in poi Fplp), pure lui arrestato poco dopo, mentre partecipavano ad una assemblea pubblica a Roma.
La prima informativa inviata da “Maestro”, nome in codice di Giovannone, è del 15 novembre 1979, altri cinque seguiranno sempre nel corso di quel mese, più un appunto in cui il capocentro del Sismi riporta i risultati dell’inchiesta che sta conducendo per capire se quei sistemi d’arma stessero entrando nel territorio italiano o fossero invece in uscita. Saperlo era dirimente: sui giornali si parlava della preparazione di un possibile attentato a Cossiga, allora capo del governo.
Eravamo alla fine del 1979, l’offensiva delle formazioni armate di sinistra aveva toccato uno dei suoi punti più alti, lo Stato aveva risposto con la retata del 7 aprile che aveva portato in carcere l’intero gruppo dirigente della galassia autonoma. Per l’antiterrorismo e la magistratura, l’arresto di tre autonomi in possesso di due lanciamissili era una prova del teorema. E la saldatura con la guerriglia palestinese una conferma di antichi sospetti.
Giovannone doveva diradare in fretta questo polverone, capire se l’episodio rappresentava una violazione degli accordi del 1973 tra l’Italia e i palestinesi, chi ne sarebbe stato l’eventuale responsabile, tutelare la segretezza del cosiddetto “lodo Moro”, calmare le acque agitate in entrambe le rive del Mediterraneo. Per questo incalza i dirigenti dell’Olp e del Fplp. Si avvale di colloqui ufficiali e della rete di fonti fiduciarie che aveva tessuto all’interno e all’esterno delle varie organizzazioni palestinesi.
Le omissioni di Giovanardi e la narrazione strumentale della destra
Facciamo ora un salto al maggio del 2016, quando dopo una lunga trattativa il governo autorizzò alcuni membri della ‘Commissione parlamentare d’inchiesta Moro 2’ a visionare, sotto il controllo di funzionari dei Servizi e con l’accordo di mantenere il più stretto riserbo sul contenuto, una serie di documenti sui rapporti del Sismi con le organizzazioni politiche palestinesi in Libano.
Si trattava di comunicazioni e appunti sottoposti al più elevato vincolo di segretezza, originati appunto dal capocentro Sismi a Beirut, colonnello Giovannone, che coprivano un arco temporale di circa tre anni, dal novembre 1979 all’agosto 1982.
Il presidente della commissione Moro da poco istituita, Giuseppe Fioroni, dopo essere venuto a conoscenza di un cablo del 18 febbraio 1978, depositato dallo storico Marco Clementi durante la sua audizione del giugno 2015, nel quale il colonnello Giovannone riferiva informazioni confidenziali provenienti dal capo del Fplp, Georges Habbash, si era convinto di poter trovare nelle informative inviate dal capocentro Sismi a Beirut notizie utili sul sequestro del leader Dc e sui presunti rapporti tra palestinesi e brigatisti.
Da qui la sua insistente richiesta di visionare il carteggio, che tuttavia deluse le aspettative della commissione: quei documenti confermavano solo l’esistenza del cosiddetto “lodo Moro”, ne mostravano il funzionamento e soprattutto l’efficacia.
Nel 2018, in un saggio, il ricercatore Giacomo Pacini rese pubblici due documenti, finiti nei faldoni dell’inchiesta sulla strage di Brescia e custoditi dalla Casa della Memoria, che facevano parte del carteggio secretato di Giovannone.
Si trattava delle note del 24 aprile e del 12 maggio 1980, nelle quali il Fplp minacciava la rottura degli accordi del 1973 e poneva un ultimatum alle autorità italiane. E nel frattempo, venendo meno all’impegno preso, il senatore del centrodestra Carlo Giovanardi (anch’egli tra i componenti della commissione che visionarono le informative), enucleando un paio di documenti dal resto della documentazione, sostenne che in quelle carte era scolpita la verità sulle stragi di Ustica e Bologna: in particolare un cablo del 27 giugno 1980, ripetutamente citato dal senatore, in cui si annunciava da parte del Fplp la ripresa dell’iniziativa contro obiettivi italiani.
La diffusione parziale del carteggio Giovannone-organizzazioni palestinesi e le dichiarazioni distorsive di Giovanardi hanno favorito negli anni a seguire il sospetto, in parte dell’opinione pubblica, che quel carteggio contenesse rivelazioni scottanti sulle stragi del 1980.
La soluzione arriva il 2 luglio 1980
Nel giugno del 2022 il comitato consultivo che vigila sulle attività di desecretazione e versamento dei fondi archivistici della Direttive Prodi, Renzi e – ultima – Draghi dell’agosto 2021, ha deciso di togliere il segreto e versare presso l’Archivio centrale dello Stato il carteggio afferente le comunicazioni tra l’ambasciata italiana a Beirut e il governo.
Abbiamo così potuto consultare anche noi i 32 documenti della «Vicenda Giovannone-Olp», come è riportato sulla copertina del fascicolo, senza tuttavia riscontrare alcun elemento che potesse ricondurre alle stragi di Ustica e Bologna.
Quelle carte dimostrano invece che la crisi dei lanciamissili palestinesi sequestrati a Ortona nel 1979, indicata dalla destra come uno dei possibili moventi che avrebbero scatenato la rappresaglia palestinese provocando la strage di Bologna, fu negoziata con grande abilità dal colonnello Giovannone e risolta già il 2 luglio del 1980 – un mese esatto prima della esplosione della bomba alla stazione centrale – con il rinvio del processo, venendo incontro alle richieste palestinesi.
Addirittura, il processo fu poi rinviato altre due volte (novembre 1980 e giugno 1981, per poi finalmente tenersi a gennaio 1982): questa fu infatti la strategia individuata dal governo, e concordata con i palestinesi, per consentire la scarcerazione nell’agosto del 1981 di Abu Anzeh Saleh, grazie al superamento dei limiti di custodia cautelare.
Successivamente le condanne vennero ridotte per tutti gli imputati nel corso del processo d’appello: esattamente come richiesto dal Fplp.
I palestinesi non hanno dunque mai avuto alcuna ragione per rompere gli accordi presi nel 1973. E in realtà il lodo Moro uscì rafforzato dalla crisi dei lanciamissili di Ortona, ed ebbe il suo ultimo atto – si legge nelle carte – solo nell’estate del 1982, nel pieno dell’occupazione israeliana del Libano, con la cacciata dell’Olp da Beirut e i massacri realizzati dalle milizie maronite protette dai carri armati israeliani nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila.
Cosa prevedeva il Lodo? «Neutralità territoriale senza transito d’armi»
Un’altra acquisizione storica rilevante contenuta nel carteggio riguarda il transito delle armi. Questa clausola, la cui presenza nel lodo viene data per scontata da molti ricercatori ed esponenti politici, non era affatto presente nell’accordo iniziale. Nell’appunto numero 32 del 19 agosto 1982 si afferma infatti che «l’impegno assunto circa la neutralizzazione non prevedeva il “transito”, ma negli ultimi mesi erano in atto contatti intesi ad escludere l’Italia anche come area di transito».
Il passaggio delle armi fu dunque una interpretazione estensiva del Fplp che – precisa in più circostanze il colonnello Giovannone – non ha mai riguardato l’Olp.
Qui l’estensore della nota glissa sul carico di armi che le Brigate rosse andarono a prendere sulla costa libanese con una barca a vela, il Papago, nell’estate del 1979, dopo un accordo politico pattuito a Parigi con una fazione di Fatah, cristiana e marxista, che faceva capo ad Abu Ayad, raccontato per la prima volta da Patrizio Peci nel marzo 1980 e di cui si ebbe conferma con il ritrovamento dei depositi nei primi mesi del 1982. Episodio unico che non ebbe seguito.
L’altra vicenda, quella del carico di armi portato in Italia, sempre in barca a vela, da Maurizio Folini nell’estate del 1978, aveva natura diversa e fu oggetto di conversazione con Abu Sharif, riportato nell’appunto del 19 febbraio 1982. L’esponente del Fplp fece riferimento ad ambienti libanesi che trafficavano armi, senza particolari connotazioni politiche.
In effetti, giunte in Italia, le armi furono distribuite dietro pagamento alle organizzazioni armate che le accettarono (Pl e Pac) con uno sdegnato rifiuto da parte delle Br.
Il Fplp comunque, dopo la vicenda dei missili di Ortona e l’arresto a Fiumicino, nel gennaio del 1982, di un altro suo corriere che trasportava inneschi elettrici diretti verso i territori occupati, sembra rinunciare al passaggio di armi grazie ad una abile trattativa messa sul tavolo dal successore di Giovannone (che aveva lasciato il Libano nel novembre 1981) come contropartita alla liberazione del corriere palestinese.
L’inchiesta di Giovannone
Torniamo ora alla vicenda di Ortona. Nell’immediatezza (siamo a novembre del 1979), Arafat e gli altri dirigenti di Fatah si dicono costernati per l’accaduto e consapevoli delle possibili ricadute negative sui progressi politici che si stavano compiendo, «con scopo compromettere elementi moderati Olp et divergenze Fatah sabotando politica da essi perseguita soprattutto verso occidente» (cablo di Giovannone del 15 novembre 1979).
Il riferimento è al riconoscimento dell’Olp come rappresentante unico del popolo palestinese e all’intenso lavorìo diplomatico che avrà uno sbocco il successivo 13-14 giugno 1980 con la dichiarazione di Venezia sul riconoscimento della autodeterminazione del popolo palestinese.
Il capocentro Sismi riferisce che i dirigenti dell’Olp sospettano che vi siano interferenze libiche o irachene. Individua presto il responsabile della operazione in Taysir Qubaa, dirigente Fplp, zio di Saleh, responsabile per l’estero del Fplp, una figura a lui nota, «cui intervento presso organizzazioni terroristiche palestinesi che intendevano effettuare operazioni in Italia per liberare Fedayn detenuti, erisi rivelato determinante tra 1973 et 1975» (cablo 15 novembre 1979).
Nella successiva comunicazione del 20 novembre, Giovannone si dice «convinto che operazione in oggetto dovesse svilupparsi in Israele et che presenza lanciamissili Ortona aveva carattere temporaneo et esclusivamente di transito».
Permane tuttavia un tono per nulla accondiscendente e all’inizio non è affatto persuaso delle spiegazioni ricevute: «Ho sottolineato agli interlocutori che spiegazioni cui sopra non presentano sufficienti elementi credibilità et dovrebbero essere completate da elementi precisi circa provenienza iniziale, percorso seguito sino at consegna autonomi et contropartite loro date per collaborazione» (idem).
Emerge anche il nome di un quinto uomo che avrebbe dovuto prendere in carica i lanciamissili, l’ufficiale di macchina del mercantile Sidon, membro del Fplp, Nabiln Nayel, catturato in Francia tempo dopo ma mai estradato.
Le prime acquisizioni dell’inchiesta sono riassunte in un appunto del 23 novembre 1979 diretto al direttore del Servizio, generale Giuseppe Santovito. Qui Giovannone chiede di non divulgare la notizia ricevuta in via confidenziale sull’utilizzo finale dei lanciamissili nell’ambito di una rinnovata offensiva militare contro Israele, pena il rischio di essere condannato a morte dal Fplp.
Successivamente interroga il comandante del mercantile Sidon che avrebbe dovuto prendere a bordo la cassa con i lanciamissili durante il suo scalo nel porto di Ortona.
Il processo di Chieti
Il 17 dicembre ha inizio il processo con rito direttissimo a Chieti. Le norme antiterrorismo introdotte con la legge Reale sono draconiane, non consentono di allungare i tempi dell’inchiesta giudiziaria permettendo così di trovare una soluzione politico-diplomatica alla vicenda.
Il Fplp fa pervenire al presidente del tribunale di Chieti, dottor Pizzuti, una lettera nella quale dichiara di essere il proprietario dei due sistemi d’arma e che questi erano diretti fuori dall’Italia. Lo stesso giorno Giovannone ha «un difficile colloquio» con Taysir Qubaa, il quale chiede di «facilitare accoglimento probabile richiesta rinvio dibattito che dovrebbe iniziare Chieti oggi pomeriggio onde consentire che collegio difesa possa ricevere nuovi elementi per dimostrare inconsistenza accusa “importazione armi”».
L’esponente palestinese, indicato nel cablo come persona «che svolge ruolo preminente ambito crisi Libia-Olp», chiede inoltre che i lanciamissili non vengano consegnati o fatti visionare da esperti israeliani o americani, minacciando una dura rappresaglia se non fosse rispettato l’impegno richiesto.
Giovannone non sembra scomporsi e suggerisce una interpretazione psicologica del suo interlocutore: lo definisce infatti «esasperato da critiche et accuse rivoltegli da oppositori interni Fplp et da rappresentanti “Autonomi” che ritengo lo abbiano recentemente contattato sollecitandolo vivamente at urgenti passi idonei ridimensionare gravità imputazioni addebitate autonomi incriminati».
Il 25 gennaio 1980 i cinque imputati vengono tutti condannati a 7 anni di reclusione per detenzione e trasporto di armi da guerra, l’imputazione di introduzione clandestina di armi cade per insufficienza di prove. Il pubblico ministero aveva invece chiesto una pena di 10 anni.
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