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Il “ritorno al passato” di Bocchi sulla violenza sulle donne

Il consigliere di Fratelli d’Italia Priamo Bocchi (Emilia-Romagna) nell’ambito della discussione sulla risoluzione per aderire alla campagna “Safe place for women” ha fatto una serie di dichiarazioni che, come è giusto che sia, hanno fatto indignare molte e molti. Bocchi non solo ha dimostrato ignoranza, dato che in ambito giuridico già si riconosce che la violenza sulle donne abbia alla base una specificità come movente: proprio la differenza di genere, l’essere donne, motivo per cui si parla di femminicidio con un termine a sé stante e, no, non è la stessa cosa che “anzianicidio”.

Ma al di là della confutabilità e discutibilità di alcune affermazioni (usare l’Argentina dell’iperliberista Milei come esempio ci fa venire i brividi, ma non ci stupisce), il consigliere mette in fila nel suo discorso una serie di stereotipi e ruoli di genere che ci fanno infuriare, ma anche riflettere. Infatti, da un lato ci ripropone la solita immagine della donna che “viene esaltata” (cit.) solo quando “porta il pollo a tavola” (cit.). D’altro canto, concentra tutto il suo discorso sul cercare una spiegazione alla violenza sulle donne mettendo l’accento sulla “perdita di virilità” da parte dell’uomo e sulla sua (nuova) dipendenza dalla donna che lo renderebbe frustrato e, quindi, violento.

In altre parole, Bocchi ci dice che, se non si fosse mai messo in dubbio il modello di uomo forte “che non deve chiedere mai” e se quindi l’uomo svolgesse ancora il suo ruolo di “colui che porta i pantaloni” (e magari anche il pane a casa) non avremmo problemi di violenza di genere. Come sappiamo, invece, la violenza sulle donne ha radici ben più profonde ed è figlia degli stessi ruoli di genere che oggi, in parte, vengono messi in discussione. Il vero problema non è, quindi, il cambiamento dei ruoli di genere negli ultimi anni, ma che questi ruoli sono storicamente stati imposti da un sistema che li usa per dei propri tornaconti.

Prima la società era organizzata in modo che l’uomo fosse il capofamiglia, inserito nel lavoro produttivo, mentre la donna era relegata unicamente al ruolo di madre e angelo del focolare, dedita alla “riproduzione” sociale. Da un lato, quindi, era necessario l’uomo forte, che non piange, non esita, che deve avere successo e così via. Dall’altro, serviva una donna debole, sottomessa, accogliente, disponibile. Questi ruoli non erano “naturali”, ma funzionali e strumentali a un sistema produttivo di un certo tipo. Un sistema fatto di gerarchie da difendere (anche) con la violenza, nel quale qualcuno controlla e opprime e qualcun’altro viene oppresso, dal posto di lavoro alla casa.

Quando il sistema ha avuto bisogno di più persone da sfruttare, meglio ancora se costrette a essere più flessibili, meno pagate e ricattabili, ha “chiamato” anche le donne a lavorare fuori casa: un cambiamento che ha permesso alle donne sicuramente un passaggio in termini di emancipazione sociale (che storicamente è coinciso anche con gli anni dei movimenti politici), ma che le ha caricate al contempo del doppio lavoro produttivo e di cura.

Questo ha rotto l’equilibrio precedente: l’uomo che prima si sentiva dominante ora non si sente più tale, perché il lavoro e il reddito non sono più solo una sua prerogativa. Una messa in discussione che può essere decisamente destabilizzante per chi è cresciuto con un modello maschile ben preciso, tanto da amplificare e riprodurre frustrazione e senso di fallimento che, in un sistema basato sulla prevaricazione e intriso di cultura patriarcale, si esprime nella violenza sulle donne e di genere. Perché oltre che sulle donne, analogamente, la stessa destabilizzazione si riproduce nella violenza contro le libere soggettività e nell’assurda retorica sulle “teorie gender” fomentata dalla destra.

Ma il problema non è che prima “si stava meglio”. La violenza c’era eccome (Vogliamo parlare del delitto d’onore? O vogliamo chiedere alle nostre nonne come si stava 60 anni fa?), ma il sistema aveva imposto altri ruoli, sempre oppressivi. Ruoli che adesso si sono modificati seguendo le necessità del sistema produttivo in cui viviamo.

Poi c’è un altro aspetto che riguarda i cambiamenti di ruoli a cui stiamo assistendo. Per chi è privilegiato e si trova nelle sfere sociali più agiate, il cambiamento è stato vissuto positivamente perché ha aperto delle opportunità di scalata economica e sociale. Per chi sta in basso nella gerarchia sociale, invece, il cambiamento ha portato insicurezza e frustrazione, perché non ha eliminato le disuguaglianze, ma le ha solo riorganizzate. Il risultato è che il sistema stesso sta collassando sulle sue contraddizioni: ha distrutto i vecchi modelli di genere che imponeva fino a ieri, ma senza offrire una reale alternativa, se non quella di un finto progresso basato su una competizione ancora più feroce e su nuove forme di violenza.

In questo senso, se inorridiamo per le parole di Bocchi, una funzione non migliore la ha il centrosinistra che difende a parole i diritti delle donne ma in pratica ripropone uno stesso modello di società: quella della prevaricazione e dello sfruttamento. Le conquiste “progressiste” che danno libertà alle donne di fare carriera e successo al fianco degli uomini nascondono infatti lo stesso scopo di fondo: quello di produrre per arricchire pochi e riprodurre questa società a tutti i costi, calpestando chiunque e riproducendo individualismo e arrivismo. Lo capiamo anche considerando che le donne privilegiate si possono “liberare” solo in nome di un potere economico e sociale che fa sì che ci siano altre da sfruttare (tipo le lavoratrici domestiche migranti).

Tornando al punto, quindi, diciamo che sì, il cambiamento nei ruoli ha creato frustrazione in alcuni uomini che spesso si traduce in violenza, ma non perché prima si stesse meglio, o perché i ruoli di genere precedenti e quei modelli di “uomo” e “donna”, fossero più giusti. Quei ruoli, come questi attuali, erano e sono imposti da un sistema che opprime tutti, uomini e donne, in modi diversi. Il problema, in sostanza, è più ampio e sta proprio nell’esistenza stessa di quei ruoli, definiti dal sistema capitalista in cui viviamo.

La soluzione non è quindi tornare ai vecchi ruoli, come sembra suggerire Bocchi. E non basta neanche fermarsi a un semplice cambio culturale: il problema non è solo la mentalità, ma il modello sociale ed economico che continua a sostenere divisione e divario tra generi per ottenere quello di cui ha bisogno.

Per questo, non ci serve a nulla parlare di conflitto tra uomini e donne, come dice il consigliere di Fratelli d’Italia, né tantomeno ci serve colpevolizzare gli uomini in quanto tali (e con questo non intendiamo, ovviamente, deresponsabilizzarli). Crediamo piuttosto in una presa di coscienza di questi ruoli e nel loro superamento, tramite il ribaltamento di questo modello di società e dei suoi meccanismi. Perché finché ci sarà un mondo dove pochi hanno il potere di sfruttare o sottomettere tante e tanti, non vedremo la fine della violenza di genere e non saremo mai veramente libere e liberi.

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