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La scuola non è una famiglia

Modificando la frase più famosa attribuita a Goebbels, mi viene da dire: Quando sento la parola famiglia, metto mano alla pistola”.

E non solo perché dire che l’ambiente lavorativo è simile a quello familiare significa fare a meno dei diritti e delle leggi sul lavoro, che in famiglia non esistono, e così facendo, ci si espone ai peggiori abusi, che si consumano in varie forme tra le mura domestiche.

Ma anche perché nelle famiglie ci sono invischiamenti, triangolazioni e dipendenze, che solo con enormi difficoltà e investimenti energetici da parte del singolo riescono a vedere la luce.

E spesso le denunce sono l’inizio di un secondo calvario per via dei sistemi e organi preposti, che invece di proteggere le vittime, coprono i carnefici.

I cuccioli d’uomo sono gli unici in natura a dipendere dai genitori per molti anni, per nutrimento, accudimenti vari e per forgiare quegli strumenti culturali necessari per inserirsi in una società in cui ciò che è naturale è definito dallo spazio e dal tempo in cui ci si ritrova a vivere.

Questa dipendenza dei bambini dai genitori è il terreno fertile per i traumi.

Il tutto poi avviene, quasi sempre in totale inconsapevolezza. Per cui si finisce per ripetere schemi appresi a livello inconscio, che filtrano e limitano le proprie possibilità di conoscenza e interazione col mondo. La struttura connotante, che si va a creare, è fonte di dolore per chi agisce e per chi reagisce.

L’insegnante riveste uno dei ruoli più complessi nella nostra società, perché se sul piano didattico deve di continuo calibrare il proprio metodo in base alle caratteristiche dei singoli e del sistema educativo e socioeconomico, su quelli emotivi e psicologici, oltre che con gli alunni, deve interagire con colleghi nella gestione della classe, con i genitori, per condividere giudizi e punti di vista sui loro figli, e col preside (o altre figure intermedie) per questioni burocratiche, legislative e di pianificazione.

Questa rete intricata risente da un lato delle direttive ministeriali che veicolano una chiara idea di scuola, dall’altra della storia personale e delle capacità umane e professionali del singolo docente. È inutile ribadire che le une e le altre si influenzano a vicenda.

Spesso accade che, proprio come all’interno di una famiglia, si nutrono invischiamenti:

tra docente e superiori, per ottenere protezione, favori o per aggiungere qualche euro in più al magro stipendio;

tra docenti e genitori perché si creano alleanze disfunzionali in nome dell’affetto, di convenienze o di empatia (ne parleremo in seguito), che sfuggono alla regolamentazione ed aprono a scenari, che vanno contro lo sviluppo di una reale autonomia di tutte le parti in gioco;

tra docenti ed alunni perché, per sua natura, questo lavoro, riattivando le parti bambine ed adolescenti del lavoratore, lo espone a contattare fragilità ed irrisolti, che quasi sempre portano ad agiti inconsapevoli per compensazioni illusorie.

Questo spettacolo così denso di umanità si svolge in un microcosmo chiuso, in cui in nome di un’autonomia legiferata, ci si adegua alle tacite dinamiche interne, che spesso hanno poco a che fare con l’insegnamento.

Inclusione ed empatia sono due delle parole più usate in contesto scolastico.

Sventolando la bandiera dell’inclusione, si aggiunge un piatto a tavola, senza avere nemmeno le sedie. Il clan fa quel che può per accogliere l’altro, con i mezzi che si ritrova.

L’inclusione si trasforma nell’arte di arrangiarsi per non lasciare indietro nessuno e, senza veri investimenti né una visione pedagogica chiara, finisce per tradursi in iniqua distribuzione degli sforzi, devitalizzazione delle potenzialità e assenza di reale cura dei più bisognosi.

Empatia è sentire l’altro e con l’altro. Comprenderlo, mettendosi nei suoi panni, stando dentro e fuori. Ciò è possibile solo se c’è accoglienza, consapevolezza ed ascolto profondo, senza giudizio. Cosa ne è dell’empatia quando vengono a mancare queste premesse?

Se ne stravolge il senso e si trasforma in un’accettazione acritica dell’esistente, in un mieloso “volemose bene”, che non può non avere una ricaduta negativa sul sistema educativo e da qui su un’intera nazione.

La vera empatia va a scoprire ciò che quella falsa copre. Un miscuglio, spesso indistinto, di affetto, nevrosi e proiezioni, che si nutre dell’assenza di stato e famiglia.

Così gli studenti, nel periodo più delicato e vulnerabile della propria esistenza, sono preda della logica dell’asservimento e del profitto, delle continue allerte per le catastrofi e dell’illusione di potercela fare a discapito degli altri. In tali vicoli ciechi aumentano le ansie, le depressioni e i disturbi correlati, che la falsa empatia individua male e gestisce peggio.

Il paradosso sta nel fatto che lo stesso sistema educativo e statale propinano esempi che sono l’esatto opposto della vera empatia e della reale conoscenza al di là dei dogmi e dei diktat, che si alimenta del dubbio e del confronto.

La schizofrenia generata aumenta la solitudine, oltre che l’impotenza. La comunità si sfalda e non si scorge alternativa all’orizzonte. La rincorsa ai soldi dei genitori è speculare a quella al voto degli studenti. Ad ogni costo. Il “Whatever it takes” di draghiana memoria in tutte le salse possibili.

Senza capire che i costi li stiamo già pagando tutti. Tutti meno che i pochissimi, a cui i più sperano vanamente di omologarsi.

Ritornando al parallelismo tra scuola e famiglia, in ambedue i microcosmi si rileva un’assenza di controllo e una difficoltà di accesso da parte di esterni.

Per questo l’unica forma possibile di controllo è l’autocontrollo, da parte di chi esercita il potere. La deontologia diventa affare del singolo, che spesso per difenderla si ritrova solo a percorrere contromano una strada fatta di scontri e incidenti quotidiani. In che misura ciò avvenga nessuno può dirlo con sicurezza.

A chi giovi si può immaginare…

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