Pubblichiamo la prefazione al libro “Prigionieri del mattone” (Armadillo editore) di prossima uscita.
La contraddizione della questione abitativa continua a pesare come un macigno sulla realtà in cui viviamo, e non solo per milioni di famiglie indebitate dai mutui, sottoposte o minacciate di sfratto, strozzate da affitti impossibili.
Una questione abitativa irrisolta è un macigno piantato a ostacolare anche lo sviluppo, la mobilità sociale e il progredire del nostro paese.
Il pensiero liberale è uso denunciare i “lacci e lacciuoli” che ostacolano la flessibilità selvaggia nel lavoro e nei salari, ma tace sistematicamente su una vera e propria “garrota” che strangola una gran parte della società in cui viviamo e della maggioranza dei settori sociali che la compongono.
Il problema è che questa garrota incombe ed agisce nello stesso modo da tempo,se senza che – se non per brevi periodi – si sia riusciti a scardinarla impedendogli di fare danni, enormi.
“Quel che oggi s’intende per crisi degli alloggi non è che un particolare acutizzarsi delle già cattive condizioni abitative dei lavoratori, provocato dall’improvviso afflusso demografico verso le grandi città: un enorme aumento dei canoni d’affitto, un ancor più pronunciato pigiarsi di inquilini in ogni singolo caseggiato, e per taluni l’impossibilità di trovare un alloggio qualsiasi. E questa penuria di abitazioni fa parlare tanto di sé per la sola ragione che non è limitata alla classe operaia, ma colpisce altresì la piccola borghesia”.
Sulle pagine del giornale Volkstaat, ben 150 anni fa, Engels in una serie di articoli ha affrontato “La questione delle abitazioni” con parole e descrizioni del problema che sembrano scritte oggi. Ciò sta a significare che la questione abitativa è rimasta in campo ed intatta come lacerante contraddizione di classe – soprattutto nelle grandi aree metropolitane – come già veniva rilevato due secoli indietro.
Già questo dovrebbe dare la dimensione del problema e l’urgenza delle soluzioni, né più né meno come quelle richieste per mettere fine allo sfruttamento del lavoro e dei bassi salari. Anzi vi si intreccia profondamente ma proprio la questione abitativa mette in evidenza uno degli aspetti più insopportabili e distruttivi del modello capitalista: la rendita.
Un industriale produce merci, un commerciante vende beni o servizi, un operaio, un impiegato vende la propria capacità lavorativa. Nei decenni passati si è parlato dell’Italia come di un paese fondato su un “Patto tra produttori” a cui tutti contribuivano dando qualcosa, magari in modo disuguale. Ma la proprietà immobiliare, grande o piccola che sia, che cosa mette nel “patto tra produttori”? Niente. Affitta o vende un bene – le abitazioni – che non ha prodotto ma molto spesso ha solo ereditato oppure acquisito per via finanziaria.
Il valore di questo bene aumenta senza che i suoi proprietari facciano nulla, solo in base ai parametri del mercato o alle torsioni imposte – spesso con la corruzione – sulle scelte urbanistiche di una città. E’ rendita pura non ricchezza sociale. E’ speculazione non sviluppo economico. La rendita immobiliare – così come quella fondiaria ad essa strettamente collegata – non produce infatti ricchezza e soprattutto non la distribuisce, ma la concentra in modo crescente, disuguale e insopportabile.
Questo libro offre una delle analisi più complete e spietate della contraddizione abitativa nel nostro paese. Lo fa sotto molti punti di vista e consente, finalmente, di rimettere la “questione abitativa” non solo al centro del conflitto sociale e sindacale ma anche di un programma di trasformazione e avanzamento complessivo del paese, perché di questo si tratta.
La questione abitativa pesa da decenni come un macigno sullo sviluppo sociale del nostro paese.
Fino agli Ottanta potevamo parlare dei danni provocati dalla rendita fondiaria sulla vita delle famiglie bisognose di casa e sulle scelte urbanistiche nelle città.
Dalla fine degli Novanta – e in particolare dopo la crisi della Net Economy nel 2001 negli Usa – la casa e le città sono diventate oggetto di scorribande e investimenti malsani di capitali finanziari che fuggivano dalla caduta della bolla speculativa cresciuta intorno ai titoli tecnologici all’inizio di questo secolo. Tanto è vero che solo sei anni dopo, la nuova bolla finanziaria è scoppiata proprio sui mutui subprime per l’ acquisto di abitazioni disseminati dalle banche per investire la loro liquidità in eccesso.
Ma sul terreno della speculazione finanziaria, quello che accadeva negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni immediate anche in Europa e in Italia.
Come documenta il libro, in molte città italiane ed europee sono state costruite più abitazioni di quanti siano gli abitanti e, nonostante una domanda di case a prezzi accessibili (per l’acquisto o in affitto) le abitazioni continuavano a costare molto, troppo sia per viverci in affitto che per comprarle. E spesso queste nuove case sono rimaste vuote, invendute, le famose “case abitate dal vento”.
Le società di costruzioni edificano interi complessi non con la preoccupazione di venderli, o meno ancora di affittarli, ma solo per avere un bene di valore da mettere a garanzia per ottenere altri finanziamenti dalle banche da investire a loro volta in attività finanziarie e non in attività industriali, edilizie o in nuovi investimenti.
Parallelamente assistiamo negli ultimi anni ad una escalation di sfratti, sgomberi, di famiglie messe in mezzo alla strada perché non più in grado di pagare l’affitto o le rate del mutuo oppure di famiglie giovani o famiglie già sfrattate che non riescono a trovare una abitazione con prezzi accessibili ai bassi redditi da lavoro che oggi il mercato mette a disposizione.
Non solo. Quando trova una abitazione i suoi costi (affitto o rate del mutuo) sono talmente alti da mangiarsi gran parte del reddito da lavoro (o da pensione), sottraendo così risorse economiche agli altri capitoli di una vita sociale degna e pienamente compiuta.
Quella orrenda contraddizione di “case senza gente e gente senza casa” perseguita e ipoteca da decenni il mancato sviluppo sociale del nostro paese, che in molti settori – e quello abitativo è tra questi – è diventato un vero e proprio “regresso sociale”.
Tra le ragioni di questo regresso sociale, il libro individua e analizza bene quella che è stata la maggiore delle mistificazioni: la casa di proprietà.
La scarsità o il costo esagerato di case in affitto, ha visto milioni di famiglie italiane costrette a indebitarsi per anni con i mutui. Questo non ha portato solo a distorsioni economiche (la metà della ricchezza privata delle famiglie italiane è infatti immobiliare, quindi rendita e non ricchezza) ma anche a devastanti cambiamenti di condizione e mentalità.
Se più del 70% di famiglie italiane vive in una casa di proprietà e la rendita immobiliare delle famiglie ammonta a quasi 6mila miliardi di euro, possiamo dire che l’Italia da paese fondato sul “Patto tra produttori” è diventato un paese fondato su un “ Patto tra proprietari”, né più né meno come gli Stati Uniti, ma con una mobilità sociale assai inferiore.
Questo cambiamento nel patto costitutivo sociale – da produttori a proprietari – che in qualche modo era alla base del patto costituzionale (Repubblica fondata sul lavoro e non sulla rendita), ha prodotto danni a cascata e su molti aspetti.
In primo luogo la mentalità “proprietaria”, alimentando una illusione di indipendenza (“padroni a casa nostra”), crea in realtà una nuova forma di subalternità e una cultura dell’individualismo che spezza il senso collettivo alla base dei cambiamenti sociali.
In secondo luogo, il combinato disposto tra alti costi degli affitti e dei mutui e bassi redditi da lavoro/precarietà lavorativa, non solo aumenta a dismisura la fascia di disagio sociale intorno alla questione abitativa, ma ostacola e ritarda l’autonomizzazione dei giovani dalle famiglie, la creazione di nuovi nuclei familiari, lo stesso incremento demografico del paese. In pratica è un ostacolo al progresso complessivo e alle aspettative sul futuro della società stessa.
Si può ben parlare di un “micidiale combinato disposto” perché le scelte dei governi degli ultimi trenta anni sulla questione abitativa, sono alla base dell’emergenza permanente, delle strozzature e delle accresciute disuguaglianze che ne sono derivate.
La decisione di non costruire più case popolari o di edilizia sociale, aver eliminato la tassa di scopo sulla casa (la Gescal) inglobandola nella fornace della fiscalità generale, la totale liberalizzazione del regime degli affitti, l’aver affidato ai privati (e alla speculazione di costruttori e cooperative) l’edilizia agevolata e convenzionata sulle aree della 167, il via libera agli sfratti senza passaggi da casa a casa, l’aver consentito un regime fiscale agevolato alla rendita immobiliare, ha non solo trasformato l’emergenza abitativa in una costante che si riproduce continuamente – nelle aree metropolitane ma non solo – ma ha contribuito anche, come abbiamo visto, a quel complessivo regresso sociale del nostro paese.
Dalla fine degli anni Sessanta, i movimenti di lotta per la casa sono stati una istanza che ha affiancato il movimento operaio sui luoghi di lavoro. Sia nella loro forma spontanea (i comitati di lotta per la casa) che in quella sindacale vera e propria (come l’Asia/Usb ed altri.), i movimenti sociali sulla questione abitativa, con ondate e fasi diverse, hanno scandito la storia sociale del paese e di molte città.
Dalle occupazioni di case portate avanti dai baraccati fino agli anni ’70 (determinati dalla immigrazione interna dal Meridione verso Roma o le città del Nord), si è passati alle occupazioni degli anni ’80 che vedevano come protagoniste le famiglie sfrattate e giovani coppie, fino alle nuove ondate di occupazioni abitative portate avanti nel nuovo secolo dai nuovi immigrati, questa volta non più provenienti dal Meridione ma da altri paesi.
Ma la lotta per il diritto alla casa si è estesa molto al di là delle sole occupazioni abitative. Non casualmente oggi viene definito come “Diritto all’abitare”, esprimendo con esso una visione più complessiva della questione abitativa.
Agli occupanti di case e agli inquilini delle case popolari (per lo più proletari) si sono via via aggiunti gli inquilini delle case degli enti previdenziali privatizzate e dismesse nel quadro della “finanza creativa” dei governi di Maastricht, coinvolgendo così anche settori di ceti medi che mai avrebbero immaginato di finire nel calvario dell’emergenza abitativa.
Infine sono arrivati anche altri segmenti di ceto medio come gli inquilini e i proprietari truffati da cooperative e società private con i cosiddetti Piani di Zona costruiti sulle aree 167, costretti a pagare affitti o prezzi d’acquisto superiori a quelli legali e rischiano, nonostante affitti pagati o rate di mutuo in regola, di vedersi sfrattare dalle loro case.
Oggi possiamo e dobbiamo affermare che la lotta e i movimenti per il diritto all’abitare agiscono su una contraddizione divenuta dirimente come quella della contraddizione tra salari e profitti. Anzi prendono di petto il terzo fattore che lo stesso Marx evidenziava come soggetto della lotta tra interessi di classe diversi: la rendita.
E quest’ultima è decisamente la peggiore delle maledizioni che il sistema capitalista ha innestato nella e sulla società. È peggiore del profitto perché slegata sia dall’attività di impresa che dal lavoro salariato, è parassitismo allo stadio superiore e spesso cresce e sopravvive proprio uccidendo i primi due.
Sulla questione abitativa la rendita, dopo i tentativi di limitarla e regolamentarla messi in piedi nel dopoguerra e nella fase costituzionale del paese, dagli anni Novanta in poi ha potuto approfittarsi della deregulation più totale per espandersi e determinare le priorità sociali del paese.
I danni derivanti da queste scelte iperliberiste, tutte ben denunciate, documentate e argomentate in questo libro, sono sotto gli occhi di tutti, incluse le leggi introdotte dai governi più recenti per criminalizzare e reprimere quei movimenti per il diritto all’abitare che questa maledizione la denunciano e la contrastano da anni, tutti i giorni.
(prefazione al libro “Prigionieri del mattone“)
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