L’attacco che La Nazione ha rivolto al CPA Firenze Sud: è un atto politico. Non a caso la penna del giornale borghese sceglie di parlare non di quarant’anni di autorganizzazione, ma di conti non pagati, di morosità, di bollette sospese.
È la traduzione consueta che il potere utilizza quando vuole annullare la dimensione politica di un’esperienza antagonista: ridurla a irregolarità amministrativa, privarla del suo senso collettivo, isolarla nello stigma del “non rispettare le regole”.
In questo meccanismo c’è tutto il dispositivo della legalità borghese che il capitalismo riproduce quotidianamente. La legalità non è mai neutra, e non coincide con la giustizia. È la forma che i rapporti di forza borghesi assumono per autoriprodursi. È “legale” privatizzare i beni comuni, svendere interi quartieri al turismo, aumentare il costo della vita scaricandolo sulle spalle del proletariato metropolitano.
Ma nulla di ciò ha a che vedere con la giustizia. La giustizia, in termini materiali, è l’uso sociale delle risorse, è il diritto a vivere, studiare, abitare, organizzarsi. Così ciò che viene bollato come “illegale” – l’apertura di spazi chiusi, l’autorganizzazione di attività popolari, la redistribuzione dal basso – diventa in realtà l’unica forma di giustizia concreta.
La riduzione del CPA a “inquilino moroso” serve proprio a questo: a tradurre un conflitto sociale in vertenza immobiliare. Ma parlare di contratti e affitti significa assumere la grammatica del nemico. Significa interiorizzare la logica della proprietà privata, trasformando la città da terreno di scontro a somma di rapporti contrattuali. È così che la lotta di classe diventa un problema amministrativo: non più questione politica, ma pratica da ufficio legale.
Il CPA, nella sua risposta, ha smascherato questa operazione, rifiutando il terreno della depoliticizzazione. Ed è che qui si evidenzia un punto cruciale: il CPA non è stato inglobato nei processi di normalizzazione. Non ha scelto la via della sopravvivenza subordinata ai protocolli e alle convenzioni che sterilizzano il conflitto. Ha continuato a collocarsi come esperienza antagonista, radicata nei quartieri e capace di restare fuori dalle logiche di addomesticamento.
È precisamente questa scelta di campo, non piegata né alla compatibilità né all’integrazione, a renderlo oggi un bersaglio. Perché il comando neoliberale non accetta ciò che non riesce a disciplinare.
Il contesto fiorentino rende tutto ancora più chiaro. Firenze è oggi una delle città più devastate dalla rendita immobiliare. Interi quartieri popolari sono stati svuotati per trasformarli in B&B e appartamenti turistici.
I residenti storici vengono espulsi perché i prezzi degli affitti diventano insostenibili. La città si trasforma in vetrina globale, dove tutto è mercificato: le piazze, le strade, i monumenti, perfino l’aria che si respira. E in questo processo il “decoro” diventa il dispositivo chiave.
Ed il decoro urbano ovviamente non è un principio estetico ma un’arma di classe. Serve a decidere chi può restare e chi deve essere espulso. Serve a cacciare i poveri dalle piazze, a reprimere gli studenti che occupano, a criminalizzare chi si organizza. È lo strumento con cui la borghesia nasconde la verità materiale della città: che tutto viene piegato all’imperativo della valorizzazione, e che chi non produce profitto deve essere escluso.
In questa cornice si comprende la funzione reale del CPA e di spazi simili. Le pratiche di autorganizzazione sociale che vi si producono – attività popolari, prezzi calmierati, redistribuzione dal basso – non sono marginali né assistenziali: sono riappropriazione collettiva. Sono salario sociale sottratto alla rendita e restituito in forme di uso comune.
È chiaro che anche questo terreno non è privo di contraddizioni: può degenerare in gestione compatibile della marginalità, oppure può diventare leva antagonista se legato a un progetto politico. La differenza non è morale ma materiale: vive ciò che costruisce forza collettiva contro la rendita, muore ciò che diventa funzione integrata.
E non è un caso che la repressione colpisca con sistematicità. L’inclusione non protegge: lo Stato integra per disciplinare, normalizza per neutralizzare, e quando serve colpisce. È accaduto a Bologna con XM24, a Napoli con Insurgencia, a Torino con Askatasuna.
In tutte queste esperienze il potere ha utilizzato lo stesso schema: prima la criminalizzazione, poi i sigilli. Non importa quanto uno spazio fosse o meno integrato: quando intralcia la valorizzazione, viene attaccato. Questo è il segnale che la compatibilità non salva, ma prepara la neutralizzazione.
Per questo la solidarietà non può essere né carità né tifoseria. Non si tratta di difendere un marchio storico, ma di generalizzare la difesa degli spazi come difesa di un’idea di città. Una solidarietà politicizzata, capace di trasformare indignazione in organizzazione: inchiesta militante, casse di resistenza, coordinamenti territoriali, sindacalismo sociale. In questo modo un attacco locale può presentarsi come possibilità alla ricomposizione generale.
La vicenda fiorentina, dunque, non riguarda solo Firenze. È il segnale che non esistono più zone franche: la città è fabbrica sociale della valorizzazione, e la rendita è il suo comando centrale. Colpire il CPA significa lanciare un messaggio a tutto il campo antagonista: ogni esperienza di autorganizzazione può essere chiusa quando non è più tollerabile per la logica della valorizzazione.
La posta in gioco non è allora – unicamente quella di – difendere un edificio, ma decidere se siamo capaci di rilanciare un fronte dell’autonomia che tenga insieme memoria e progetto, radicamento e respiro internazionale, pratiche di autorganizzazione e conflitto politico. Nessuna legalità salva. Solo l’autonomia organizzata, radicata nei bisogni materiali e trasformata in forza collettiva, può aprire varchi nella metropoli governata dalla rendita.
Cosa serve alla prossima fase? Serve la capacità di spezzare i meccanismi dell’atomizzazione e dell’invisibilizzazione, che il capitale produce come strumenti quotidiani di dominio. Serve un percorso di organizzazione materiale e politica, capace di trasformare la frammentazione sociale in soggettività antagonista.
Serve, soprattutto, la volontà di guardare alla città non come spazio neutro o semplice scenario urbano, ma come campo di battaglia del conflitto sociale, dove ogni edificio, ogni strada, ogni quartiere, già plasmato dalla logica della rendita può diventare terreno di scontro, di resistenza e di costruzione – e non si abbia timore a dirlo – forza collettiva di classe.
* da Facebook
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