Prendiamo parola dopo i tragici stupri di Palermo e Caivano e dopo l’ennesimo femminicidio in un quartiere popolare di Roma.
E lo facciamo all’interno di un dibattito di cui né i contorni né i contenuti ci appartengono. “Se eviti di ubriacarti…”, “ragazza poco di buono”: commenti agghiaccianti, accompagnati da una spettacolarizzazione mediatica del dolore, che rifiutiamo perché altro non sono che la dimostrazione della condizione in cui la nostra società sta sprofondando.
Liberarsi dalla paura del “lupo” (che non è un mostro sconosciuto che vive nel bosco o un mondo di fantasia, ma purtroppo un uomo “qualsiasi” vicino a noi) e rifiutare la caricaturale visione di una donna obbediente e moralmente impeccabile (e, perché no, angelo del focolare o moderna lavoratrice-schiava modello) è per noi il primo passo per reagire tutte insieme di fronte alla violenza come fenomeno sistemico, dentro e fuori le mura di casa.
E purtroppo la realtà non corrisponde nemmeno a quella descritta da Dacia Maraini (come da tante altre commentatrici): i commenti sessisti che sono circolati in rete e nei media non sono solo figli di “un’idea di emancipazione della destra basata sulla conquista individuale”.
Questi, infatti, rappresentano una narrazione che serpeggia nel nostro Paese, in cui l’egemonia di visioni reazionarie e bigotte, nonché la loro proliferazione nei settori popolari, non è che l’effetto di un sistema complessivamente basato sullo sfruttamento e di decenni di macelleria sociale e culturale operata soprattutto dal centrosinistra, alla faccia delle tante belle parole del femminismo da salotto.
Un sistema nel quale prevale una concezione egemone della sessualità che riflette una società basata su relazioni diseguali, sulla logica della proprietà, sull’individualismo, sulla competizione, sulla prevaricazione e sulle dinamiche di potere.
Una società nella quale la donna è considerata come un oggetto posseduto, una vittima e una debole – o anche come forte ed emancipata, ma sempre su un gradino più in basso nella scala del potere.
E come tale è rappresentata anche nelle immagini spesso distorte e maschiliste della sessualità a cui i giovani hanno continuamente accesso tramite Internet e i social media, senza troppo spesso avere gli strumenti di coscienza e consapevolezza per saper distinguere la finzione dalla realtà e, oltretutto, senza avere accesso a una vera alternativa nella rappresentazione del sesso e della sessualità.
Non ci interessa, in questo senso, promuovere e accodarci al dibattito mainstream in atto, ma piuttosto costruire un ragionamento più ampio sulla violenza che ci permetta di costruire il nostro punto di vista, quello delle donne e delle libere soggettività sfruttate e delle borgate.
Crediamo innanzitutto che il senso di smarrimento e di dolore che proviamo di fronte a ogni episodio di violenza sulle donne e sulle libere soggettività non debba trasformarsi né in rassegnazione e immobilismo, né in una paura crescente, né tantomeno in atteggiamenti manettari e giustizialisti.
La nostra più che lecita sete di giustizia non può trovare risposte vere e strutturali nell’attesa, remissiva o arrabbiata che sia, dell’azione della polizia e/o delle leggi dello Stato.
Sebbene possa leggersi come una risposta immediata e concreta delle istituzioni agli atti di violenza, l’esaltazione della repressione di carattere “individuale” operata dallo Stato finisce per deresponsabilizzarlo e per far distogliere lo sguardo da un problema che è invece collettivo e sociale e che non si risolverà carcerando una a una le “mele marce” che la società malata in cui viviamo produce.
Inoltre, l’odio e il disprezzo nei confronti di chi stupra e opera qualunque forma di violenza sulle donne non può farci dimenticare la sistematica violenza operata ogni giorno da uno Stato che ha abbandonato le fasce più fragili della popolazione, comprese le stesse donne, che ha abbandonato le nostre periferie e i nostri quartieri popolari, che reprime le lotte sociali e che permette alla borghesia mafiosa di proliferare e crescere sulle spalle della gente e dei tanti ragazzi e ragazze delle nostre periferie che non hanno un futuro, o meglio, hanno un futuro già scritto.
Quella che deve vincere non è la giustizia dello Stato ma la nostra giustizia, quella delle donne, degli uomini e delle libere soggettività che ogni giorno lottano per se stesse e per le proprie famiglie e affetti, per guadagnarsi un presente e un futuro dignitoso, nella totale assenza delle istituzioni.
Facciamo nostre, in questo senso, le parole degli abitanti di Caivano che, nelle interviste durante la visita di Giorgia Meloni, hanno espresso tutta la loro rabbia anche nei confronti della totale assenza di servizi pubblici per gli abitanti e i ragazzi che crescono nella periferia della metropoli napoletana.
Parole del tutto inascoltate dalle istituzioni, dato che Meloni e Piantedosi, incapaci di fornire una risposta adeguata alla violenza accaduta, hanno saputo riproporre solo dei maxi-blitz per “riportare la legalità” e hanno tirato fuori per l’occasione decreti-legge assurdamente repressivi rivolti ai minorenni (che, tra l’altro, poco c’entrano con lo stupro).
L’ennesima strumentalizzazione politica della violenza sulle donne, stavolta per criminalizzare i quartieri popolari.
Crediamo quindi che sia giunto il momento di trasformare la rassegnazione in rabbia e l’odio viscerale nei confronti dei colpevoli in azione collettiva contro la barbarie che questa società basata sullo sfruttamento produce.
La Storia ci dimostra che le donne, le lavoratrici, le sfruttate hanno vinto sempre e solo quando si sono fatte trovare unite, arrabbiate e organizzate contro chi invece le avrebbe volute sottomesse, remissive e sempre pronte a delegare ad altri la risoluzione dei loro problemi.
Ma, oggi come ieri, dobbiamo anche stare attente a chi vuole utilizzarci come strumento di divisione all’interno della nostra classe, ovvero di quel “noi” più ampio dove possiamo riconoscerci perché siamo tutte e tutti oppressi da un sistema economico e politico basato sullo sfruttamento e che usa il patriarcato e le discriminazioni sociali, culturali, sessuali e di genere come strumenti di dominio e sopraffazione.
La nostra rabbia deve essere, però, organizzata e rivolta verso obiettivi concreti. Dobbiamo lottare per la nostra liberazione che non può che passare per la (ri)conquista di diritti e di strumenti di emancipazione materiale e culturale che ci permettano di ottenere indipendenza e autodeterminazione e di vivere libere dalla paura e dalla rassegnazione perché libere di scegliere.
In questo senso vogliamo sicurezza sociale, autonomia, lavori dignitosi e indipendenza economica.
Pretendiamo centri antiviolenza pubblici e diffusi sul territorio, così come consultori gratuiti e accessibili in ogni quartiere e nelle scuole, servizi di supporto specifici per le ragazze e i ragazzi e forme di sostegno e ascolto anche per gli uomini.
Vogliamo accesso libero e gratuito alla scuola e all’educazione, spazi culturali, sociali e sportivi in tutti i quartieri periferici e maggiori servizi, dalla sanità ai trasporti.
Vogliamo che tutte le donne si sentano sicure nel vivere la propria vita, soprattutto le ragazze delle periferie che abitano in zone dove i mezzi, laddove esistono, passano raramente, sono sovraffollati e le fermate dei bus spesso al buio, ed è per questo che pretendiamo taxi pubblici gratuiti di notte.
Vogliamo poi che le donne, le libere soggettività, le sfruttate siano in prima fila nell’attività politica e sociale in città e nel paese per imporre un cambiamento culturale contro le discriminazioni, l’inferiorizzazione e la vittimizzazione a cui veniamo quotidianamente sottoposte.
Infine, pretendiamo fondi pubblici strutturali per l’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole – come materia obbligatoria, non sporadica, laica e che non tratti solo l’aspetto biologico della sessualità – e ci batteremo, a partire dagli istituti romani, per costruire il controllo studentesco sull’educazione alla sessualità proposta dal ministro Valditara.
A riguardo, le sue prime (e uniche) dichiarazioni non ci fanno ben sperare: come al solito, il ministro mette una toppa per evitare proteste a seguito delle violenze subite da ragazze e studentesse come noi.
Inutile dire che non riusciamo a fidarci di chi, proseguendo sulla strada della distruzione e aziendalizzazione della scuola pubblica, ha voluto formalizzare la divisione tra gli studenti in base al fantomatico “merito” e ora utilizza l’educazione alla sessualità per nascondere il fatto che ormai la scuola non ha più alcuna funzione sociale e di accrescimento culturale.
Contro la violenza sulle donne e le libere soggettività vogliamo poi recuperare e costruire percorsi di autodifesa che, nel senso più ampio del termine, per noi significa costruire nei quartieri una difesa collettiva alla violenza e legami di solidarietà popolare in grado di superare la visione individualistica della nostra società e di abbandonare la visione della donna e delle libere soggettività come soggetti deboli o, per meglio dire, come soggetti socialmente e storicamente indeboliti.
E autodifesa significa anche non escludere la violenza agita, laddove necessaria per difenderci e, soprattutto, significa costruire qui e ora strumenti di liberazione dalla violenza subita in tutte le sue forme, domestica e fuori dalle mura di casa, economica, sociale, dell’apparato repressivo e dai dispositivi di divisione di classe e di genere, e agita tra l’altro dagli uomini ma anche dalle donne, quelle al potere, quelle che ce l’hanno fatta.
Su questi temi ci troverete nelle strade a partire dalla mobilitazione indetta da Non Una Di Meno per l’8 settembre a Roma a piazza Cavour, per dei momenti informativi nei quartieri popolari e in occasione del Corteo per Fabrizio Ceruso il 9 settembre e a partire dalle prime settimane di scuola lanceremo dei momenti di mobilitazione studentesca.
Riverseremo la nostra rabbia, la rabbia delle donne de borgata, nelle piazze, nei quartieri, nelle scuole… contro la violenza ci autodifenderemo!
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Mara
Bisognerebbe riflettere anche sui motivi che inducono la violenza in ambito familiare non solo tra coniugi ma anche tra genitori e figli considerato l’alto numero di questi atti di violenza.