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C’erano una volta i Draghi…

Un lettore spiritoso, ieri sera, dopo aver ascoltato l’intervento di Mario Draghi al Meeting di Rimini, ci ha scritto che “Draghi vi ruba gli articoli per preparare i suoi discorsi”. Merito, o colpa, del riconoscimento improvviso che l’Unione Europea “è evaporata”, ridotta al rango di comprimario o spettatore su tutti i dossier principali del momento (guerra in Ucraina, genocidio a Gaza, ecc).

Naturalmente sappiamo qual è il nostro peso politico-culturale e dubitiamo fortemente – eufemismo – che gente così sappia persino della nostra esistenza. La “indicibile convergenza” di giudizio è tutto merito della realtà empirica, che ha costretto persino uno degli architetti dell’attuale UE a riconoscere uno stato comatoso ormai innegabile. Come dire che “piove!” quando in effetti cade acqua dal cielo.

Ma su quale “ombrello” prendere, ovvero come affrontare la nuova situazione, siamo ovviamente su pianeti diversi e opposti.

Bisogna anche dire che fa un po’ pena vedere un personaggio considerato un “grande economista” (ex direttore al ministero del Tesoro che decise le “privatizzazioni” firmate da Bersani, ex Governatore della Banca d’Italia, ex vicepresidente di Goldman Sachs, ex presidente della Banca Centrale Europea e “salvatore dell’euro” dopo il crollo di Lehmann Brothers, ex presidente del Consiglio, ecc) arrampicarsi su specchi improbabili per argomentare la “necessità” della UE nonostante tutto.

Il problema è che Draghi deve affrontare, sul piano teorico, un’autentica mission impossible: identificare la nuova funzione di una sovrastruttura politico-istituzionale, stracciata dal venir meno delle ragioni (delle condizioni, degli interessi) che l’avevano fatta nascere e crescere, a dispetto delle azioni attuali dei suoi membri.

Non potendo usare argomenti economici o politici cogenti si dive rifugiare nella retorica dei “valori della democrazia, della libertà, indipendenza, sovranità, prosperità, equità”, proprio nel momento in cui la dinamica di guerra che alita sull’Europa spinge per la riduzione degli spazi democratici ben al di sotto dei minimi accettabili. Dell’equità e indipendenza meglio non parlare…

Vediamo in dettaglio, per non perderci anche noi in chiacchiere.

Draghi si concede un incipit fulminante per scuotere il torpore intellettuale di un’assemblea rituale come il Meeting di Comunione e Liberazione (cloroformio puro, per chi conosce l’ambiente): “Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno, in cui questa illusione è evaporata”.

Mai come oggi – tra esito tragicomico della “trattativa sui dazi”, bullizzazione dei leader ammessi a Washington per discutere di pace in Ucraina e trattati come scolaretti da un preside lunatico, balbettii infami per negare che a Gaza sia in corso un genocidio, ecc – in effetti “l’Europa” ha dimostrato di non contare nulla e di saperlo anche bene. Altro che “peso politico determinante”…

Detto questo, però, Draghi comincia a menare il can per l’aia.

Aumentare la spesa militare “era anche giusto”, ma Trump – come fosse un “Mule” imprevisto che ha sostituito “l’America” suo malgrado – ci ha costretto a farlo “in forme e modi che probabilmente non riflettono l’interesse dell’Europa”. Ammissione interessante, che toglie molta “necessità” al riarmo messo in cantiere e richiederebbe – se la classe dirigente europea fosse diversa – una discussione un po’ meno frettolosa. Ma quella è la classe dirigente che c’è, ergo non si cambierà granché.

Qui compie il primo salto mortale dalla realtà alla pura retorica. La constatazione universale che questa UE non conta un tubo ha incrementato – ohibò – “lo scetticismo nei confronti dell’Europa”. Ma non bisogna dar retta a questo dato perché “Anche coloro che sostengono che l’Ucraina dovrebbe arrendersi alle richieste della Russia non accetterebbero mai lo stesso destino per il loro paese; anche loro attribuiscono valore alla libertà, all’indipendenza e alla pace, sia pure solo per se stessi”.

Che un insieme di ventisette paesi diversi – abituati da sempre a farsi guerra reciproca – e 450 milioni di persone possa star insieme sulla base di “valori” anziché di interessi chiari è un’illusione oppure una mistificazione grossolana.

Certo, nel secondo dopoguerra lo shock per i massacri e “l’industria dello sterminio” messa in atto contro ebrei, zingari, omosessuali, slavi, ecc, era stato tale da consigliare di evitare il ripetersi dell’esperienza. Certo, il dominio degli Usa sul Vecchio Continente (e la divisione in due della Germania, oltre alla sfera di influenza sovietica sull’est europeo) aveva facilitato il “risparmio drastico” sulla spesa militare e il concentrarsi sulla ricostruzione di economia, case, infrastrutture, società civile, merci, ricchezza più o meno redistribuita.

Ma anche allora gli interessi erano stati prevalenti sui “valori”. Meglio evitare nuove guerre, finché le ferite non erano rimarginate; meglio far crescere le forze piuttosto che sacrificarle già nella culla; meglio non inquietare i nuovi padroni (gli Usa)e lasciare che se la sbrigassero loro con la strutturazione di un nuovo ordine mondiale. Il tutto sotto il mantello della “democrazia, libertà, ecc” (la “sovranità”, come sappiamo in Italia con la “strategia della tensione”, era molto fortemente “limitata”).

Per il povero Draghi, però, una volta imboccata l’autostrada della retorica sui “valori” è impossibile restare concreto. Così lo “scetticismo” anti-europeo viene interpretato come il sorgere di dubbi sulla “capacità dell’Unione Europea di difendere questi valori”. Un loop logico, “immateriale”, da cui non si può più uscire…

Così si ridipinge il “superamento degli Stati-nazione” – la subordinazione degli Stati ai “mercati” e la creazione di una sovrastruttura per coordinarne i passaggi fondamentali – come un momento di affermazione di quei “valori”. Compito tutto sommato “facile”, dice, perché in fondo si trattava solo di aderire a una spinta sovradeterminante irresistibile (“adattarsi all’ordine neoliberale”), che andava concretizzandosi in istituzioni sovranazionali dotate di poteri reali: oltre alla Ue il Wto, il Fondo Monetario Internazionale, ecc.

tutta questa architettura è stata però stravolta. Da Trump, dice ancora, senza mai prendere atto che quel bruto col ciuffo non viene da Marte, ma è solo l’altra risposta – diversa da quella dell’establishment neocon, di cui anche Draghi fa parte in pianta stabile da 40 anni – alla crisi di egemonia degli Stati Uniti.

Ora, dunque, bisognerebbe re-inventarsi una missione per una Unione Europea. L’ambiente è totalmente cambiato. Prima ci si doveva affidare ciecamente ai “mercati”, ora non si può fare nulla senza uno Stato. Anzi, uno Stato molto forte, capace di drenare risorse, decidere l’allocazione di investimenti giganteschi (per energia, armi, tecnologie, ecc). Un radicale “cambio di paradigma” che però viene semplicemente nominato, “come fosse antani” (cit.)…

Draghi – e qui diventa quasi patetico – sogna ancora che questa classe dirigente europea possa avere uno scatto di fantasia per fare della UE quello Stato che secondo lui servirerebbe.

Finge di non vedere lo sguaiato spettacolo che ha davanti. Merz spinge il riarmo per dare alla Germania “il più forte esercito europeo” (il contrario di “un esercito europeo forte”). Macron sventola le sue poche testate nucleari come fossero l’equivalente di Russia e Stati Uniti, mentre blatera di mandare truppe in Ucraina senza valutare le conseguenze di un’escalation. L’Italietta meloniana – o “democratica” – non fa quasi testo.

Per di più si è costretti ad ammettere – con l’arresto del dirigente dello Sbu – che l’unico paese che per ora ha attaccato “l’Europa” è stata quell’Ucraina che ha usato parte degli esplosivi che le abbiamo inviato per far saltare il gasdotto North Stream, quello che ci garantiva gas russo a prezzi stracciati, costringendoci tutti a pagare gnl statunitense che costa 4 volte di più (lo vediamo sulle bollette luce e gas).

E non parliamo neanche dei neonazisti baltici, che vorrebbero l’Europa pronta a fare la guerra alla Russia per loro conto, e magari anche gli Usa.

Un manicomio totale in cui, oltretutto, il Parlamento Europeo si è sentito costretto a ricorrere alla Corte di giustizia Europea contro… la presidente della Commissione (la sciagurata Ursula von der Leyen), rea di aver approvato il Safe (lo strumento per il rafforzamento dell’industria europea della difesa) utilizzando una “procedura d’urgenza” immotivata che però aveva reso inutile il Parlamento stesso. Alla faccia della “difesa della democrazia, ecc”…

Di fronte all’”evaporazione” reale dell’Unione Europea il resto delle considerazioni e delle ricette draghiane sono poco più che wishful thinking. La sua “agenda”, sventolata dalla stessa von der Leyen pochi mesi fa come le “tavole della legge”, è finita in qualche scantinato di Bruxelles.

Difficile, se non impossibile, che qualcuno la ritiri fuori per farne un programma di ricostruzione della UE. In fondo anche quell’agenda era pensata per un mondo che non c’è più: l’ordine neoliberale.

Ciao, Draghi, non sentiremo nostalgia…

*****

Il discorso integrale di Mario Draghi al Meeting di Rimini 2025

Per anni l’Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno, in cui questa illusione è evaporata.

Abbiamo dovuto rassegnarci ai dazi imposti dal nostro più grande partner commerciale e alleato di antica data, gli Stati Uniti. Siamo stati spinti dallo stesso alleato ad aumentare la spesa militare, una decisione che forse avremmo comunque dovuto prendere -ma in forme e modi che probabilmente non riflettono l’interesse dell’Europa. L’Unione Europea, nonostante abbia dato il maggior contributo finanziario alla guerra in Ucraina, e abbia il maggiore interesse in una pace giusta, ha avuto finora un ruolo abbastanza marginale nei negoziati per la pace.

Nel frattempo la Cina ha apertamente sostenuto lo sforzo bellico della Russia mentre espandeva la propria capacità industriale per riversare l’eccesso di produzione in Europa, ora che l’accesso al mercato americano è limitato dalle nuove barriere imposte dal governo negli Stati Uniti.

Le proteste europee hanno avuto poco effetto: la Cina ha chiarito che non considera l’Europa come un partner alla pari e usa il suo controllo nel campo delle terre rare per rendere la nostra dipendenza sempre più vincolante.

L’Europa è stata spettatrice anche quando i siti nucleari iraniani venivano bombardati e il massacro di Gaza si intensificava. Questi eventi hanno fatto giustizia di qualunque illusione che la dimensione economica da sola assicurasse una qualche forma di potere geopolitico. Non è quindi sorprendente che lo scetticismo nei confronti dell’Europa abbia raggiunto nuovi picchi. Ma è importante chiedersi quale sia veramente l’oggetto di questo scetticismo.

Non è a mio avviso uno scetticismo nei confronti dei valori su cui l’Unione Europea era stata fondata: democrazia, pace, libertà, indipendenza, sovranità, prosperità, equità. Anche coloro che sostengono che l’Ucraina dovrebbe arrendersi alle richieste della Russia non accetterebbero mai lo stesso destino per il loro paese; anche loro attribuiscono valore alla libertà, all’indipendenza e alla pace, sia pure solo per se stessi.

Credo piuttosto che lo scetticismo riguardi la capacità dell’Unione Europea di difendere questi valori. Ciò è in parte comprensibile. I modelli di organizzazione politica, specialmente quelli sopra-statuali, emergono in parte anche per risolvere i problemi del loro tempo. Quando questi cambiano tanto da rendere fragile e vulnerabile l’organizzazione preesistente,questa deve cambiare.

L’ Ue fu creata perché nella prima metà del ventesimo secolo i precedenti modelli di organizzazione politica, gli Stati nazione, avevano in molti paesi avevano completamente fallito nel compito di difendere questi valori. Molte democrazie avevano rifiutato ogni regola in favore della forza bruta con il risultato che l’Europa è precipitata nella seconda guerra mondiale.

Fu perciò quasi naturale per gli europei sviluppare una forma di difesa collettiva per la democrazia e la pace. L’Unione Europea rappresentò un’evoluzione che rispondeva a quello che era il più urgente problema del tempo: la tendenza dell’Europa scivolare nel conflitto. Ed è insostenibile argomentare che staremmo meglio senza di essa.

L’Unione si è poi evoluta di nuovo negli anni dopo la guerra adattandosi gradualmente alla fase neoliberale tra il 1980 e i primi anni del 2000. Questo periodo fu caratterizzato dalla fede nel libero scambio e nell’apertura dei mercati, da una condivisione del rispetto delle regole multilaterali e da una consapevole riduzione del potere degli Stati che attribuivano compiti e autonomia ad agenzie indipendenti.

L’Europa ha prosperato in quel mondo: ha trasformato il proprio mercato comune nel mercato unico, è diventata attore fondamentale nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e ha creato autorità indipendenti per la concorrenza e la politica monetaria. Ma quel mondo è finito e molte delle sue caratteristiche sono state cancellate.

Mentre prima ci si affidava ai mercati per la direzione dell’economia oggi ci sono politiche industriali di grande respiro. Mentre prima c’era il rispetto delle regole oggi c’è l’uso della forza militare e della potenza economica per proteggere gli interessi nazionali. Mentre prima lo Stato vedeva ridursi suoi poteri, tutti gli strumenti sono oggi impiegati in nome del governo dello Stato.

L’Europa è poco attrezzata in un mondo dove geo-economia, sicurezza e stabilità delle fonti di approvvigionamento più che non l’efficienza ispirano le relazioni commerciali internazionali. La nostra organizzazione politica deve adattarsi alle esigenze del suo tempo quando esse sono esistenziali: noi europei dobbiamo arrivare a un consenso su ciò che questo comporta.

È chiaro che distruggere l’integrazione europea per tornare alla sovranità nazionale non farebbe altro che esporci ancor di più al volere delle grandi potenze.

Ma è anche vero che per difendere l’Europa dal crescente scetticismo non dobbiamo cercare di estrapolare le conquiste del passato nel futuro che ci accingiamo a vivere: i successi che abbiamo raggiunto nei decenni precedenti erano in realtà risposte alle specifiche sfide di quel tempo e ci dicono poco circa la capacità di affrontare quelle che ci si pongono oggi. Il prendere atto che la forza economica è condizione necessaria ma non sufficiente per avere forza geopolitica , potrà finalmente avviare una riflessione politica sul futuro dell’Unione.

Possiamo trarre qualche conforto dal fatto che l’Unione Europea è stata capace di cambiare nel passato. Ma adattarsi all’ordine neoliberale era in confronto un compito relativamente facile. L’obiettivo principale allora era quello di aprire mercati e di limitare l’intervento dello Stato. L’Unione Europea poteva allora agire principalmente come un regolatore e un arbitro evitando di affrontare la questione più difficile dell’integrazione politica.

Per affrontare le sfide di oggi l’Unione Europea deve trasformarsi da spettatore o al più comprimario in attore protagonista. Deve mutare anche la sua organizzazione politica che è inseparabile dalla sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi economici e strategici. E le riforme in campo economico restano condizione necessaria in questo percorso di consapevolezza. Dopo quasi ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la difesa collettiva della democrazia è data per scontata da generazioni che non hanno il ricordo di quel tempo. La loro convinta adesione alla costruzione politica europea dipende anche, in misura importante, dalla sua capacità di offrire ai cittadini prospettive per il futuro quindi anche dalla crescita economica che in Europa è stata negli ultimi trent’anni ben più bassa che nel resto del mondo .

Il Rapporto sulla Competitività europea ha indicato le molte aree in cui l’Europa sta perdendo terreno e dove più urgenti sono le riforme. Ma un tema ricorre attraverso tutte le indicazioni del rapporto: la necessità di utilizzare appieno la dimensione europea lungo due direzioni.

La prima è quella del mercato interno. L’Atto del Mercato Unico fu approvato quasi quarant’anni fa eppure permangono ostacoli significativi agli scambi interni all’Europa. La loro rimozione avrebbe un impatto sostanziale sulla crescita dell’Europa. Il Fondo Monetario Internazionale calcola che, se le nostre barriere interne fossero ridotte a livello di quelle prevalenti negli Stati Uniti, la produttività del lavoro nell’Unione Europea potrebbe essere di circa 7% più alta dopo sette anni. Si pensi che negli ultimi sette anni il totale della crescita della produttività è stato da noi appena il 2%.

Il costo di queste barriere è già visibile. Gli Stati europei si accingono a una gigantesca impresa militare con 2 trilioni di euro -di cui un quarto in Germania – di spese addizionali nella difesa pianificate tra oggi e il 2031. Eppure abbiamo delle barriere interne che sono equivalenti a una tariffa del 64% su macchinari e del 95% sui metalli.

Il risultato sono gare d’appalto più lente, maggiori costi, e maggiori acquisti da fornitori al di fuori dell’Unione Europea, senza quindi neanche una funzione di stimolo alle nostre economia: tutto a causa degli ostacoli che imponiamo a noi stessi.

La seconda dimensione quella tecnologica. Un punto è ormai chiaro dal modo in cui si sta evolvendo l’economia globale: nessun Paese che voglia prosperità e sovranità può permettersi di essere escluso dalle tecnologie critiche. Gli Stati Uniti e la Cina usano apertamente il loro controllo sulle risorse strategiche sulle tecnologie per ottenere concessioni in altre aree: ogni dipendenza eccessiva è così divenuta incompatibile con la sovranità sul nostro futuro.

Nessun paese europeo può da solo avere le risorse necessarie per costruire la capacità industriale richiesta per sviluppare queste tecnologie. L’industria dei semiconduttori ben illustra questa sfida. Questi chips sono essenziali per la trasformazione digitale che sta avvenendo oggi, ma gli impianti per produrli richiedono grandi investimenti .

Negli Stati Uniti l’investimento pubblico e privato è concentrato in un piccolo numero di grandi fabbriche con progetti che vanno da 30 a 65 miliardi di dollari. Invece in Europa la maggior parte della spesa ha luogo a livello nazionale essenzialmente attraverso gli aiuti di Stato. I progetti sono molto più piccoli tipicamente tra 2 e 3 miliardi di euro e dispersi tra i nostri paesi con priorità divergenti.

La Corte dei Conti Europea ha già avvertito che ci sono poche probabilità che l’Unione Europea raggiunga il suo obiettivo di aumentare per il 2030 la quota di mercato globale in questo settore al 20% da meno del 10% oggi.

Quindi, sia per quanto riguarda la dimensione del mercato interno, sia per quella delle tecnologie torniamo al punto fondamentale: l’Unione Europea per raggiungere questi obiettivi dovrà muoversi verso nuove forme di integrazione.

Abbiamo la possibilità di farlo: per esempio con il ventottesimo regime che opera al di sopra della dimensione nazionale, per esempio con un accordo su progetti di comune interesse europeo e con il loro finanziamento comune, condizione essenziale perché raggiungano la dimensione tecnologicamente necessaria ed economicamente autosufficiente .

Anni fa proprio qui al vostro meeting ricordai come c’è debito buono e debito cattivo. Il debito cattivo finanzia il consumo corrente lasciandone il peso alle future generazioni. Il debito buono serve a finanziare investimenti nelle priorità strategiche e nell’aumento della produttività .Esso genera la crescita che servirà a ripagarlo. Oggi in alcuni settori il debito buono non è più possibile a livello nazionale poiché gli investimenti fatti in isolamento non possono raggiungere la dimensione necessaria per aumentare la produttività e giustificare il debito.

Soltanto forme di debito comune possono sostenere progetti europei di grande ampiezza che sforzi nazionali frammentati insufficienti non riuscirebbero mai ad attuare.

Questo vale :per la difesa, soprattutto per ciò che riguarda la ricerca e lo sviluppo; per l’energia ,per gli investimenti necessari nelle reti e nell’infrastruttura europea ; per le tecnologie dirompenti , un’area in cui i rischi sono molto alti ma i potenziali successi sono fondamentali nel trasformare le nostre economie.

Lo scetticismo aiuta a vedere attraverso la nebbia della retorica ma occorre anche la speranza nel cambiamento e la fiducia nelle proprie capacità di attuarlo.

Tutti voi siete cresciuti in un’Europa in cui gli Stati nazione hanno perso importanza relativa: siete cresciuti come europei in un mondo dove è naturale viaggiare, lavorare,e studiare in altri paesi. Molti di voi accettano di essere sia italiani che europei; molti di voi riconoscono come l’Europa aiuti i piccoli Paesi a raggiungere insieme obiettivi che non riuscirebbero a conseguire da soli ,specialmente in un mondo dominato da superpotenze come gli Stati Uniti e la Cina. È quindi naturale che speriate nel cambiamento dell’Europa.

Abbiamo poi visto che negli anni l’Unione Europea è stata capace di adattarsi nell’emergenza, talvolta andando anche al di là di ogni aspettativa.

Siamo stati capaci di infrangere tabù storici quali il debito comune all’interno del programma Next Generation EU e di aiutarci l’un l’altro durante la pandemia. Abbiamo portato a termine in tempi rapidissimi una vastissima campagna di vaccinazione. Abbiamo dimostrato una unità e una partecipazione senza precedenti nella risposta all’invasione russa dell’Ucraina.

Ma queste sono state risposte a emergenze. La sfida è ora essere capaci di agire con la stessa decisione in tempi ordinari per confrontarci con i nuovi contorni nel mondo in cui stiamo entrando. E’un mondo che non ci guarda con simpatia, che non aspetta la lunghezza dei nostri riti comunitari per imporci la sua forza. E’ un mondo che pretende da parte nostra un discontinuità negli obbiettivi, nei tempi e nei modi di lavoro. La presenza dei cinque leader di Stati europei e dei Presidenti della Commissione e del Consiglio Europei nell’ultimo incontro alla Casa Bianca è stata una manifestazione di unità che vale agli occhi dei cittadini più di tante riunioni a Bruxelles.

Finora molto dello sforzo di adattamento è venuto dal settore privato che ha finora mostrato solidità, nonostante la grande instabilità delle nuove relazioni commerciali. Le imprese europee stanno adottando tecnologie digitali di ultima generazione, inclusa l’intelligenza artificiale, a ritmo paragonabile a quello degli Stati Uniti. E la forte base manifatturiera europea potrà far fronte ad un aumento di domanda per una maggiore produzione interna.

Ciò che è rimasto indietro è il settore pubblico dove sono più necessari i cambiamenti decisivi.

I governi devono definire su quali settori impostare la politica industriale. Devono rimuovere le barriere non necessarie e rivedere la struttura dei permessi nel campo dell’energia. Devono mettersi d’accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari in futuro, stimati in circa 1. 2 trilioni di euro all’anno. E devono disegnare una politica commerciale adatta a un mondo che sta abbandonando le regole multilaterali.

In breve, devono ritrovare unità di azione,e non dovranno farlo quando le circostanze saranno divenute insostenibili, ma ora quando abbiamo ancora il potere di disegnare il nostro futuro.

Possiamo cambiare la traiettoria del nostro continente. Trasformate il vostro scetticismo in azione , fate sentire la vostra voce. L’Unione Europea è soprattutto un meccanismo per raggiungere gli obiettivi condivisi dai suoi cittadini. È la nostra migliore opportunità per un futuro di pace, sicurezza, indipendenza: è una democrazia e siamo noi, voi, i suoi cittadini, gli europei che decidono le sue priorità.

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5 Commenti


  • Manlio Padovan

    Non sarà che Mario Draghi ha fatto il discorso che ha fatto al congresso di Comunione e Fatturazione perché vuole la poltrona di capo della Commissione europea?


  • Manlio Padovan

    Anche perché lo sapevamo già noi che la UE è nulla sul piano geopolitico e non solo.


  • ugo

    Draghi cerca una soluzione economica (debito comune, investimenti) a un problema politico: l’Europa non conta nulla. Lo fa perché non può menzionare l’elefante nella stanza, cioè che la politica estera non si fa in 27. Gli stati del Deutsches Bund erano tanti, e il Bismark, che decideva (quasi) da solo, se li è mangiati tutti. L’Europa avrà anche un senso economico ma se dovesse dire il nome del suo demone, risponderebbe come nel Vangelo: il mio nome è legione. Come potenza l’Europa è un pericolo, per lo stesso motivo per cui il cammello è un cavallo disegnato da un comitato.



  • Matteo

    Della serie; chiudere il recinto quando i buoi sono già… morti.

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