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Almasri arrestato in Libia. Una serie di responsabilità politiche da ricostruire

Il generale libico Osama Almasri, a capo della milizia denominata Rada, è stato infine arrestato il 5 novembre dalle autorità libiche, con l’accusa di tortura verso dieci migranti detenuti in un lager (perché di questo si tratta) sotto il suo comando, e dell’omicidio di uno di essi. Il militare era stato al centro di una lunga diatriba riguardante il governo italiano e la Corte Penale Internazionale (CPI).

Per quanto l’arresto risponda a un minimo criterio di giustizia, è necessario ricostruire la vicenda e anche le problematiche annesse all’azione delle autorità libiche. Insieme all’opacità promossa dai vertici governativi italiani, si delinea un quadro di responsabilità politiche, giocate sul filo – e oltre – della legalità, che rimandano alla connivenza con le violenze tipicamente annesse all’esternalizzazione delle frontiere UE.

Prima di tutto i fatti, messi secondo un ordine ‘logico’. Almasri era stato arrestato il 19 gennaio a Torino, sulla base di un mandato di cattura della CPI emesso il giorno precedente: le accuse spaziavano dagli omicidi alle torture, fino agli stupri. Il capo di Gabinetto di Nordio era stato avvisato già il 19 gennaio della necessità che il ministro della Giustizia firmasse un atto urgente, per osservare il mandato di cattura emanato dall’Aja.

Nonostante questo, il 21 gennaio Almasri fu liberato e rimpatriato in Libia su di un volo di stato. Da allora, il governo, e anche l’ambasciatore italiano nei Paesi Bassi, Augusto Massari, hanno presentato una serie di dichiarazioni e versioni contraddittorie, nessuna davvero convincente e, soprattutto, nessuna che spiegasse come mai i doveri verso la CPI non erano stati rispettati.

Tutto questo fino a che, alla fine di ottobre, non è arrivata in Giunta per le autorizzazioni della Camera l’archiviazione del procedimento nei confronti dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano. Le ipotesi di reato a loro carico erano omissione d’atti d’ufficio, peculato e favoreggiamento.

Dopo appena una settimana, Almasri è stato arrestato, e poche ore dopo il governo ha diramato una nota informale nella quale ha affermato che era a conoscenza delle indagini su Almasri. E che sulla base di un particolare combinato disposto di comunicazioni libiche ha infine deciso di non dare seguito al mandato della CPI.

L’esecutivo italiano era bene a conoscenza dell’esistenza di un mandato di cattura emesso dalla Procura Generale di Tripoli a carico del libico Almasri già dal 20 gennaio 2025“, e la Farnesina aveva ricevuto “pressoché contestualmente con l’emissione del mandato di cattura internazionale della Procura presso la Corte Penale Internazionale dell’Aja, una richiesta di estradizione da parte dell’Autorità giudiziaria libica“.

Questo riporta Sky Tg24, sulla base di fonti governative. Allo stesso tempo, però, Adnkronos ha visionato una nota riservata, inviata alla Corte d’Appello di Roma dal Procuratore generale libico, risalente al 20 gennaio 2025. Nel testo si chiede di non procedere al fermo e all’estradizione di Almasri sulla base del mandato della CPI, sostenendo che tali reati rientrassero nella giurisdizione nazionale della Libia.

Nel paese al di là del Mediterraneo sarebbero state infatti già in corso indagini sulle torture e sugli omicidi dei migranti in custodia. La CPI non avrebbe mai comunicato formalmente con la magistratura libica e non ne avrebbe richiesto la cooperazione giudiziaria. Dunque, “la gestione da parte della Corte Penale Internazionale dei fatti contestati ha violato il principio di complementarità tra la Corte e le giurisdizioni penali nazionali“, scrive il Procuratore generale libico.

Insomma, delle due l’una: o c’era una richiesta di estradizione, o le autorità libiche hanno chiesto di lasciar andare Almasri. Considerato che il militare è poi rientrato trionfante nel suo paese, la versione del governo italiano sembra la meno attendibile. E i tribunali libici facevano in realtà i conti con rapporti di forza interni e con la necessità di raccogliere ulteriori prove.

Sono poi le stesse fonti italiane a fare emergere come il quadro Almasri sia cambiato effettivamente solo per eventi politici, e prettamente militari. Già da mesi, gli equilibri al di là del mare, intorno alle forze della Rada di cui Almasri era elemento di spicco, e che avevano avuto una collaborazione stretta con i servizi segreti italiani, stava cambiando. Il punto di svolta era poi arrivato a maggio, quando a Tripoli pesanti scontri hanno materialmente indebolito le forze di Almasri.

Il suo arresto era ormai, dunque, non solo fattibile in termini di sicurezza, ma anche funzionale con nuovi obiettivi politici. Non si può ignorare il fatto che le milizie accordatesi con Italia e UE per chiudere i migranti nei lager hanno subito pesanti sconfitte, mentre da mesi è andata avanti un’opera di dialogo con funzionari provenienti sia dal governo di Tripoli che da quello di Bengasi. Un cambiamento non di poco conto in uno scenario in cui Roma e Bruxelles, palesemente, non hanno più il pallino del gioco e si affidano agli eventi.

Eventi che potrebbero rimanere in casa libica. Infatti, il 12 maggio il primo ministro Dbeibah aveva dichiarato di accettare la giurisdizione della CPI, pur non aderendo il suo paese allo Statuto di Roma che la regola. Le accuse mosse contro di lui in patria, però, sono ridotte rispetto a quelle dell’Aja (che prevedevano anche stupro, riduzione in schiavitù, esecuzione sommarie e altri crimini).

Ma come afferma il comunicato libico diffuso dopo l’arresto del generale, “in presenza di prove sufficienti per procedere con l’accusa, la Procura ha rinviato a giudizio al tribunale competente l’ccusato, che è attualmente in custodia cautelare“. Ovvero, sarà un tribunale libico a giudicarlo, precludendo, sembrerebbe, l’affidamento alla giustizia internazionale.

Tiriamo le somme della vicenda, almeno per ciò che è indubbio. Il governo italiano non ha rispettato gli obblighi che aveva verso la CPI. Fosse anche vero che c’erano già delle indagini in corso in Libia, era impossibile sapere da Palazzo Chigi che Almasri sarebbe stato arrestato, cosa che invece doveva avvenire secondo lo Statuto di Roma (e il guardiasigilli aveva tutte le informazioni per far sì che accadesse).

A riprova di tutto ciò, il generale libico non è stato estradato, sulla base di capi d’accusa formulati al di là del Mediterraneo, ma è stato semplicemente espulso, su di un volo di stato, a volte affermando “perché pericoloso“. Ma il militare era pericoloso in Libia, tra le sue milizie, non in un carcere a Torino. E dai suoi uomini è stato accolto trionfante una volta sfuggito alla CPI.

L’unico motivo per cui oggi Almasri è stato arrestato è che i suoi servigi nel puzzle di scontri e guerra libico non erano più graditi, e lui aveva perso molto del suo potere militare. L’Italia – e la UE per estensione, dato che si parla di esternalizzazione delle frontiere europee – ha semplicemente lasciato che la questione venisse risolta ‘in casa’, attendendo di vedere a quale milizia doversi affidare per mandare avanti i lager per i migranti.

E in casa verrà probabilmente giudicato Almasri, a meno che altri equilibri interni non suggeriscano di spedirlo all’Aja (ma ciò renderebbe probabilmente più rischioso l’allargarsi delle indagini, mettendo in pericolo autorità libiche e anche italiane). Intanto, il governo nostrano dimostra ancora una volta che “il diritto conta fino a un certo punto“, come ebbe a dire Tajani. Quel punto è finché non si mette nel mezzo degli interessi imperialistici europei.

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