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Foibe, verità storiche e vulgata di una memoria che non è ancora condivisa

A poca distanza dal “Giorno della memoria” (27 gennaio, nel ricordo dei milioni di morti nei campi di sterminio nazifascisti), dal 2005 ogni 10 febbraio cade il “Giorno del ricordo”, nel ricordo delle «vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, […] di tanti innocenti colpevoli solo di essere italiani» (il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 9 febbraio 2019).

È invece la ricorrenza della firma a Parigi di quel Trattato di pace che, nel breve volgere di qualche anno, consentirà la riammissione dell’Italia nel novero delle Nazioni unite.

Ma nel Belpaese si preferisce tuttora ignorare questo fondamentale passo per la storia repubblicana ed enfatizzare la contemporanea perdita territoriale a cui è stato costretto dalle mire imperialiste del Fascismo, ricucendo sul Paese aggressore ovvero su noi stessi l’identità fittizia e auto-assolutoria degli italiani-brava-gente.

Viva l’Italia

E veniamo alle foibe. Un genocidio, come qualcuno lo ha dipinto? Il massacro di cittadini «rei soltanto di essere italiani»?

Sono bugie. Come rileva Nevenka Troha (membro della commissione italo-slovena chiamata nel 1993 dai due governi a far luce sulla complessa vicenda), «i documenti confermano che gli jugoslavi non volevano affatto colpire e tantomeno eliminare gli italiani in quanto tali, ma catturare, perseguire e punire i responsabili e complici dei crimini fascisti e nazisti».

La studiosa aggiunge che i «dati disponibili sugli uccisi italiani confermano che si trattava in maggioranza di persone coinvolte nel fascismo e nel collaborazionismo, in particolare come membri delle formazioni militari, paramilitari e di polizia, anche se è verosimile che tra essi non tutti furono egualmente (o affatto) colpevoli a livello personale dei crimini commessi sotto quelle insegne.

Le tensioni personali e collettive erano infatti quelle, senza precedenti storici, provocate dalle dittature fascista e nazista, alimentate dal razzismo e dall’imperialismo di Stato e culminante nello scatenamento di una immane guerra di conquista mondiale e di sterminio o assoggettamento delle “razze inferiori”».

In queste terre adriatiche vocate al multilinguismo, i comunisti jugoslavi si dicono per la fratellanza tra i popoli, sia pure con accenti nazionalistici. La mano tesa è però negata «agli esponenti fascisti di primo piano e ai criminali di guerra», come recita una comunicazione diplomatica jugoslava agli ambasciatori a Belgrado di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Ma siamo in tempi di rancore e per estensione anche qualche a-comunista o qualche innocente burocrate passerà per “fascista”.

Dopo due anni di scellerata e violenta occupazione nazifascista e venti anni di razzismo italiano a spese degli s’ciavi (con vari artifici fiscali, il fascismo ha espropriato le terre dei piccoli contadini croati e sloveni per consegnarle ad altri «di pura razza italiana»), siamo ora alla resa dei conti.

Con l’arrivo dell’esercito jugoslavo in Istria e a Trieste, dopo l’8 settembre 1943 e nel maggio 1945 – nonostante le disposizioni, che consigliano equità e prudenza – a volte prevalgono i risentimenti collettivi incontrollati, a sommarsi con gli arresti, i processi sommari e le vendette personali dovute a screzi o conflitti d’interesse.

Queste inutili violenze, duramente biasimate dall’“alto”, e in particolare da uno sconsolato Tito, inevitabilmente indeboliranno la forza contrattuale dei liberatori/occupatori di Trieste al tavolo parigino in cui si decide il destino della Venezia Giulia e dell’Istria (e Tito ne è consapevole).

Parigi val bene una mossa

A Parigi l’Italia ne approfitterà per gettare altro fango sugli s’ciavi, accrescendo artatamente l’entità degli infoibati e inondando quel tavolo di foto raccapriccianti, per poi definire questi indubbi orrori «di gran lunga più atroci da qualunque cosa possa esser stata effettuata da chicchessia in territorio durante la guerra compresi, che è tutto dire, i tedeschi» (sono le parole del segretario generale del ministero degli Esteri Renato Prunas al consigliere d’Ambasciata francese in Italia, François de Panafieu).

Prunas mente sapendo di mentire, e ben lo sanno gli Alleati, più volte discretamente chiamati a smentire le cifre spacciate da Roma.

Ad esempio, delle persone incarcerate in provincia di Trieste nei quaranta giorni di occupazione jugoslava (per le autorità italiane sono 2.472; una coeva relazione Alleata conterrà questo numero in 1.492 effettivi) non torneranno in 498; per buona parte sono militari, poliziotti e burocrati del regime.

E come rileva un documento angloamericano dell’aprile 1947, «in certi casi sono stati notificati come deportati uomini che non avevano mai lasciato Trieste».

Dei detenuti italiani mandati a processo, qualcuno è condannato a morte e subito fucilato; altri sono rinchiusi nei campi di internamento o di lavoro jugoslavi a patire fame e malattie (e cioè gli stessi tormenti inflitti per anni dagli italiani a decine di migliaia di «allogeni») in Paesi – la Croazia e la Slovenia – piegati in due dall’occupazione nazifascista e con intere zone senza più rete idrica né fognaria.

Ad ogni buon conto, la maggioranza degli internati verrà rilasciata nel giro di pochi mesi; e dopo l’accordo del 1947 anche gli ultimi prigionieri potranno rincasare, beneficiando dell’amnistia concessa loro nell’estate 1948 dal governo jugoslavo.

E allora queste foibe?

Il numero delle persone spinte in quell’abisso non lo sapremo mai; ma al di là delle cifre, in un appunto del 20 giugno 1947 al ministro degli Esteri italiano Vittorio Zoppi traspare chiaro l’intento manipolatorio, là dove si legge «che il mettere in cattiva luce le atrocità degli jugoslavi nei confronti degli italiani è uno degli scopi cui tendiamo perché in questo modo possono crearsi le premesse necessarie per rifiutare la consegna di italiani alla Jugoslavia» (i criminali di guerra italiani rivendicati dagli jugoslavi sono 833 e tra loro i generali Gambara, Grazioli, Roatta, Robotti e Orlando).

Prendiamo ad ulteriore esempio la foiba-simbolo di Basovizza: un pozzo artificiale profondo 256 metri scavato ai primi del Novecento in cerca di carbone.

Basovizza viene ritenuta la tomba di tremila italiani e per questo motivo è stata dichiarata monumento nazionale. Ma a farne una fossa comune arrivano primi i nazifascisti, che vi gettano ostaggi e partigiani. E buona seconda arriva la famigerata banda del vicequestore Gaetano Collotti (articolazione dell’Ispettorato speciale di Pubblica sicurezza, retto dal doppiamente famigerato questore di Trieste Giuseppe Gueli): sono 35 fascistissimi torturatori che, pervasi da estrema crudeltà, erano soliti “infoibare” le vittime di queste loro criminali imprese.

Passato qualche anno, dopo la dura battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945, gli jugoslavi vittoriosi, temendo epidemie, lì dentro getteranno centinaia di militari tedeschi morti combattendo, assieme a carcasse di cavalli, abbondante materiale militare e – forse – qualche italiano: il 3 maggio diversi «questurini» della banda Collotti sono infatti portati a Basovizza.

Stando al ricordo di don Virgil Šček, «alla sera li fucilarono e li gettarono nelle cavità». Non è dato sapere in quale cavità.

Finita la guerra, nell’estate 1945, da quella fossa gli angloamericani esumeranno diversi resti umani (vengono estratte anche otto salme intere, appartenenti a sette soldati tedeschi e un civile). Insomma, dei millantati infoibamenti di massa a Basovizza non pare esserci traccia.

E non a Monrupino, altro “monumento d’interesse nazionale”, la tomba comune di 560 tedeschi caduti nella battaglia di Opicina dell’aprile-maggio 1945 (queste salme furono recuperate già nell’estate del 1945, inumate al cimitero di Sant’Anna e successivamente traslate al cimitero militare di Costermano presso Verona).

E nemmeno a Gropada (da quest’ultima foiba verranno esumati “solo” cinque cadaveri, quattro uomini e una donna uccisi nel maggio 1945 per vendetta personale).

In sintesi, se v’è chi accredita la morte di migliaia di persone a scopo di pulizia etnica nella sola fossa di Basovizza, molti studiosi, avvertitamente, la ritengono un clamoroso falso storico e, cifre alla mano, indicano in poco più di mille il numero complessivo degli scomparsi (in gran parte morti nei campi di prigionia jugoslavi) e degli infoibati nel maggio-giugno 1945.

A sommarsi con le circa 400 vittime in Istria nel settembre 1943 (204 gli infoibati, fra cui venti tedeschi).

Dunque, per quanto numerose e odiose siano state queste morti, non è stato “genocidio” (e avvicinare le foibe all’olocausto è pura follia).

Nel caos dopo l’armistizio, fra il 15 settembre e il 4 ottobre l’Istria interna è infatti percorsa da improvvisati plotoni di ribelli armati, fermati solo più tardi – non senza fatica – dal movimento partigiano: al più si tratta di bande di contadini s’ciavi furiosi per gli indubbi torti subiti e in cerca di malcapitati “nemici del popolo”.

«…il più vivo disprezzo»

Del ventennale clima di violenza fascista e della mano pesante di Mussolini con questi connazionali di etnia croata e slovena, poco prima dell’8 settembre (l’annuncio dell’armistizio) si era fatto testimone il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin.

Pur essendo notoriamente benevolo con il Fascismo, in una lettera del 12 marzo 1943 al sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi l’alto prelato denuncia violenze su «giovani donne e perfino minorenni che vengono denudate completamente e si abusa di loro in modo osceno e crudele. Pieni di lividure» scrive Santin «uomini e donne sentono il più vivo disprezzo per coloro che così li martoriano».

Segue la supplica: per l’onore dell’umanità e «per il buon nome dell’Italia, per il rispetto della legge e dell’autorità» tali violenze «devono cessare!» poiché, osserva profeticamente il vescovo, «quando la persona umana non ha più nessun diritto si rivolta violentemente, perché non ha più nulla da perdere».

Ma tra questi armati rancorosi e crudeli, va detto (ce lo ricorda Giacomo Scotti, uno dei più attenti studiosi di questa materia ardente), sono pochi, davvero pochi i partigiani. E ancor meno i comunisti italiani, lì per lì contrari ad una resistenza armata nell’Istria nonché alla sua unione con la Croazia (in linea con Togliatti, proponevano di rinviare a fine guerra ogni contenzioso territoriale). Per questo motivo i comunisti italiani sono marginalizzati, quando non avversati, dal Partito comunista croato.

Operazione Istrien

Dopo l’8 settembre 1943, da subito i tedeschi si riaffacciano aggressivi sul litorale istriano. L’11 settembre una colonna motorizzata viene affrontata dagli insorti e da soldati italiani in una sanguinosa battaglia al bivio di Trizzano a sud del fiume Quieto, e di nuovo al canale di Leme e presso la zona carbonifera dell’Arsia.

Il 2 ottobre, guidati da ascari fascisti del posto, colonne tedesche partite da Trieste, Fiume e Pola sciamano impietose nei villaggi dell’interno massacrando e bruciando (è la cosiddetta operazione “Istrien”, al superiore comando di Erwin Rommel).

Villanova del Quieto, Grisignana, Pisino, Salambatti, Carmedo, Albona, Grisilli, Gimino, Cressini… come scrive Scotti (si riprende un esempio fra i tanti), a Cressini questi criminali in divisa rinchiudono in una casa tre madri con cinque bambini, poi gettano una bomba dalla finestra e appiccano il fuoco. Davanti al villaggio, due sorelle sono uccise, i loro corpi sono gettati su una pila di paglia e bruciati (Scotti).

In un documento del 28 gennaio 1944, di penna Ustaša (i fascisti croati amici di Hitler e di Mussolini), la narrazione dell’orrore non è da meno: si legge infatti che a Gimino i tedeschi «hanno ucciso 15 bambini al di sotto dei sette anni, 197 adulti e 29 sono morti sotto i bombardamenti, in totale 241 persone. Nella vicina Coppellania di Cere, che conta 1.300 anime, hanno ucciso due donne e sessantadue maschi. Non si sono mai preoccupati di accertare se qualcuno fosse partigiano o no, ma hanno fucilato a casaccio come a loro piaceva. In molte case hanno mangiato e bevuto abbondantemente e poi, andandosene, hanno ammazzato uno o due castigliani».

Non mancano le cronache di violenze a donne e ragazze, e l’annotazione che nel villaggio di Parizi gli unici sopravvissuti sono «due maschi, ottantenni».

Insomma, la sola operazione “Istrien” costa la vita ad almeno tremila persone (e diversi partigiani fucilati dai tedeschi poi gettati in foiba passeranno per vittime della “violenza slava”). Anche i Četnici serbi e croati – filomonarchici e anticomunisti – uccisi dai partigiani il 22 settembre 1943 nella presa dell’isola di Lussino verranno conteggiati tra gli infoibati da sedicenti storici neofascisti.

Genocidio sì, ma culturale

Chi si ricorda di loro? Nessuno può vantare l’esclusiva del lutto, e le sofferenze e i diritti di sloveni e croati vilipesi e massacrati non sono da anteporre a quelle dei civili italiani ammazzati o indotti a partire.

Ma se tuttora è salda la memoria dei quattrocento istriani infoibati e dei quasi 300mila «naufraghi nella tempesta della pace» (è la poetica citazione ripresa dal cinegiornale “Settimana Incom” del 21 febbraio 1947 sui profughi giuliano-dalmati), pochi rammentano, rimanendo in Istria, il brutale eccidio nazifascista di più di 3mila italiani di lingua e cultura croata e slovena, uccisi per rappresaglia nell’operazione “Istrien” del settembre-ottobre 1943.

E nel Friuli non sono meno le vittime civili dei tremendi rastrellamenti compiuti dai nazifascisti nell’autunno 1944. Tutti “banditi”? Quasi tutti sono civili inermi.

E chi ricorda, altro esempio, il pianificato genocidio culturale delle minoranze slovene e croate della Venezia Giulia (allargato, dal 1941, alla Slovenia meridionale occupata): chiusura coatta delle scuole dove si insegna il croato e lo sloveno; vietato l’uso di queste lingue negli uffici pubblici e nei luoghi di lavoro; chiusura di 31 giornali; scioglimento di circa 400 circoli ricreativi, ecc. Sono anche vietate le scritte in lingua s’ciava sulle pietre tombali…

Insomma, il Fascismo vieta loro di comunicare e, fosse possibile, persino di pensare nella lingua materna. «È lecito invadere le case, i campi, le chiese di questi slavi e imporre loro con le rivoltelle in pugno di non amare, di non pensare e di non pregare in slavo?» si domanda allora, sin dal 1921, lo scrittore triestino Giani Stuparich, medaglia d’oro al valor militare.

Memoria condivisa? No, grazie

Nell’ottobre 1993 è stata istituita una Commissione bilaterale italo-slovena di 14 esperti, anche nel tentativo di arrivare a una interpretazione condivisa di questi fatti.

Nella Relazione finale fra l’altro leggiamo che il fascismo provò a realizzare «un vero e proprio programma di distruzione integrale dell’identità slovena e croata» e gli arresti e le uccisioni che seguirono «si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo».

Ma, come lamenta Jože Pirjevec, storico di orientamento liberale, se i «componenti della Commissione furono all’altezza di quest’arduo compito» non così è stato per i politici, «quelli di parte italiana, che non se la sentirono di avallare un testo troppo distante dalla vulgata da essi stessi costruita» evitando di pubblicarla in forma ufficiale, come invece è avvenuto in Slovenia.

Ma poiché ogni morte innocente è da considerare un crimine, cosa cambia?

Cambia che la strumentalizzazione politica di queste morti, l’esibizione di falsi numeri e di false circostanze, mira a porre sullo stesso piano il fascismo e l’antifascismo, dando così modo ai fascisti di ora di oscurare i crimini dei fascisti di allora, sovrapponendo e confondendo tragedie incomparabili come l’olocausto e le foibe.

In Italia più che altrove teatrino di opposte rappresentazioni, rimane elusa l’aspettativa di una memoria pubblica suffragata dai fatti e inclusiva «delle sofferenze e dei dolori di tutte le vittime: italiane, slovene, croate» (Guido Crainz) ovvero quel sereno confronto tra memorie, anche differenti, che s’imporrebbe nel comune orizzonte europeo.

* da Globalist – 10 febbrario 2020

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