L’inchiesta condotta dalla magistratura genovese mostra quali mutamenti siano intervenuti nella mappa della corruzione dopo Tangentopoli. Anche se è ovviamente difficile acquisire dati precisi sulle esatte dimensioni del fenomeno, per sua natura solo parzialmente visualizzabile in termini statistici, la percezione che si ricava dalla lettura degli estratti, forniti dalla stampa cartacea e digitale, della enorme documentazione su cui i giudici genovesi stanno lavorando, conferma non solo che la situazione è grave, ma che è in via di peggioramento.
La corruzione è peraltro solo un lato della questione concernente la diffusa illegalità dell’amministrazione pubblica in Italia. Basti pensare alla commistione tra amministrazioni locali e criminalità mafiosa, che investe non solo il Sud ma l’intero Paese e, segnatamente, quel Nord-Ovest in cui, come indicano la Liguria e la Lombardia, si trova oggi l’epicentro della corruzione.
Gli studiosi del fenomeno della corruzione parlano infatti di una metamorfosi della “razza ladrona”, che si è imposta dopo “Mani Pulite” e che ha visto tale “razza” radicarsi su un terreno differente da quello che alimentò il fenomeno di Tangentopoli. E invero, il territorio di caccia prediletto del politico disonesto non sono più i ministeri e il Parlamento, ma gli assessorati comunali e i consigli regionali. Parimenti, è cambiato l’obiettivo a cui si rivolge l’azione di tale politico, che non è più quello di finanziare le segreterie nazionali dei partiti, bensì quello di arricchire la sua camarilla personale. Dunque, una “razza ladrona” che, nei primi decenni di questo secolo, è tornata a proliferare nel Meridione e in parte nel Nord-Ovest, mentre sembra decrescere nelle “vecchie regioni rosse e bianche”, dove si è conservata, in qualche misura, una tradizione di efficienza e di correttezza nell’amministrazione della cosa pubblica.
Così, se è vero che i politici che delinquono per profitto personale costituiscono oggi la “maggioranza silenziosa” del ladrocinio e della malversazione, è altrettanto vero che la questione morale resta, comunque, un problema di tutti. Nella fase successiva a Tangentopoli giocano pertanto un ruolo significativo le figure di nuovi “notabili” provenienti dal mondo delle libere professioni, che si collocano in prevalenza nel centrodestra ma sono ben presenti anche nel centrosinistra.
Costoro si muovono per finalità di arricchimento privato piuttosto che di sostegno ai partiti, e non agiscono in modo isolato. Rappresentano piuttosto i punti nodali di reti ampie e strutturate, che a volte vedono coinvolta direttamente la criminalità organizzata. Non a caso, risulta dalle indagini sulla criminalità che i mafiosi implicati nelle collusioni politiche aumentano e compaiono, come accade nel “modello Liguria”, in un numero crescente di casi.
Sennonché tanti politici disonesti adesso si vendono non per denaro ma per favori d’altro genere: case, auto, assunzioni o promozioni di parenti, pacchetti di voti. Del resto, anche il mercato della corruzione si è sbriciolato. Ormai le prede più attraenti si trovano nei Comuni e nelle Regioni, che, a partire dalla sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, hanno ereditato quote di potere e di spesa pubblica sempre più ricche a danno del governo centrale, talché un assessore, un sindaco o un presidente di Regione ha più occasioni di appropriarsi delle risorse pubbliche rispetto ad un sottosegretario o a un ministro. In tal modo, si è venuto affermando nella Costituzione materiale del paese un federalismo (non democratico ma) cleptocratico fondato sulla depredazione, a fini personali e di gruppo, delle risorse fornite dai contribuenti.
I dati, sia pure interpretati con le dovute cautele, suggeriscono una certa continuità nella classe politica coinvolta in fatti di corruzione durante i decenni successivi a Tangentopoli. Tali dati suffragano una diagnosi chiara: le amputazioni operate dalla magistratura sono riuscite solo a rallentare il male, che in breve volgere di tempo ha ripreso a crescere, diffuso spesso dagli stessi untori. La metà di questi opera nel Sud, però a livello di regioni, dopo la Campania, ci sono la Liguria e la Lombardia.
D’altra parte, la corruzione è anch’essa lo specchio della società e ciò è dimostrato dalle differenze di stile dei mariuoli. Nella pianura padana prevale un’impronta imprenditoriale, nel Meridione avvocati e medici seguono invece la tradizione dei notabili e delle clientele. Ma il risultato è identico: la devastazione delle risorse pubbliche, l’azzeramento della produttività, la negazione del merito a vantaggio dei raccomandati. E il prezzo di questo sistema è pagato da tutti i cittadini.
Come è difficile misurare con precisione quanto sia estesa la corruzione nella pubblica amministrazione, così è ancora più complesso valutarne i costi. Questo soprattutto perché ai costi diretti devono aggiungersi enormi costi indiretti quando la corruzione si fa diffusa. In un appalto truccato il contribuente finisce col pagare beni e servizi ad un prezzo che comprende le tangenti agli amministratori e una rendita all’impresa (la quale, pagando, si garantisce il privilegio di non avere competizione). Questi sono i costi diretti.
Ma quando la corruzione diventa un “sistema”, è l’intero sistema economico che ne paga le conseguenze. Se gli appalti sono truccati, le imprese che li ottengono sono quelle che riescono a mantenere rapporti con la politica o con la criminalità organizzata. Accade allora che imprese più efficienti ma meno “connesse” siano scalzate dal mercato. Come indica il caso da manuale, posto in luce dall’inchiesta genovese, del rapporto tra Spinelli e Toti, gli imprenditori di successo sono quelli in grado di fornire vantaggi privati al politico di turno, non quelli in grado di produrre beni e servizi di qualità a basso prezzo per l’amministrazione pubblica.
I casi di imprenditori che guadagnano i favori del mondo politico organizzando feste, festini e incontri intimi rappresentano uno squallido esempio dei meccanismi corruttivi posti in essere dalla triangolazione eticamente perversa e giuridicamente illecita tra politici, imprenditori e funzionari, così come degli antieconomici “costi della corruzione” che ne discendono.
Ma anche il fatto che i giovani più brillanti si iscrivano soprattutto a legge e non a ingegneria, in controtendenza col resto del mondo sviluppato, segnala il grado di degenerazione parassitaria di un sistema economico e sociale in cui ha successo l’azzeccagarbugli, vale a dire chi si sa muovere con abilità e spregiudicatezza nella giungla di leggi, leggine, istituzioni, commissioni e stanze del potere.
Va poi annoverato tra i costi indiretti della corruzione anche il disincentivo agli investimenti diretti esteri. Una delle ragioni, infatti, per cui l’Italia ne riceve la metà della Francia è che le imprese straniere sanno che entrerebbero in un mercato distorto in cui faticherebbero a reggere una concorrenza disonesta, e quindi preferiscono starne fuori. Dopodiché, un’altra categoria di costi indiretti della corruzione va addebitata alla distorsione della competizione politica ed elettorale.
Tale distorsione consiste nel fatto che la classe politica, in un sistema di questo tipo, compete a livello locale attraverso il controllo economico del territorio. I politici locali sono di conseguenza selezionati non sulla base delle loro capacità o della loro onestà, ma al contrario sulla base della loro abilità a convogliare fondi dal sistema centrale verso la propria regione e a controllarne la distribuzione sul territorio. Ed è in questo controllo della distribuzione di fondi ed appalti sul territorio che spesso i rapporti con la criminalità organizzata assumono una notevole importanza.
Concludendo, a coloro che, come Salvini e Crosetto, temono la “destabilizzazione del sistema” ad opera dell’attività giudiziaria è doveroso rispondere sottolineando che è proprio questo “sistema” che condanna il Paese alla stagnazione e lo confina ai margini del mondo sviluppato. Ma non meno doveroso è evitare di illudersi che bastino le azioni giudiziarie a contrastare e ridurre un fenomeno che trae origine dai caratteri regressivi del blocco dominante nel nostro Paese, fondato, a livello economico, sulla ferrea alleanza tra il profitto e la rendita e, a livello politico, sul connubio trasformista fra il centrodestra e il centrosinistra.
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