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Perché parlare delle donne delle borgate?

È passato un anno dal femminicidio della diciassettenne Michelle Causo, una di noi, una ragazza di una di una delle tante borgate romane.

Una morte che, assieme alle centinaia di omicidi e violenze ai danni di donne e soggettività non conformi a cui assistiamo ogni anno, ha rappresentato per noi uno degli emblemi di una società basata sulla prevaricazione, sull’individualismo e sulla violenza e un simbolo dell’abbandono dei quartieri popolari da parte delle istituzioni.

Contemporaneamente abbiamo visto affiancare un assurdo innalzamento dell’IVA al 10% sui prodotti femminili e per l’infanzia a una narrazione estenuante sulla maternità come innata e dovuta.

Questa condizione, come prevedibile, dall’inizio del governo Meloni è solo peggiorata. Mentre, infatti, si moltiplicano i casi di stupri, molestie e femminicidi, chiudono e depotenziano consultori e Centri Anti Violenza.

Al contrario, aumentano fondi per i Centri di Aiuto alla Vita e per chi li gestisce: associazioni antiscelta e antiabortiste, ulteriormente sdoganate dal recente emendamento proposto da Fratelli d’Italia su un articolo di legge del PNRR.

Abbiamo visto poi l’accrescersi della violenza degli sfratti (spesso di donne con minori, anche vittime di violenza) andare di pari passo con la carenza di servizi, asili nido e di tutele nel mondo del lavoro e della formazione.

A tutto questo si aggiunge la continua criminalizzazione dei quartieri periferici e di chi li abita dal così detto “decreto Caivano” in poi.

Siamo consapevoli che tutto ciò si inserisce in un processo nel quale non si possono ignorare le responsabilità del centro sinistra e dei precedenti governi che con le loro politiche di taglio sul sociale e privatizzazione hanno spianato la strada all’attuale governo di destra.

Un governo con a capo la “prima donna premier”, che per di più si vanta di provenire da una borgata, ma che non ha nulla a che spartire con noi. Come del resto non ci rappresentano le nuove “signore della guerra” che, come “Giorgia”, sono spacciate quali portatrici di un modello di emancipazione femminile a cui aspirare, come Ursula Von Der Leyen, Marine Le Pen o Elly Schlein.

Di certo non potrebbero rappresentare le “nostre” donne: precarie, disoccupate, lavoratrici, migranti, soggettività non conformi, studentesse, madri, non madri per scelta o per forza, attiviste contro la guerra, solidali con la Palestina, alle quali sono state tolte ogni forma di tutela, servizi, diritti e garanzie e che soffrono più di altre questo arretramento sociale, economico e culturale e la perdita di tanto di quello che in passato era stato conquistato con le lotte.

In un contesto politico nazionale e occidentale che agevola le classi più abbienti e lascia indietro le soggettività subalterne e “poco compatibili”, le donne delle periferie vivono ogni giorno sulla loro pelle le contraddizioni dell’attuale sistema di sviluppo di questa società.

Un sistema che fa gli interessi di poche donne e uomini, grazie allo sfruttamento e l’oppressione di tante e tanti. Si portano avanti guerre per rispondere alle crisi e si aumentano disuguaglianze e discriminazioni per tornaconti economici e politici, per poi lavarsi la coscienza con un po’ di pink e rainbowashing.

Tutto ciò relega le periferie e chi le vive nell’isolamento sociale e culturale e nel non aver accesso ad alcun tipo di strumento materiale per avere una prospettiva di vita dignitosa.

Allo stesso tempo, viene portato avanti un ampio progetto che fa capo a uno specifico apparato ideologico e culturale. Se da una parte avanza un preoccupante ritorno della visione della donna come “angelo del focolare”, stile ventennio, allo stesso tempo il ruolo della donna si sta adeguando alle esigenze del sistema in cui viviamo, come è sempre successo: cambiando a seconda del contesto storico, produttivo e sociale.

Un chiaro esempio è la femminilizzazione del mondo del lavoro, utile per avere maggiore manodopera sfruttata e precarizzata, ma utilizzata invece per una narrazione strumentale di “empowerment”, dove l’emancipazione femminile diviene una mera questione di carrierismo e competizione. Donne che “ce la fanno” a discapito di altre. Non mettendo in alcun modo in discussione le logiche di potere e sfruttamento che ci sono dietro.

La necessità di parlare delle “donne de borgata” nasce quindi da qui. Siamo coscienti che le strutture patriarcali che questo sistema utilizza come strumento di dominio agiscono su tutte le donne, ma altrettanto coscienti che siamo noi, le “nostre” donne di cui sopra, ad essere le più sfruttate.

E che, in quanto tali, prima di tutte dobbiamo prenderci la responsabilità di ribaltare questo sistema e i ruoli in cui questo ci vuole costringere, assieme a tutti e tutte coloro che sono nella nostra stessa condizione. Il “vittime mai!” che abbiamo più volte gridato e scritto, per noi vuol dire questo.

 

In che modo abbiamo finora parlato delle (e con le) donne de borgata?

In quasi due anni dall’inizio del progetto di Donne de Borgata, abbiamo attraversato borgate e periferie, conosciuto centinaia di persone, attivato percorsi, realizzato iniziative e attività. Piccoli grandi passi lungo un percorso difficile ma necessario, di cui riportiamo qualche esempio e un primo bilancio.

Da marzo di quest’anno abbiamo costituito l’assemblea all’interno del consultorio di Pietralata insieme a singoli e realtà del territorio e non solo. Abbiamo organizzato iniziative nelle piazze, nelle strade, fuori e dentro i consultori dei nostri quartieri per opporci alle politiche di privatizzazione, di definanziamento e di sdoganamento crescente degli antiscelta, i cosiddetti “pro-vita” che minano la nostra libera scelta sulla maternità, sul diritto all’aborto e su quello alla contraccezione.

Stiamo quindi difendendo i consultori, nati grazie alle battaglie delle donne negli anni ‘70 come gratuiti, accessibili e liberi per chiunque, immaginando al contempo anche nuovi spazi per le donne e libere soggettività delle periferie e per i loro bisogni.

Contemporaneamente, per rispondere alla violenza sulle donne e di genere e alle assurde proposte del governo Meloni per contrastarla, in quest’anno scolastico abbiamo messo in campo iniziative durante autogestioni, assemblee d’istituto e occupazioni.

Grazie al supporto di psicosessuologhe, pedagogiste, educatrici e ginecologhe, abbiamo portato, in maniera pratica, attività riguardanti l’educazione alla sessualità all’interno delle scuole secondarie con l’idea di rifiutare l’approccio medicalizzante, giustizialista e reazionario della proposta di “educazione alle relazioni” del Ministro dell’Istruzione Valditara.

D’altro canto, ci siamo interrogate su come si possa parlare di liberazione sessuale in una società, la nostra, fondamentalmente diseguale, e su come si possano costruire strumenti di condivisione e confronto efficaci per le ragazze e i ragazzi di oggi.

Abbiamo organizzato, poi, con istruttori esperti decine di appuntamenti e corsi di autodifesa accessibili a chiunque, affinché chi voglia rispondere a violenze e discriminazioni possa farlo senza la paura che questo sistema vuole imporci.

Abbiamo imparato a difenderci con il supporto della collettività e dei legami di solidarietà e comunità che creiamo nei nostri quartieri e nelle scuole, rifiutando la logica della delega a istituzioni, forze dell’ordine, famiglia, amici e figure maschili, così come l’individualismo dilagante e la continua vittimizzazione che subiscono le donne.

Ci siamo domandate poi come la nostra azione, le nostre battaglie e vertenze possano opporsi a tutte le discriminazioni, anche quelle che vivono costantemente le soggettività non conformi e le donne migranti, soprattutto nei contesti periferici abbandonati dalle istituzioni.

Ed è per questo che ci siamo confrontate anche con altre realtà, coscienti della necessità di condividere il nostro percorso con chi ha, come noi, la prospettiva di un cambiamento materiale e culturale di questa società.

Consapevoli che dietro di noi c’è un passato di movimenti di liberazione e di donne che per noi rappresentano un esempio da seguire – e a cui dobbiamo tanto -, abbiamo condotto poi iniziative di formazione e di confronto sulle donne della resistenza partigiana, così come sull’organizzazione e l’autodifesa delle donne nelle Pantere Nere.

Quest’anno, infine, non potevamo non esprimerci nettamente sul genocidio del popolo palestinese in atto da parte dello stato coloniale di Israele, perché nessuna e nessuno potrà dirsi libero finché la Palestina non sarà libera.

Ed è per questo che abbiamo diffuso un appello che ha ricevuto centinaia di condivisioni e firme “Non in nostro nome: non userete le donne per giustificare il genocidio in Palestina”, in solidarietà con la resistenza palestinese e contro la strumentalizzazione delle lotte delle donne e il pink e rainbowashing operato da Israele e da tutto l’occidente per giustificare il genocidio in corso.

 

Donne de Borgata: verso il nostro programma in 10 punti!

Il nostro è un progetto in costruzione, che vogliamo condividere e rafforzare assieme a tutte le persone che abbiamo incontrato lungo il nostro breve percorso e con coloro che vorranno darci un contributo per costruirlo insieme.

Per questo, vogliamo invitare chiunque sia interessata e interessato a partecipare a questo ragionamento e progetto a un’assemblea pubblica il 28 giugno, alle ore 17:30 a via Silvano 15, presso il Circolo Arci di Pietralata.

Lo faremo, non a caso, a un anno esatto dalla morte di Michelle, perché crediamo che non ci sia modo migliore per ricordarla se non costruendo insieme qualcosa per tutte le ragazze, le donne e le persone come lei e come noi, per fare in modo che quello che è successo a lei non succeda mai più.

 

L’assemblea vuole essere punto di partenza per ragionare insieme su alcune questioni per noi fondamentali:

  1. Vogliamo lavoro dignitoso, salari adeguati e reddito per chi ne ha bisogno;
  2. Abbiamo diritto alla casa e a una vita dignitosa nei nostri quartieri popolari;
  3. Contro ogni forma di violenza sulle donne e di genere, pratichiamo l’autodifesa, rifiutiamo la vittimizzazione;
  4. Vogliamo consultori liberi, gratuiti e accessibili e difendere la sanità pubblica. Fuori i “ProVita” e il governo Meloni dai consultori;
  5. Per una visione internazionalista, contro ogni genere di oppressione e strumentalizzazione, per la Palestina libera;
  6. Per un ragionamento critico su scuola, università, “empowerment” e condizione giovanile;
  7. Costruiamo i nostri percorsi di educazione alla sessualità, parliamo della nostra liberazione sessuale.
  8. Per il riscatto delle condizioni di vita e di lavoro delle donne migranti, costruiamo reti, organizzazioni e solidarietà;
  9. Contro ogni tipo di discriminazione e violenza verso le soggettività LGBTQIA+, organizziamoci;
  10. Riprendiamoci la storia e la memoria delle donne in lotta;

 

Partendo da questi pochi punti, crediamo nella necessità di fare un passo in avanti nella strutturazione e nella costruzione di un progetto che vuole prendere forma e sostanza.

Pensiamo quindi che – parafrasando il Programma in dieci punti delle Black Panthers – questi possano essere la base per la definizione dei nostri “10 punti”: per un programma permanente che parli a tutte le donne e libere soggettività delle periferie, al quale invitiamo a contribuire partecipando all’assemblea e alle discussioni che ne seguiranno.

Al termine dell’assemblea, ci sarà poi un momento in ricordo per Michelle, un aperitivo di sostegno per le attività di Donne de Borgata e la possibilità di prendere il nostro merchandising… fermatevi con noi!

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1 Commento


  • claudia

    io vi adoro!!! e anche se non sono di Roma, vi sostengo!!!

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