L’Italia è un Paese dove la memoria evapora in fretta: la gente fatica persino a ricordare il giorno prima. Un Paese senza storia viva.
Lo si capisce quando un ministro arriva a dire spudoratamente che, se un’idea di Licio Gelli era “giusta”, non ci sarebbe nulla di strano nel seguirla. Parole pronunciate dal Guardasigilli Carlo Nordio, nel rispondere a chi ha ricordato che la riforma della giustizia assomiglia parecchio al progetto scritto dalla loggia P2.
Come se il nome non pesasse. Come se dietro quel nome non ci fosse un archivio di sangue, colpi di stato, bancarotte pilotate, depistaggi e relazioni oscene che hanno attraversato la Repubblica come una febbre gialla.
Gelli e la sua rete Massona sono entrati praticamente in tutto le porcherie architettate da un élite cospirativa: servizi segreti, ministeri, giornali, banche, televisioni, Guardia di Finanza, Esercito, Polizia e Carabinieri. Uomini piazzati nei punti chiave. Un elenco di 962 nomi che, nel 1981, fece tremare i palazzi. E non perché qualcuno scoprì un complotto; ma perché quel complotto era già in corso da anni.
Dietro c’era il “Piano di rinascita democratica”: addomesticare l’Italia, spingere verso un sistema bipolare rigido, limitare la stampa, ridisegnare i poteri delle Camere, rimettere la magistratura sotto controllo. Tutto nero su bianco. Un’agenda politica pronta all’uso. E poi gli episodi. Uno dopo l’altro, come una catena.
Il caso Moro.
Durante i 55 giorni, i vertici dei servizi erano occupati da iscritti alla loggia. C’è chi sostiene che il “venerabile” abbia agito per impedire la liberazione di Moro [traduzione a scanso di equivoci: “impedito che lo Stato trattasse con le BR“, ndr].
La strage di Bologna.
Ottantacinque morti. Nel 1994 Gelli è condannato per aver depistato le indagini: confonde le acque, sposta piste, protegge interessi. Una inchiesta più recente della Procura Generale di Bologna ipotizza che Gelli, insieme ad altri, sia tra i mandanti-finanziatori della strage. Ma Gelli deceduto, non può essere processato per queste nuove accuse.
Il Banco Ambrosiano.
Una bancarotta che travolge tutto. Gelli condannato per frode. L’ombra sulla morte di Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra. Una scia di denaro, ricatti e poteri paralleli che si muove tra Roma, Milano, Londra e Città del Vaticano.
Tangentopoli.
Spunta il “conto protezione”: soldi dal Banco Ambrosiano al Psi. Un altro tassello, un’altra vena scoperta del sistema.
E mentre tutto questo accadeva, il capo della loggia faceva quello che fanno gli uomini abituati a muoversi fuori dalla legge: scappava.
La fuga.
Arrestato in Svizzera nel 1982, rinchiuso a Champ-Dollon, evade, guarda un po’, un anno dopo. Riappare in Sudamerica, tra Venezuela e Argentina. Si consegna di nuovo, ricompare a Ginevra, viene estradato, rimesso in libertà provvisoria. Un filo spezzato e riallacciato cento volte, sempre con una facilità che dice più di mille sentenze.
La dittatura argentina.
E qui si apre un capitolo che da solo basterebbe a raccontare un’epoca. Rapporti stretti con Roberto Eduardo Viola e con l’ammiraglio Emilio Massera, uno degli uomini chiave della giunta militare fascista. Trentamila desaparecidos, torture sistematiche, volti cancellati per sempre. In quel contesto, Gelli riceve lettere di encomio. Gli argentini gli concedono persino un passaporto diplomatico.
Un italiano che ottiene protezione da una delle dittature più sanguinarie del Novecento. Un dettaglio che basterebbe a riportare alla realtà chiunque non sia deciso a dimenticare.
E invece, oggi, nel 2025, si può parlare di Licio Gelli come di un signore qualsiasi dotato di “opinioni”. Si può dire che, se una sua idea era “giusta”, allora non c’è nulla di cui preoccuparsi.
Succede perché l’Italia non ricorda.
Succede perché il passato dura 24 ore.
Succede perché ci si abitua a tutto, anche all’orrore, se nessuno lo racconta più.
* da Facebook
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