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Un ricordo di Emilio Quadrelli

Sono stufo di scrivere quando muoiono amici e compagni di una vita stranamente lunga.

Con Emilio abbiamo condiviso vicinanze strettissime e lontananze filosofiche, parlando a bassa voce in ogni caso, come sa di dover fare chi ha imparato l’educazione stando a tavola con gente egualmente armata.

Abbiamo condiviso per esempio un tentativo di evasione da un camerone del carcere speciale di Cuneo, mesi di lavoro silenzioso in un piano in cui le spie del maresciallo Incandela erano quasi più numerose dei “bravi ragazzi”.

Mesi di messa alla prova della nostra pazienza, abilità, concentrazione, senso dell’equilibrio, condivisi con altri due fratelli di cui ho poi perso le tracce.

Anche con Emilio ci eravamo ad un certo punto persi di vista, per sua fortuna, visto il buco nero che stavano diventando gli “speciali” a metà degli anni ‘80, quando la lotta armata esterna era diventata ormai politicamente irrilevante o quasi.

Per sua fortuna” perché la sua condanna era molto meno grave, e le porte del carcere gli si aprirono pochi anni dopo.

Lo ritrovai quando, ormai semilibero anch’io, dalla scrivania de il manifesto lo scoprii assistente di Alessandro Dal Lago, all’università di Genova.

Era insomma diventato un sociologo, certo molto sui generis, appassionato frequentatore dell’”oggetto” di studio, così come aveva vissuto in gioventù a metà strada tra la compagneria e le “batterie” locali, bande giovanili nate nei quartieri operai che cercavano un riscatto tra rapine e sequestri di persona, senza mai lasciarsi anche nelle difficoltà più estreme.

Quasi leggendaria, ai tempi, quella della sua città – con Mario Rossi (l’”altro Mario”, non il compagno della XXII Ottobre) e Paolo Dongo – capace di arrivare ad assaltare un blindato dei carabinieri per liberare uno di loro.

Leggo che qualcuno lo ascrive, oggi, alla corrente “operaista”, facendogli probabilmente un torto che gli farebbe storcere la bocca. Era un appassionato lettore e analista delle rivolte sociali – questo sì – confidando sempre che dalle esplosioni spontanee potesse emergere l’occasione di una rottura radicale dell’esistente. Cosa per me piuttosto improbabile, come la Storia mi sembra dimostri.

Ma al di là di questa pervicace ricerca di un elemento primigenio e irriducibile della ribellione ben poco d’altro lo accomunava all’”operaismo” italiano.

Volendo spiegare la differenza, era un operaio in rivolta capace di rifletterci sopra, più che un “operaista” pronto a cantarla. Era sicuramente un “uomo del fare” (rivolta) anche quando cominciò a scrivere di banlieue, immigrati, seconde e terze generazioni, colonialismo e neocolonialismo, sfruttamento sulle “linee del colore”.

Ci siamo ritrovati a discuterne in occasioni sempre troppo rare, su traiettorie di vita che a volte ci mettevano insieme per qualche dibattito pubblico, in cui spiegavamo con pazienza e a bassa voce la nostra differenza di vedute teoriche per raggiungere l’identico obiettivo strategico, in qualche modo solidamente rappresentata dalle nostre vite politiche, vicine ma non eguali.

Anche fisicamente lo avevo ritrovato trasformato. Dal ragazzo longilineo e capellone di questa vecchia foto in carcere, a strutturato culturista quasi più largo che lungo. Prese le mie preoccupazioni di lottatore “al naturale” su questo fronte nel suo solito modo (“non un passo indietro, comunque vada”).

Il suo libro più sentito, e che meglio ne rappresenta il nesso inscindibile tra fare e pensare rivolta, è in ogni caso Andare ai resti. Espressione che può comprendere fino in fondo solo chi ha vissuto, scegliendola, una rivolta in carcere, dove ti giochi tutto – la vita o almeno l’integrità fisica – perché hai capito che non puoi accettare di arretrare ancora.

Perché quel che ti resta da difendere è così poco, e in via di eliminazione, che vale la pena di “giocarselo” puntando a rovesciare la condizione. Tanto, peggio di così, non potrà andare…

Un estraneo, da fuori, parla in casi come questi di “follia”, vista la sproporzione abissale di forza tra i rivoltosi e il nemico. Eppure la storia è ricca di manifestazioni del genere, come si è visto a Gaza o nel ghetto di Varsavia.

E se avessimo fatto in tempo a discuterne si sarebbe probabilmente appassionato a trovare le tante similitudini esistenti nelle rivolte di prigionieri di ieri e di oggi. In carceri occidentali come in quartieri mediorientali sotto assedio perenne, nel fondo di un tunnel scavato da militanti islamici o da ebrei comunisti che non hanno voluto attendere – e subire – il genocidio in silenzio.

Me ne diede una copia e tempo dopo mi chiese se mi ero riconosciuto in uno degli episodi lì narrati. In quel libro giustamente senza nomi, di tanti fatti che avevo vissuto direttamente o per vicinanza, m’era sfuggita una scena che mi vedeva protagonista. Ma erano gesti per me dovuti, e non me li segnavo come meriti. Se li ricordano certamente meglio gli altri…

E’ l’ultimo mio rammarico. Appena rientrato da un viaggio di quasi tre mesi, sfiorando guerre in atto o che stanno per esplodere, non ce l’ho fatta a prendere subito un treno per andarlo a trovare prima della fine.
E non c’è rimedio possibile.

Ciao Emilio, non un passo indietro, vada come vada.

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