Una manifestazione in solidarietà con la Palestina si è tenuta davanti e dentro al Salone del Libro di Torino.
Contestato il silenzio dell’evento sul genocidio a gaza e l’incontro con Nathan Greppi, autore del libro “La cultura dell’odio” che nega il genocidio a gaza.
“È inaccettabile – hanno gridato i manifestanti – che si permetta di portare avanti queste narrazioni in un posto che si definisce come la punta di diamante della cultura torinese”.
Alcuni attivisti hanno fatto pressione sulle cancellate arrivando a contatto con la polizia schierata davanti all’entrata. Altri sono riusciti ad entrare nell’edificio che ospita il Salone del Libro srotolando uno striscione sulla Palestina e sedendosi in terra.
Gli attivisti si sono schierati “a fianco delle case editrici solidali che dentro la Fiera stanno esponendo manifesti a favore della Palestina”.
Il noto autore Zerocalcare è uscito fuori dal Salone del Libro per incontrare i manifestanti ed esprimere la propria solidarietà.
“Non potevamo continuare facendo finta di niente” ha detto al microfono. “Io non ho visto, ma le telefonate che ci arrivavano dentro raccontavano quello che è successo tante volte in questi giorni, ovvero che chi cerca di portare l’attenzione su quello che accade in Palestina viene respinto con i manganelli. Uno spazio che parla di cultura non può lasciare fuori la Storia con la S maiuscola, perché questo è quello che sta succedendo: ci verrà chiesto conto a lungo del fatto che non riusciamo a fermare questo massacro”.
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Sul contesto del Salone del Libro di Torino e degli avvenimenti di oggi pubblichiamo questo commento apparso sulla pagina Kulturjam.it
Salone del Libro a Torino: la cultura che celebra il potere
di Alexandro Sabetti
Nonostante le pretese di indipendenza, il Salone del Libro è ormai una vetrina del conformismo culturale, sostenuta da fondazioni bancarie e brand controversi. Tra inaugurazioni imbarazzanti e ipocrisie, l’evento tradisce la sua stessa vocazione.
Salone del Libro a Torino, la parata dell’ipocrisia
Come ogni anno, inesorabili, arrivano le polemiche sul Salone Internazionale del Libro di Torino, evento culturale per eccellenza, ormai immancabile rituale di autocelebrazione e ipocrisia editoriale.
In parallelo, il Salone sembra fare il paio con l’Eurofestival della canzone: entrambi generatori di hype social, ma con nature profondamente diverse. Mentre il secondo è una baracconata trash utile per maratone social piene di commenti ironici e dileggio, il primo si ammanta di un’aura pretenziosa, in cui l’imperativo è apparire rilevanti. E proprio per questo, le critiche si fanno più corpose e strutturate: il Salone è la cartina di tornasole di un sistema culturale italiano malato di autoreferenzialità.
Una premessa: lavoriamo nell’editoria e dunque l’argomento ci sta a cuore, non è solo materia da conversazione in terrazza. Conosciamo piccoli editori e autori che lottano per un minimo di visibilità e che si aggirano per il Salone con l’aria di chi sa di essere lì non tanto per volontà, ma per necessità.
Sopravvivere in un “non-mercato” come quello editoriale italiano – e quando si parla di editoria indipendente, nemmeno a parlarne – è un esercizio quotidiano di resilienza, una sorta di crociata donchisciottesca contro un sistema che premia solo il mainstream e i grandi gruppi. Quindi sì, capiamo chi decide di esserci, di portare i propri libri anche a costo di finire in un angolo mal illuminato, con il rischio di essere fagocitato dal gigantismo dell’evento.
Lasciamo perdere, dunque, le polemiche abituali e “tecniche” – la gestione degli spazi, l’inclusione di soggetti non strettamente legati all’editoria, i costi elevati che schiacciano i piccoli editori – e concentriamoci su un punto cardine: “la cultura non è di destra né di sinistra”, ha affermato la direttrice Annalisa Benini. Una frase ovvia, soprattutto se pronunciata durante un’edizione inaugurata da Giuli e costellata da eventi come il duetto tra Mara Venier e Fabio Fazio.
La cultura indipendente, quella vera, dovrebbe essere altro rispetto al potere, al conformismo, alle piccole chiese. Ma può davvero esserlo quando è sostenuta, finanziata e sponsorizzata da fondazioni bancarie, marchi industriali che producono armi e persino soggetti che fanno culture-washing per ripulirsi l’immagine?
Il Salone si veste di indipendenza e libertà espressiva, ma finisce per essere la parata delle stesse istituzioni e aziende che soffocano la cultura giorno dopo giorno.
E poi c’è la questione politica. Non si tratta di censura, certo, ma com’è possibile nella prima giornata della fiera organizzare un panel affidato a un giornalista, considerato da diverse voci dell’attivismo italiano, negazionista del genocidio a Gaza, e poi presentare un dibattito sull’antisemitismo, nel bel mezzo di un momento storico così drammatico? Cos’altro è se non una provocazione studiata, un invito a prendere il tutto con il sorriso sulle labbra e la testa bassa?
E infatti è finita a manganellate e cariche della polizia contro gli attivisti che protestavano per la scellerata scelta degli organizzatori.
Il Salone del Libro di Torino è diventato l’emblema di una cultura che non osa più sfidare il potere, ma lo abbraccia teneramente, lo giustifica e lo celebra.
Nel trionfo dell’apparenza, della grandeur culturale a ogni costo, la sostanza evapora, lasciando spazio a una parata svuotata di significato, utile solo a rassicurare chi non ha mai dubitato di essere nel giusto.
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Anna
Condivido TOTALMENTE le parole del compagno Cremaschi. Sono profondamente vergognata e frustrata di appartenere a un mondo che permette il comportamento criminale dello stato sionista, condannato anche da molte persone di religione ebraica. Europa “civile e democratica” NOT IN MY NAME