Ogni tanto è indispensabile fermarsi e ragionare. Viviamo in tempi di guerra, non esiste più alcuna informazione “neutrale”, l’”obiettività” latita, la professionalità – tranne rare eccezioni cui proviamo a dar riconoscimento – è un lontano ricordo o un alibi.
La propaganda di guerra è una macchina potente, articolata, internazionale. Non è “geniale” – quelli che, “a sinistra”, piangono sulla presunta “scarsa capacità di comunicazione” dicono sciocchezze – ma è la potenza di fuoco a decidere, non la finezza dell’eloquio o dell’argomentazione. Se si controllano tutti i media principali (tv, quotidiani, ecc) il vantaggio strategico è evidente.
Consapevoli che anche queste nostre considerazioni saranno facilmente sommerse dal mare di merda che i media mainstream vomitano h24, proviamo comunque a fornire un piccolo contributo di chiarificazione che può essere utile a chi, nel discutere in mezzo alla classe, deve districarsi tra parole che sembrano aver un significato universale, ma in realtà sono sempre il contrassegno di un’ideologia posta a difesa di interessi e di un rapporto di forza che ha il terrore di esser rovesciato.
Non è la prima volta che lo facciamo, e i risultati in qualche misura ci confortano…
L’innovazione linguistica più usata in questi giorni è stata elaborata per minimizzare – se non rovesciare – l’impatto politico-mediatico dei mandati di cattura emessi calla Corte Penali Internazionale contro Netanyahu, Gallant e uno dei pochi capi militari di Hamas forse ancora in vita.
E’ fin troppo evidente che il dover considerare due “buoni” per definizione come “ricercati in tutto il mondo” costringe tutti i governanti e i gazzettieri occidentali a giri di parole molto simili alla lotta nel fango. anche perché viene a crollare tutto l’edificio narrativo eretto a garanzia della “superiorità morale” delle “democrazie occidentali”.
E quindi analizziamo la frase di moda, con le sue pochissime varianti.
Il componente fisso è “Non possiamo equiparare” o “mettere sullo stesso piano”.
Quello variabile è “Israele ed Hamas” oppure “un premier eletto e un capo terrorista”.
Chi pronuncia la prima variabile o è ignorante oppure ciurla intenzionalmente nel manico. La Corte Penale, infatti, giudica l’operato di singoli individui, non di Stati. Di conseguenza non incide minimamente la natura dell’organizzazione di cui fa parte o che presiede – Stato democratico, dittatura militare o fascista, esercito, gruppo terroristico e grado ricoperto (sorvolando sul fatto, notorio, che risulta ancora impossibile avere una definizione di “terrorismo” che sia accettabile per tutti).
O meglio: incide come conseguenze, perché la disponibilità di mezzi tra uno Stato moderno, tecnologicamente avanzato, dotato di armi nucleari, sostenuto da tutto l’Occidente, sono immensamente superiori a quelli di un’organizzazione che riassume in sé le caratteristiche del gruppo religioso, della charity che si occupa del “sociale”, del partito politico e della milizia combattente. Sostenuta da una parte del mondo musulmano, contrastata da altre, e che vive sostanzialmente da decenni in una prigione a cielo aperto.
Questa condizione di minorità strutturale non impedisce di portare colpi devastanti al nemico, ma con cadenza evidentemente episodica – il 7 ottobre è durato un giorno – e su scala quasi incommensurabile rispetto a quella di Israele (circa 1.200 morti e 200 ostaggi, a fronte di oltre 44.000 uccisi censiti dagli ospedali di Gaza, anche se la rivista inglese Lancet stima in 180.000 le vittime totali, comprese quelle scomparse sotto macerie che saranno rimosse solo alla fine del massacro).
Ma, ripetiamo, l’azione della Corte Penale Internazionale è costitutivamente diretta ad indagare sugli individui, non sugli Stati. E dunque deve mettere a confronto fatti accertati (massacri, crimini di guerra, affamamento, distruzione di ospedali, ecc) di cui si hanno prove concrete e responsabili di quei fatti.
Un crimine di guerra è un crimine di guerra. Ossia è una “fattispecie di reato” definita con caratteristiche oggettive, oggettive e universali. Non importa e non deve importare se l’”autore del crimine” sia bianco o nero, cristiano o ebreo o musulmano o buddista, eletto con procedure simili alle “nostre” (occidentali) o con infinite altre possibili (anche Hamas aveva vinto le elezioni a Gaza…).
Quanti fanno seguire al sintagma “non si può mettere sullo stesso piano” l’opposizione “un premier eletto a un capo terrorista” – per esempio Antonio Tajani, Crosetto, Meloni, Fassino, ecc – si muovono quindi consapevolmente entro i confini istituzionali della Corte Penale, ma ne distruggono le basi.
Tutta gente che, per salvare la faccia, riconosce a parole l’autorità della corte penale ma poi sminuisce l’importanza del mandato di cattura per Netanyahu e Gallant parlando di “sentenza politica”. Salvo, immediatamente dopo, dichiararla “d’ostacolo al raggiungimento di un cessate il fuoco” e quindi ammettere che sono proprio loro a pretendere che la legge obbedisca a considerazioni politiche del momento.
Ma lasciamo alle loro contorsioni i politici italiani e torniamo all’analisi del mantra ripetuto in coro…
Cos’è che potrebbe rendere meno criminale un massacro nel caso di una decisione presa da un “premier eletto” rispetto alla stessa decisione presa da un “capo terrorista”? Un po’ di schede nell’urna annullano e asciugano il sangue di migliaia e migliaia di persone? Di migliaia e migliaia di bambini?
La legge è uguale per tutti oppure non c’è né una legge né un tribunale, ci è già capitato di scrivere. E’ un principio giuridico della modernità, fatto proprio sia da liberali che da socialisti o comunisti.
Se si esce da questa universalità della legge – e quindi anche dei mandati d’arresto, quando si è verificato il “reato” – si precipita nel baratro del “doppio regime” giuridico: una codice penale che vale “per noi”, molto permissivo e pieno di attenuanti, e uno “per gli altri”, “per il nemico”, che non prevede l’avvocato difensore ma sempre e soltanto la pena di morte.
Si entra cioè nella guerra come unico modo di far valere i propri interessi, camuffati da “ragioni”.
La conseguenza logica, non per caso, è tracciata innanzitutto dai sionisti più aggressivi, che stanno giocando con cinismo – e un bel po’ di disperazione – una partita tipo “o la va lo spacca”. O riescono a completare – insieme agli Usa – il ridisegno dei rapporti di forza a livello mondiale, oppure per loro è l’inizio della fine.
Avanguardia militare del colonialismo occidentale in Medio Oriente, i sionisti non possono accettare una “comunità internazionale” che non coincida in senso stretto con la Nato e i suoi pochi partner sul pianeta (Giappone, Canada, Australia, ora di nuovo l’Argentina e poco altro). Ne va della sopravvivenza del loro progetto storico.
Per i sionisti, infatti, il “diritto internazionale” coincide con la propria supremazia (da condividere con il resto dell’Occidente, bontà loro, se accetta di tutto). E quindi le attuali istituzioni internazionali – Onu, Corte Penale Internazionale, Corte di Giustizia (che si sta occupando di valutare se quello commesso a Gaza è genocidio, considerato “plausibile” in prima battuta) – devono essere “ristrutturate” o distrutte.
Come l’antica Società delle Nazioni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
La sceneggiata di Netanyahu all’Onu – “siete solo una palude antisemita”, rivolto all’aula che si andava svuotando per protesta – ha anticipato molti altri atti concreti unilaterali: il segretario dell’Onu Guterres dichiarato “persona non grata” e a cui dunque è vietato l’ingresso in Israele, gli attacchi all’Unrwa, alla Croce Rossa, all’Unifil in Libano.
Non c’è più spazio per gli “arbitri” né per le istituzioni “neutrali”, tanto meno “imparziali”. A meno che non accettino di essere solo spettatori muti di quanto accade.
Lo ha detto chiaro e tondo Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche italiane – forse tra le più militarizzate d’Europa, al cui interno vivono gli aggressori di Chef Rubio, gli aspiranti mazzieri del 25 aprile e parecchi militari dell’Idf in azione tra Gaza e Libano – con un’intervista a Il Foglio (giornale così schierato da non ricordarsi neppure di quel che scriveva solo un anno fa).
“Ma come si fa a mettere assieme e a giudicare allo stesso modo Israele e Hamas? Questa una pietra tombale sulla credibilità di quest’organo. E fa ancora più male perché la Cpi é un tribunale nato sul modello di quello sorto all’indomani della Shoah”.
Un modo molto diretto di dire quello doveva essere un tribunale per giudicare “gli altri”, non “noi” che abbiamo determinato la sua creazione.
Peggio ancora. “L’appello all’Italia è quello di ripensare completamente tutto l’assetto politico a livello internazionale”. Ovviamente insieme alla “comunità occidentale”, a cominciare dagli Stati Uniti. Prendendo possesso delle istituzioni internazionali oppure cancellandole.
“Abbiamo visto tutti le prese di posizione contro Israele dell’Onu negli ultimi mesi. Sono Nazioni Unite, si, ma da cosa? Per questo il tema è non tanto arrivare a smantellare l’Onu quanto riconoscere che non può più essere il forum politico, culturale e diplomatico all’interno del quale vengono prese decisioni vincolanti a livello internazionale, perché cosi è una farsa”.
“Nessuno ci può giudicare”, insomma. Anzi, nessuno può discutere “con noi” su una base di parità, che è poi il punto di partenza di qualsiasi “forum politico, culturale e diplomatico”. Né ieri, né ora, né mai.
Per “noi”, in definitiva, non vale alcuna legge che non sia la “nostra”. E nessun tribunale che “ci” possa mettere sul banco degli imputati.
Ma, se non c’è una legge uguale per tutti, c’è solo la guerra contro tutti.
Ed anche al proprio interno, per forza di cose. Sono tanti gli ebrei nel mondo che non riconoscono affatto il sionismo come “l’intero popolo ebraico”, e quindi criticano quel che Israele fa così come criticano qualsiasi altro Stato.
Anche dentro Israele ce ne sono, e di molto autorevoli. Persino intorno alla Corte Penale. Persino nei media, come proviamo spesso a riportare.
Rifiutare ogni legge e ogni tribunale comporta ben presto il non ammettere differenza di opinioni al proprio interno. Implica il militarizzare la vita pubblica, l’informazione. Significa trasformare la dialettica politica in guerra civile, non solo potenziale.
Basta guardare uno delle migliaia di esempi che si possono produrre, anche qui in Italia. Uno dei siti più estremisti del sionismo italico si chiama – senza alcun senso dell’autoironia – “Informazione corretta”, e va da sé che qualsiasi informazione dissonante sia considerata “antisemita”.
Ospita quasi soltanto “articoli” come quello di Deborah Fait, che fa di tutto per far sembrare Ben-Gvir un “moderato disponibile al dialogo”…
Un delirio suprematista che imbarazzerebbe anche gli estensori del “manifesto della razza” (con i cui eredi, peraltro, i sionisti di oggi vanno d’amore e d’accordo), con perle che vale la pena evidenziare:
“È sbagliato pensare che un ebreo o un ebreo israeliano non possa essere antisemita. Vi sono purtroppo persone che, magari con la scusa di essere contro i governi in carica, odiano il proprio paese”, e via sciorinando addirittura le più fantastiche storielle fasciste sui “titini di Trieste” – in realtà sugli scontri tra studenti italiani, ex “repubblichini” e polizia inglese – e la responsabilità dei morti del 1953. Ma giurando di essere stata testimone (all’epoca aveva 12 anni…), dunque pretendendo di essere “la verità”.
Ma è contro i giornalisti progressisti israeliani come Gideon Levy o Amira Haas che la signora riserva le più aspre frecce del rancore. “Giornali come Haaretz sono pericolosi perché diffondono odio e menzogne cui si abbeverano, in Italia, personaggi indegni come Alessandro Di Battista, Chef Rubio, Francesca Albanese. Il peggio del peggio, e migliaia di lettori che non sanno niente di Israele e lo giudicano secondo il metro infimo e infido di un giornale che non dovrebbe esistere.”
Siamo a un passo dal maledire la libertà che è stata loro fin qui consentita e chiedere di chiuder loro la bocca per sempre.
Siamo alla fine del viaggio analitico su “non si può equiparare Israele con Hamas”. Una frase che voleva avere l’apparenza del “buon senso” e della mediazione rivela la brutale pretesa di supremazia di Israele (e, per estensione, dell’Occidente neoliberista) rispetto al mondo intero.
E il suprematismo – non importa se fondato su fantasie relative al colore della pelle, la fede religiosa, la cultura di appartenenza, ecc – è il fondamento di ogni differente versione del fascismo.
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Mauro
Ma la resa dei conti quando arriva?