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Siamo contro “il merito”

Ha destato un certo scalpore la notizia che l’Istituto Superiore Scarcerle di Padova, una scuola con corsi di liceo linguistico e di tecnica chimica ha istituito una “serata delle eccellenze” destinata a premiare gli studenti e le studentesse che hanno raggiunto la media del nove, gratificandoli inoltre di un premio di 100 euro.

Tuttavia, si tratta di una iniziativa che non stupisce chi vive e si occupa di scuola da qualche anno e quindi conosce la miriade di iniziative, più o meno sgangherate, prese dalle scuole per “premiare il merito”, “valorizzare i talenti”, “promuovere le eccellenze”.

Purtroppo, è invece ben chiaro, determinato e lungimirante il progetto politico a cui tali iniziative s’ispirano e che avanza ormai da una trentina d’anni, sostenuto dai diversi governi che si sono succeduti, del cosiddetto centrosinistra, di destra o di ammucchiata nazionale.

Tale progetto, iniziato dagli anni novanta, risponde all’intenzione di unificare gli orizzonti della scuola e quelli dell’impresa e, di conseguenza, di imporre alle istituzioni educative la logica aziendale e di mercato. L’esaltazione del “merito” e dell’”eccellenza” sono la naturale conseguenza di una tale scelta.

L’aggiunta della parola “merito” alla dizione del Ministero dell’Istruzione è stata una scelta ideologica, ma azzeccata, poiché sappiamo che è difficile, in linea di principio, opporsi a esso. Si rischia di passare per quelli che amano gli studenti pigri e neghittosi e non si curano di quelli studiosi.

Purtroppo, le cose stanno diversamente ed è sacrosanto oggi opporsi al merito e alle “eccellenze”.

Infatti, merito ed eccellenza seguono i percorsi di aziendalizzazione e mercatizzazione della scuola. Chiediamoci chi oggi è considerato ‘meritevole’. A livello di scolari (perché si comincia dalle primarie e forse anche prima) e studenti, chi a cominciare dalla prima infanzia valorizza se stesso e le proprie capacità, traendone profitto e che sa documentarne i progressi nel curriculum dello studente.

A livello degli insegnanti, è meritevole chi, seguendo il linguaggio istituzionale, si lascia accompagnare nel percorso scolastico e professionale deciso dal ministero. Il tutto nel quadro aziendalistico che ho descritto.

Naturalmente, tutto ciò deve essere valutato “scientificamente” ed ecco dunque l’imposizione e l’importanza data ai test INVALSI attraverso cui si valutano gli studenti ma anche, di fatto, gli istituti (sono di eccellenza o no?) e gli insegnanti.

Come stupirsi, per esempio, dell’iniziativa padovana, quando a livello nazionale i test INVALSI attribuiscono ai giovani dei badge di riuscita in cui è riportato il livello ottenuto negli stessi e che possono essere applicati nei propri profili social o nel proprio curriculum?

E ancora, come sorprendersi se un modello di scuola competitivo e arrivista crea nei giovani “ansie da insuccesso” e produce negli insegnanti sempre più angoscianti sindromi da stress per il timore di non rientrare nei livelli previsti dai test INVALSI?

In materia di educazione, si è sempre distinto i contenuti dell’insegnamento e i metodi dello stesso. Se ci concentriamo sui secondo con sguardo pedagogico sappiamo che questi ultimi hanno una grande importanza nella formazione ideologica dei giovani. Molte cose, nella scuola e altrove, si fanno solo per formare i giovani a un determinato modo di pensare (o di non pensare).

Un esempio classico era, un tempo, la naja, il servizio militare obbligatorio, che serviva più che a difendere la Patria, a formare i giovani all’ubbidienza e al rispetto incondizionato degli ordini anche se irrazionali e stupidi.

Non sembra quindi strano che qualcuno, nella scuola d’oggi, sia arrivato a pensare di ricompensare il cosiddetto merito scolastico con i soldi, formando l’idea che tutto si risolve nella moneta. Poco importa che l’importo sia modesto, proprio perché la funzione è formativa e ideologica.

Ma del resto, i giovani non devono diventare “capitale umano”? Per inciso, vorremmo tra l’altro sapere come giustificherà a bilancio il dirigente dello “Scarcerle” una spesa di denaro pubblico per i premietti agli studenti che hanno la media del nove.

Ma c’è già il precedente meloniano della suddivisione del “bonus giovani”, una parte del quale sarà destinata solo ai “meritevoli”, quindi se la caverà.

Insomma, ormai la scuola italiana ha messo una pietra su questioni quali le differenze socio-culturali di partenza, il recupero di chi è in difficoltà e l’eguaglianza è diventata una bestemmia.

Resta poi la questione delle “eccellenze”, vale a dire della distinzione non solo tra singoli, di cui ho discusso, ma anche tra scuole, istituti e anche università.

È noto che dall’autonomia e dalla parità scolastica in poi, quindi negli ultimi venticinque anni, le scuole sono in competizione tra loro per la conquista di iscrizioni, di fondi e di sponsor. I risultati delle diverse scuole sono valutati sulla base dei test INVALSI, oltre che sui questionari di autovalutazione.

Naturalmente, non c’è nulla di strano nel fatto che scuole diverse possano ottenere risultati differenti (che però i test INVALSI non sono lo strumento adatto per valutare). Ciò può essere dovuto a fattori diversi, primi tra tutti il contesto socio-culturale ed economico in cui si trovano.

Il problema sta nel fatto che “premiare le eccellenze” significa dare di più a chi sta meglio e negarlo a chi ne avrebbe più bisogno, con un conseguente aumento delle disuguaglianze tra scuole, città, regioni.

Un modello che ha già creato sfracelli nell’università, ma che essendo trasversale alla società è stato applicato nella sanità con eguali catastrofici risultati, ma che l’attuale governo sembra voler rafforzare.

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