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Il sistema sanitario italiano è frantumato

Se questo gennaio ad alcuni dei nostri lettori capirà di aprire The Lancet Regional Health – Europe (una delle tante riviste della grande famiglia di The Lancet), vi troverà una bandiera italiana sventolante. Ma non è purtroppo un buon segnale, perché all’origine non c’è alcuna intenzione di elogio, ma di dura critica.

Se il periodico dedicato all’Europa di una delle quattro o cinque riviste scientifiche mediche più importanti del mondo, con una storia bicentenaria alle spalle, dedica il primo editoriale del nuovo anno per dare l’allarme sullo stato della sanità del nostro paese, qualunque rappresentante politico dovrebbe per lo meno farsi un esame di coscienza.

Ma questo non avverrà, perché le condizioni descritte nell’articolo del mensile medico sono precisamente quelle che la classe dirigente ha perseguito coscientemente. E, difatti, il contributo apparso su The Lancet mette in guardia dagli effetti deleteri che produrrà l’Autonomia Differenziata, fortemente voluta in maniera bipartisan da centrodestra e centrosinistra.

Lasciamo subito alla lettura della traduzione da noi effettuata, ma alcune considerazioni sono necessarie. Partiamo dall’inizio: dal titolo.

Nell’originale il termine usato è broken, che può avere varie traduzioni: rotto, guasto, spezzato, fratturato, in frantumi. Abbiamo scelto “frantumato” perché tiene insieme sia il carattere frammentario della sanità nazionale, sia il fatto che ciò sia il risultato di un’azione che ha portato alla frammentazione di un modello unitario e centralizzato.

Al di là di questa nota diciamo linguistica – non di poco conto quando si traducono testi scientifici -, va sottolineato come lo studio discuta di un settore che viene sempre indicato come fondamentale per il futuro, ovvero quello della digitalizzazione e dell’elaborazione dati, qui osservato dal lato sanitario.

Appare immediatamente la contraddizione per cui la “strategicità” – nelle scelte dei vai governi italiani -viene subito dimenticata se essa comporta una spesa utile solo a migliorare la vita della maggioranza della popolazione e non ad aiutare il complesso militare-industriale, o la sorveglianza delle espressioni di conflittualità sociale, per fare alcuni esempi.

Raffinare la raccolta e l’accesso ai dati sanitari assicurerebbe maggiori garanzie nella tutela della salute (e meno sprechi, anche questi sempre citati dai fautori dell'”austerità” di bilancio), ma necessiterebbe al contempo di fare un passo indietro sull’Autonomia Differenziata. E dunque su una riforma iscritta nella riorganizzazione imperialistica delle filiere e dei centri decisionali continentali.

Diventa dunque ancora più interessante che l’articolo ricordi come decine di migliaia di persone si oppongono alla condivisione dei propri dati sanitari, ma che lo faccio iscrivendo il fenomeno in un contesto politico, sociale e anche culturale determinato dalla sfiducia nei confronti della classe politica.

Mentre la narrazione fatta propria dai media nostrani è semplicemente quella di uno scontro tra chi si “fida della scienza” e i “complottisti” – prima No Vax e ora No Fascicolo sanitario -, su The Lancet appare una sfumatura di complessità che rimanda alla politica il dovere di ricucire una distanza da cui origina un problema per l’intera collettività.

Bilanciare i diritti alla privacy con l’interesse pubblico” è il dovere affidato al governo, nazionale o locale che sia. Quello che viene invece fatto è creare un ‘nemico’ che, per quanto la sua opinione possa essere priva di fondamento, diventa il bersaglio contro cui convogliare le critiche che altrimenti potrebbero dirigersi sul governo o sul sistema.

Le mancanze strutturali, il pericolo e anche i costi che implicano determinati comportamenti vengono nascosti dietro un capro espiatorio accusato di non voler ascoltare ascoltare. E questo ‘nemico’, come potrebbe fidarsi della scienza di chi lo addita come tale?

Come se poi la scienza fosse qualcosa di cui “fidarsi“, quasi una fede indimostrabile razionalmente e non, invece, un processo di costruzione di un patrimonio collettivo fondato sulla ricerca e la verifica sperimentale.

Discorsi già fatti e sentiti, ma è bene ripeterli, in concomitanza con la condanna senza appello dell’Autonomia Differenziata, che – come ormai è difficile negare – non farà che peggiorare la nostra vita, e che va fermata in ogni sua forma.

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Si prevede che la popolazione italiana diminuirà di circa l’8% entro il 2050, passando da 59 milioni nel 2022 a 54,4 milioni, a causa dell’invecchiamento crescente e del calo del tasso di natalità. Entro il 2050, oltre il 35% degli italiani avrà più di 65 anni, mentre i bambini di età inferiore ai 14 anni rappresenteranno solo l’11,7% della popolazione. Senza riforme, questo cambiamento demografico metterà a dura prova i sistemi sanitari e sociali [oltre che l’intero sistema-paese, economia compresa, ndr].

Una delle principali debolezze del sistema sanitario italiano è la frammentazione dell’infrastruttura dei dati sanitari: non esiste un sistema unificato e centralizzato per la documentazione e la condivisione delle cartelle cliniche elettroniche (EHR), dei dati ospedalieri e delle cartelle dei medici di base.

La causa principale è l’ampia autonomia regionale, con 20 regioni che operano in modo indipendente e implementano politiche e tecnologie diverse, creando frammentazione normativa e inefficienze.

La scarsa interoperabilità tra regioni e ospedali, oltre alla mancanza di sistemi di caricamento automatico dei dati nelle cliniche private, mina l’efficacia del Fascicolo Sanitario Elettronico, il sistema EHR nazionale italiano progettato per tracciare le storie cliniche dei pazienti, rendendolo ampiamente inefficace a causa di questi difetti strutturali.

A complicare ulteriormente la situazione c’è l’assenza di una politica nazionale per allocare equamente le risorse a tutte le regioni o stabilire protocolli standardizzati per la raccolta e il trasferimento dei dati.

Molti ospedali e strutture continuano a fare affidamento su sistemi obsoleti e incompatibili, rendendo il trasferimento delle cartelle cliniche e delle immagini diagnostiche manuale e laborioso, anche all’interno della stessa regione o città. L’assenza di standardizzazione impedisce la creazione di registri nazionali, ostacolando l’assistenza efficace e la gestione delle crisi.

Le conseguenze di questo sistema frammentato sono profonde. Durante la pandemia di COVID-19, ha ritardato l’identificazione dei collegamenti tra comorbilità e gravità dell’infezione, esacerbando le disparità regionali nella capacità e nei risultati dell’assistenza sanitaria. Un sistema meglio integrato avrebbe potuto consentire analisi più ampie, approfondimenti generalizzabili e supportare una risposta nazionale più efficace e coordinata.

Un sistema così frammentato non solo delude la popolazione italiana, ma impone anche un notevole onere economico al Paese. I pazienti delle regioni meridionali, che in genere hanno risorse più limitate, si recano negli ospedali del nord, meglio attrezzati, per le cure.

Tuttavia, a causa della mancanza di sistemi interoperabili, gli ospedali del nord spesso non riescono ad accedere alle cartelle cliniche dei pazienti, con conseguenti test diagnostici ripetuti e ritardi nelle cure. Questa duplicazione aumenta i costi (la sola mobilità sanitaria interregionale ammonta a circa 3,3 miliardi di euro all’anno) e compromette i risultati per i pazienti.

Il sistema di dati sanitari frammentato in Italia presenta anche sfide considerevoli per la ricerca. Senza una piattaforma centrale, i ricercatori devono fare domanda ai comitati etici e per la privacy delle singole istituzioni, che possono respingere le richieste senza una giustificazione scientifica sostanziale.

Dal 2009, la percentuale di studi autorizzati sul totale è scesa al 15%, segnando un calo significativo. Inoltre, la raccolta dei dati è spesso manuale e di scarsa qualità, rendendo quasi impossibile condurre studi multicentrici di alta qualità, ostacolando gravemente la generazione di risultati di impatto e generalizzabili.

Nel 2022, l’Italia ha speso 1,8 miliardi di euro per l’assistenza sanitaria digitale, con un aumento del 7% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, non è ancora chiaro se questi fondi siano stati pienamente utilizzati e come siano stati spesi, in particolare in relazione alle cartelle cliniche elettroniche e all’integrazione dei sistemi sanitari regionali e nazionali, poiché solo il 42% delle cliniche ha dichiarato di avere un sistema di acquisizione dati elettronico attivo in tutti i reparti.

La sfiducia pubblica nel governo aggrava il problema, con oltre 90.000 italiani che si rifiutano di condividere i propri dati sanitari a causa di preoccupazioni sulla privacy, un sentimento amplificato durante la pandemia di COVID-19.

Mentre l’Europa ha abbracciato la cosiddetta base giuridica dell'”interesse legittimo”, consentendo l’uso dei dati sanitari per la ricerca e l’innovazione senza basarsi esclusivamente sul consenso individuale, la legislazione restrittiva e la frammentazione regionale dell’Italia ostacolano questi sforzi, non riuscendo a bilanciare i diritti alla privacy con l’interesse pubblico a migliorare l’assistenza sanitaria.

Una riforma appena proposta minaccia di peggiorare ulteriormente la situazione. La legge sull’autonomia differenziata, se approvata, decentralizzerà ulteriormente la governance sanitaria, approfondendo la frammentazione e le disparità tra regioni invece di promuovere una raccolta e una condivisione armonizzate dei dati.

L’armonizzazione legislativa a livello nazionale è essenziale per stabilire una rete di dati sanitari unificata in Italia. Questo approccio supporterà l’interoperabilità dei dati, la telemedicina e la digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, sfruttando al contempo iniziative europee come il Data Governance Act, che promuove la condivisione sicura ed etica dei dati, l’European Health Data Space, che mira a consentire l’assistenza sanitaria transfrontaliera e a promuovere la ricerca, e l’AI Act, che cerca di regolamentare l’intelligenza artificiale affidabile e trasparente nell’assistenza sanitaria.

La mancata adozione di misure aggraverà le disuguaglianze, ritarderà i trattamenti e ostacolerà i progressi, mentre dare priorità alla riforma sistemica offre all’Italia l’opportunità di soddisfare la domanda di assistenza sanitaria e di fornire un’assistenza equa ed efficiente.

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