A scrutinio concluso per le tre tornate elettorali che hanno interessato le regioni Veneto, Campania e Puglia, si possono fare valutazioni più puntuali di quelle possibili ieri, sia perché i dati sono definitivi, sia perché indicazioni più generali è bene trarle a mente fredda. E il primo elemento da sottolineare è la portata dell’astensionismo, ma anche il precipitato politico.
Ieri e l’altroieri erano coinvolti oltre 12 milioni di aventi diritto, ma che negli ultimi due mesi sono state sette le regioni a rinnovare i proprio organi. Tolta la Valle d’Aosta (che fa intorno ai 120 mila abitanti e vive dinamiche a sé, dovute pure allo statuto speciale), sono stati dunque circa 19 milioni gli italiani chiamati al voto.
Marche, Calabria, Toscana, e infine Veneto, Campania e Puglia. Una fetta importante dell’elettorato del nostro paese, che rappresenta un campione rappresentativo dell’intera penisola, sia per provenienza geografica, sia estrazione sociale. E quello che emerge in maniera netta è che più di un italiano su due non vota più, senza eccezioni “locali”.
Controllando i dati su Eligendo o su siti affini, queste sono le percentuali dei votanti: Marche 50,01%; Calabria 43,15%; Toscana 47,73%; Veneto 44,65%; Campania 44,10%; Puglia 41,83%. Nella maggior parte delle regioni si sono perse percentuali a due cifre, fino al -16% in Veneto.
La metà della popolazione italiana non trova più alcun rappresentante politico: non parliamo più neanche di adesione “ideologica”, ma è lo stesso “voto di opinione” che ormai sta scomparendo, come hanno evidenziato persino alcuni politici o commentatori mainstream. Il popolo non ha più interesse a esprimere nemmeno un’opinione contingente, perché evidentemente lo ritiene inutile; lo scollamento tra classe politica e “rappresentati” appare irreversibile.
Ormai, a votare sono solo le consorterie, le filiere clientelari, quegli agglomerati sociali più o meno organizzati in soggetti portatori di interessi specifici, non generali, che trovano nei politici di turno (o più spesso in gruppi di potere che sono un “usato garantito”) la propria espressione.
Tutta la dimensione della rappresentanza politica si esaurisce ormai in una sorta di “voto di scambio” un po’ più generalizzato, ma che riguarda ad ogni modo solo una fetta minoritaria della popolazione. Gli interessi di tutti gli altri non hanno rappresentanza, come previsto da un sistema costruito per garantire “la stabilità” eliminando gli interessi – e i soggetti – “disturbanti”.
Questa consapevolezza pone interrogativi significativi anche a chi vuole organizzare un’alternativa indipendente, rompendo il “bipolarismo obbligato” che immobilizza lo scenario politico, dove a prendere davvero le decisioni sono i funzionari che gestisconoi vincoli esterni e interni a UE e NATO (ancora meno “contendibili” democraticamente di quelli che siedono in Parlamento e nei consigli regionali).
L’unica proposta in questo senso che è andata vicina a eleggere qualcuno, in queste tornate elettorali, è stata la lista Toscana Rossa, formata da Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e Possibile, dove pende peraltro un ricorso perché la candidata presidente ha superato la soglia di sbarramento al 5%, ma la lista l’ha solo sfiorata.
Bisogna però anche evidenziare che questa impasse sociale e politica non si risolve con le scorciatoie “legali”, neanche con una legge elettorale proporzionale. Se le condizioni generali rimangono le stesse, una riforma del genere porterebbe semmai a una polverizzazione della rappresentanza nei collegi eletti.
Senza poi dimenticare che non sempre le liste create intorno alle scadenze elettorali sono costruite da soggetti realmente “alternativi”, ossia con un’ipotesi fondata sull’indipendenza politica (anche dal “campo largo”) e sulla necessità della rottura con il quadro dei vincoli sopra accennato.
A ridosso delle mobilitazioni oceaniche che hanno attraversato il paese per settimane e settimane tra settembre e ottobre abbiamo scritto che si erano rotti gli argini della passività delle masse popolari. Che in milioni erano scesi in piazza, magari per la prima volta, e che lo hanno fatto non su di un interesse particolare, legato magari al proprio portafoglio, ma su di una questione certamente umanitaria come un genocidio, ma riguardante il posizionamento internazionale dell’Italia: una questione eminentemente politica.
Allo stesso tempo, anche queste elezioni dimostrano come tutte queste persone possono pure aver preso le strade, ma sono le stesse che ancora non sono spinte a mettere nero su bianco, con una croce, la propria approvazione a chi quelle piazze oceaniche le ha promosse e organizzate. Magari apprezzano il lavoro di alternative genuine e coerenti come quelle promosse da Potere al Popolo, ma non le vedono ancora come una rappresentanza credibile dei propri interessi politici.
Cosa rimane, dunque, alla fine di queste regionali? Abbiamo già detto che, se le condizioni rimangono immutate, non c’è una soluzione “facile”. Il tema per un’alternativa è allora quello di cambiare le condizioni, e questo può essere fatto solo con il lavoro paziente e di lungo respiro nel rapporto di massa con i settori popolari. Qualcosa che si sta già facendo, altrimenti quelle mobilitazioni di massa non ci sarebbe state, ma che ha i suoi tempi di maturazione.
In questo senso, va riportata la giusta posizione espressa da Giuliano Granato, candidato presidente di Campania Popolare. Intervistato dal Tg regionale, ha innanzitutto evidenziato che, anche se il risultato è ancora negativo, i dati di Potere al Popolo sono in crescita.
Ma non si è fermato alla fotografia dei numeri: ha ribadito che la forza di questa alternativa è il fatto che, già da oggi, sono di nuovo in piazza al fianco delle lotte, come quella degli ispettori del lavoro. “La battaglia elettorale è un pezzo“, ha specificato, “poi ci sono le battaglie della vita quotidiana, in cui saremo sempre presenti“.
Questa dichiarazione risponde proprio a quel “lavoro paziente” citato sopra. Che significa organizzare dal basso le persone, mantenendo una prospettiva generale di cambiamento della società. Significa anche costruire alleanze sociali sempre più solide, come quella che si è delineata tra studenti e lavoratori negli ultimi anni. Significa saldare questo nuovo blocco sociale e politico nelle piazze. Significa dare continuità a tali percorsi e indirizzarli contro il governo (ora Meloni, domani chissà).
Lo spazio per la politicizzazione dei vari interessi particolari, per un loro allineamento in un blocco sociale con una prospettiva politica più generale c’è: è dato dalla crisi economica ed egemonica, dalla mancanza di margini di trattativa, dall’incombere della guerra.
La loro organizzazione politica è un lavoro quotidiano che deve creare un nuovo “legame sentimentale”, che non è una presa di posizione emotiva ma, al contrario, l’auto-riconoscimento di far parte di un gruppo sociale, e che i suoi interessi sono rappresentati in maniera generale da un determinato schieramento politico. Su questa strada c’è molto da lavorare, ma c’è anche terreno fertile per farlo.
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