Il fatto che sia sufficiente la svalutazione di qualche punto percentuale della moneta cinese per far crollare le borse di tutto il mondo, mettere in allarme i governi e le istituzioni finanziarie di tutti i continenti, dare uno scossone al costo delle materie prime e dei prodotti petroliferi, significa che c’è più di qualche cosa che non funziona nella gestione economica di questo pianeta.
Significa che l’intero sistema economico è ormai intimamente connesso ma che vive un equilibrio assolutamente instabile e che un battito d’ali di farfalla in Cina può produrre un tifone in California o un terremoto in Europa.
Questa è la globalizzazione nella sua immediata e sicuramente semplicistica traduzione dei meccanismi di causa ed effetto dei fenomeni economici che trascinano poi quelli politici e sociali.
Il castello, o i castelli, così costruiti e rappresentati mediaticamente a miliardi di persone come monoliti, come processi ineluttabili, crollano o vengono messi fortemente in discussione da un singolo evento come la parziale svalutazione di una singola moneta.
Se raffrontiamo quel che sta accadendo in Cina in queste ore con la vicenda della Grecia, appare ancor più evidente che quanto accaduto in Europa, pur se per dimensioni economiche si tratta di un evento insignificante a paragone del primo, rappresenta però una situazione di estrema fragilità, complessa e dalle conclusioni assolutamente imprevedibili.
In altre parole, chi vuol farci credere che ormai non è più possibile muoversi all’interno dei singoli continenti o dei singoli stati per poter modificare strutturalmente la vita di milioni di persone, chi tende a presentare una situazione immutabile rispetto alla quale è possibile soltanto l’accettazione acritica dell’attuale modello economico e sociale, lo fa sapendo di mentire e allo scopo di sopire/reprimere ogni conflitto sociale.
E allora dobbiamo renderci conto che anche per quanto riguarda la vita sociale e sindacale di un singolo paese è possibile e doveroso cambiare: non siamo schiavi del fato e se ci si rende conto che è possibile cambiare, allora non c’è più nulla di immutabile.
Cominciamo dalle piccole cose, cominciamo a demolire l’indifferenza, la rassegnazione, l’impotenza che ha contraddistinto la storia sociale di questo paese negli ultimi decenni.
Come sindacato, come USB, stiamo facendo la nostra parte e spesso ci troviamo anche a dover intervenire in termini sociali in ambiti che prima erano prerogativa dell’attività della politica, di una politica che oggi è imbrigliata, omologata e per gran parte preoccupata soltanto di perpetuare se stessa.
Sindacalmente c’è però bisogno di crescere tutti insieme e rapidamente, di dare un segnale forte e chiaro, di affermare senza paura che esiste un’alternativa a chi ha abbandonato la strada della rappresentanza reale di chi lavora.
C’è bisogno di costruire le basi che permettano di dare voce a quel disagio sociale che è sempre più evidente, di mettere in campo quel conflitto sociale che solo può rimettere in moto il protagonismo di milioni di donne e uomini che vogliono cambiare e desiderano vivere in una società diversa e più giusta di quella in cui oggi si vivono.
Ma per non rimanere sul piano delle enunciazioni è indispensabile indicare un percorso che faccia intravedere una via di uscita e una vera alternativa, per quel che ci compete, a livello sindacale.
Sicuramente non esistono scorciatoie: è necessario creare un’organizzazione che sia insieme modello alternativo in termini di obiettivi e di metodo e strumento democratico e partecipato in mano ai lavoratori.
Ma il primo passo per costruire un’alternativa che ridia spessore e senso al significato stesso della parola sindacato è rappresentato dalla cesura netta nei confronti delle esperienze di Cgil, Cisl e Uil, quelli che vengono ormai definiti “sindacati complici” del sistema e che tanti danni stanno provocando ai lavoratori.
E questo non soltanto e non principalmente per gli scandali che stanno investendo in questi giorni la Cisl e che presto si estenderanno ad altri, cosa questa che da sola dovrebbe già produrre una emorragia di iscritti senza precedenti: il motivo fondamentale è che questi sindacati sono irriformabili, sono ormai parte del sistema e ad esso rispondono e per questo motivo non sono più in grado di rappresentare degnamente ed efficacemente gli interessi dei lavoratori.
Difendere i diritti di chi lavora non vuol dire difendere i privilegi come questo ed altri governi stanno ripetutamente affermando: al contrario vuol dire difendere la dignità della gente, vuol dire emanciparsi, vuol dire chiedere e pretendere una democrazia che non sia quotidianamente sfregiata dall’avidità e dall’interesse di pochi.
Cominciamo a sbattere le ali e a volare più alto, forse scopriremo di poter essere molto più determinanti di quel che molti pensano.
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