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Primo settembre: come riparte la scuola

Il primo settembre inizierà in tutta Italia il nuovo anno scolastico, il più lungo tra quelli dei paesi europei, dove nella maggior parte dei casi  si va a scuola un mese meno che da noi.

In realtà, molte scuole superiori hanno già dovuto riaprire i battenti, alcune già il 22 agosto, per gli esami degli studenti con il giudizio sospeso, vale a dire per gli esami di riparazione che il ministro Valditara ha preteso si tenessero prima di settembre. Una decisione che ha portato studenti e insegnanti a scuola con temperature tra i 35 e i 40°, ha accorciato i tempi per la preparazione degli studenti e messo a rischio il rispetto delle ferie contrattuali per gli insegnanti che hanno svolto il ruolo di commissari della maturità.

Lo scorso anno scolastico si era chiuso con il clamore provocato dalla  decisione degli insegnanti del liceo Pilo Albertelli di Roma, seguiti da altri collegi docenti di diverse regioni,  di rifiutare lo stanziamento di ben 275.000 euro destinati alla loro scuola nell’ambito dei fondi per l’istruzione previsti dal PNRR.

Si è trattato di un movimento  che ha coinvolto un numero limitato anche se geograficamente esteso di scuole, ma su parole d’ordine significative. Infatti,  può stupire che in un settore come quello della scuola, che ha subito negli ultimi decenni  una drastica riduzione delle risorse economiche, dei collegi docenti rifiutino finanziamenti tanto  importanti..

In realtà, il rifiuto dei docenti è motivato dagli obiettivi stabiliti per la scuola nel PNRR, imposti alle scuole senza alcun dibattito, che puntano a rafforzare sempre più una didattica asservita alle imprese e una formazione degli studenti orientata al lavoro come mano d’opera flessibile, passiva e acritica.

Punti qualificanti di tale progetto sono lo sviluppo della didattica per competenze a scapito dei saperi e la digitalizzazione forzata dell’insegnamento. La quasi totalità  dei fondi per  scuole è così destinata all’acquisto di apparecchiature informatiche,  nella logica tecnocratica per cui la vera innovazione didattica è legata solo al digitale.

Secondo il Ministero, il miglioramento dell’insegnamento/apprendimento può passare solo dall’uso (o dall’abuso?) del digitale, buttando nella spazzatura decenni di sperimentazioni e di innovazioni che si sono comunque fruttuosamente svolte a prescindere dall’uso delle cosiddette  nuove tecnologie.

Tutto questo si può comprendere se si riflette sulle origini del PNRR, che è un fondo la cui corresponsione  (in gran parte a prestito) è controllata dall’Unione Europea, che controllerà la realizzazione vincolante dei progetti attraverso oltre seicento precisi criteri. Una situazione che abbiamo analizzato già da tempo su Contropiano (La scuola dal 7 gennaio verso il Next Generation Fund – Contropiano).  

Le politiche scolastiche UE degli ultimi trent’anni sono ben note e vanno nella direzione di una forte sottomissione della scuola al mondo del lavoro, non certo nella direzione della formazione di cittadini equilibrati, critici e colti.

A questi progetti fa da riscontro l’aggressività privatistica delle aziende informatiche che stanno già entrando nelle scuole per imporre i loro prodotti nel nuovo mercato della scuola. Giungono notizie di riunioni  di docenti convocati per ascoltare le meravigliose prospettive dell’insegnamento digitale spiegate da qualche venditore di computer e in seguito praticamente obbligati ad acquistare (a loro spese)  dispositivi  decisi dai presidi su indicazioni delle aziende. Tutto ciò in spregio alla libertù d’insegnamento e  ai diritti degli insegnanti a scegliere metodi e  strumenti del proprio lavoro.

In concorso all’impegno delle ditte per vendere più dispositivi digitali alle scuole, si sviluppa quello delle agenzie di formazione, spesso improvvisate  “ad hoc”, che propongono ai docenti improbabili aggiornamenti sul  digitale che dovrebbe caratterizzare  la didattica a partire dalla scuola dell’infanzia  (cioè a partire dai tre anni).

In tutto questo minestrone  digital-robotico (la robotica è una delle novità del giorno)  la pedagogia, quella vera, è assente a vantaggio di una serie di ricette  tecnico-pratiche poco fondate educativamente. Ma è normale, dato che molti dei nuovi cosiddetti formatori d’insegnanti la pedagogia non l’hanno mai studiata né particata.

I fondi del PNRR quindi non vanno nella direzione che sarebbe più logica e vicina alle aspettative di insegnanti e docenti, vale a dire provvedimenti per diminuire le disuguaglianze, classi meno numerose e ammodernamento delle strutture e delle attrezzature non necessariamente informatiche.

Le promesse formulate nel periodo pandemico e postpandemico sulla riduzione del numero di alunni per classe e sull’assunzione di nuovo personale nella scuola come su tutti gli investimenti allora postulati sono ormai dimenticate.

La componente dei docenti precari è salita dal 2015 a oggi sino al 24% del personale. Il precariato, con i continui avvicendamenti degli insegnanti, è causa di scarsa continuità nell’insegnamento e impedisce lo sviluppo della relazione educativa, proprio in un momento in cui i giovani appaiono particolarmente bisognosi e attenti allo sviluppo dell’aspetto relazionale della loro crescita.

Al contrario, il Ministero sembra andare dritto verso ciò che è stata definita da alcuni dematerializzazione dell’insegnamento, con la trasformazione della scuola in un’enorme struttura digitale dove la direttività e l’unidirezionalità dell’insegnamento non daranno spazio alla relazione educativa.

Di nuovo, sul fronte degli insegnanti, c’è l’assai discutibile e per certi aspetti non chiara novità  della figura degli “orientatori”, formati con un corso telematico di venti ore piuttosto mal organizzato,  che rappresenta tra l’atro l’ennesimo passo per la stratificazione gerarchica della professione docente.

Tali figure dovranno orientare gli studenti a conoscere le proprie attitudini ma anche i propri limiti e le loro possibilità di lavoro future. Insomma – direbbe il preside di starnoniana memoria – “non facciamo poesia, formiamo ragionieri”.

In pratica, questi orientatori sono pensati anche per limitare le aspettative sociali future degli studenti dimensionandole sulla prospettiva del lavoro possibile, se e quando questo ci sarà.

A tal proposito il ministero prevede che ogni studente debba precocemente attrezzare un proprio curriculum in cui riportare le proprie esperienze scolastiche e non e persino i propri “capolavori” annuali. Insomma, una prefigurazione di curriculum professionale denominato portfolio, che sarà naturalmente digitale. Sinora, tutte le volte che nella scuola si è parlato di costituire un portfolio il risultato è stato un fiasco totale. Vedremo questa volta.

Nell’attesa di una legge di bilancio da cui è illusorio aspettarsi novità positive per la scuola, si preannunciano invece ulteriori accorpamenti di istituti, dettati come sempre dall’idea di tagliare la spesa per l’istruzione.  Esito di tali operazioni di accorpamento è la creazione di megaistituti che poco si adattano alle esigenze dei ragazzi più giovani e che provocano la costituzione di collegi docenti numerosissimi, in cui diventa difficile conoscersi, collaborare ed esercitare quel ruolo decisionale che sarebbe di loro competenza.

Ma forse è quello che il ministero desidera, cioè ridurre a muti esecutori gli insegnanti, già peraltro frustrati da anni di contratti bidone e da riforme che ne hanno svilito il ruolo intellettuale e formativo con l’acquiescenza dei sindacati CGIL-CISL-UIL-SNALS-GILDA-ANIEF.

Mi sembra giusto concludere con uno sguardo alla situazione delle famiglie, poiché i costi di una scuola che dovrebbe essere gratuita aumenteranno anche quest’anno non solo per l’aumento dei prezzi dei libri d testo, ma anche dei contributi complementari che le scuole richiedono ai genitori per provvedere ad alcune esigenze minime relative al funzionamento dell’istituzione. Insomma, alla fine la carta igienica, se la volete dovete pagarla.

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