Il 10 ottobre è comparso sul sito Scienzainrete un appello sottoscritto inizialmente da 39 presidenti di altrettante società scientifiche italiane, ora già diventati ben 58. Gli accademici pongono l’attenzione sul pericolo che affrontano la ricerca e l’istruzione universitaria con i programmi del governo.
La ministra Bernini continua a dire, in tutte le occasioni che le si presentano, che il governo non sta facendo tagli ai fondi dedicati all’università. La verità è un’altra, anche se stanno tentando di nasconderla, come se non si avessero i dati alla mano: i tagli ci sono eccome, e vanno oltre i 500 milioni.
Non solo viene diminuito il Fondo di Finanziamento Ordinario, l’entrata principale di tutti gli atenei, ma non verranon assegnate “le coperture aggiuntive per i 340 milioni previsti dal piano per gli associati, recuperando le risorse dalla riduzione di quota storica, costo standard e perequazione“.
Si tratta di uno dei colpi più duri ricevuti dall’ambito accademico sin dati tempi della Gelmini, anche se lo stillicidio continuo di tagli all’università e al diritto allo studio è continuato sotto tutti i governi. Soprattutto, è stato fatto con l’intenzione precisa di costruire poli di serie A e poli di serie B attraverso il finanziamento “premiale”.
Da mesi però il governo è riuscito nell’impresa di sobillare contro i suoi progetti persino molti rettori e molte associazioni scientifiche, appunto. Queste hanno sottolineato la negatività di diversi ultimi provvedimenti e il modo in cui impatteranno sugli atenei: un pesante “ridimensionamento dell’università e della ricerca pubblica“.
Negli ultimi anni, in alcuni ambiti, si era aperta qualche opportunità in più grazie al PNRR, dopo il processo decennale di tagli e riduzione di servizi e personale. Prima nota dolente: fondi non strutturali, pensati esclusivamente col fine di rilanciare la UE dentro una cornice di competizione globale.
Ma tant’è… Comunque ciò ha significato molto per persone impegnate nella ricerca, costrette a destreggiarsi in continuazione tra bandi e preghiere per procacciarsi qualche fondo. Oggi si torna indietro con forza e, come viene scritto dai presidenti delle associazioni scientifiche, ciò peggiorerà ulteriormente la posizione italiana in Europa.
“La distribuzione delle risorse che si prospetta – attraverso i criteri adottati e i meccanismi premiali – sta portando a maggiori disparità tra grandi atenei e università ‘periferiche’“, ribadiscono nell’appello. In esso viene dunque fatto presente come quasi la metà del personale docente e di ricerca è costituito, sostanzialmente, da precari.
Scrivono: “nei prossimi tre anni intorno al 10% dei professori ordinari e associati andrà in pensione. Anziché favorire nuovi concorsi, il governo ha rallentato il turnover e creato incertezza sul reclutamento“. Infine, ricordano la più grande tragedia dell’università italiana: “nel corso di un decennio, circa 15 mila ricercatori e ricercatrici italiane hanno trovato lavoro all’estero“.
Un vero e proprio ‘furto di cervelli‘, più che una ‘fuga’, perché anche questo fenomeno è il frutto fisiologico della riorganizzazione del mercato del lavoro che si è vista nella UE nell’ultimo trentennio. Il disegno di legge sul reclutamento apparso ad agosto non fa che frammentare il quadro delle posizioni accademiche e la loro precarietà, e dunque aggraverà questa dinamica.
Insomma, la lettera della associazioni scientifiche mette in luce un problema che è un problema dell’intero sistema-paese: che visione del paese ha la classe dirigente? Perché dall’istruzione, dallo sviluppo di nuove tecnologie, dal progresso scientifico in generale, passerà il futuro di intere generazioni.
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