Menu

La Sapienza parla di futuro senza studenti e lavoratori. L’intervento di Cambiare Rotta

Lo scorso 4 dicembre, La Sapienza di Roma ha organizzato un convegno dal titolo “L’Europa e il lavoro che verrà”. Come era possibile leggere sull’annuncio pubblicato al riguardo da Il Sole 24 Ore, l’obiettivo era quello di “riflettere sul ruolo dei giovani e sulle riforme necessarie a rafforzare istruzione, formazione e impresa“.

Gli invitati a parlare erano tra i più “alti calibri” del governo, di alcuni enti parastatali e dell’imprenditoria italiana. C’era, com’era ovvio, la rettrice Polimeni, ma c’erano anche la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, e Tommaso Foti, ministro per gli Affari Europei, il Sud, la coesione e il PNRR.

C’erano anche Gabriele Fava, presidente dell’INPS, ed esponenti della Cassa Depositi e Prestiti, e dell’agenzia per il lavoro ManpowerGroup. Per concludere il quadro, l’evento è stato trasmesso in streaming dal gruppo de Il Messaggero, di cui direttore e caporedattore hanno fatto da moderatori.

Dopo questa carrellata di figure, appare chiaro che chi non è stato invitato a parlare del futuro sono stati gli studenti e i lavoratori. L’unica giovane invitata a parlare è stata Maria Anghileri, alla presidenza dei Giovani Imprenditori di Confindustria. Per questo, Cambiare Rotta aveva deciso di portare lì dentro la voce di tutti coloro a cui il futuro è stato relegato nell’orizzonte di una formazione sempre meno accessibile, della precarietà, e spesso anche dell’emigrazione forzata.

Gli studenti hanno contestato l’iniziativa, sotto la Facoltà di Economia, insieme ai lavoratori dell’Unione Sindacale di Base (qui un video). Cambiare Rotta aveva anche preparato un discorso da leggere, nel caso in cui fosse stata data loro l’opportunità di portare le parole di una generazione a cui il futuro è stato strappato in quella sala. Ovviamente, ciò non è successo, in una Sapienza al solito blindata e sorda a ogni rivendicazione.

I giovani dell’organizzazione giovanile ci hanno fatto avere quel testo, che riproduciamo qui sotto. Parole che mettono alla sbarra un’intera classe dirigente, che parlano di un’alleanza solida degli studenti coi lavoratori, e che mostrano che c’è ancora chi è disposto a lottare per un futuro nel proprio paese, in rottura con il declino del modello capitalistico europeo e occidentale.

*****

Da anni come studenti e giovani lavoratori lanciamo un allarme rosso: la nostra generazione è in fuga. Il Sud ha perso oltre mezzo milione di giovani in dieci anni e nel 2024 altre 150mila persone sono partite per studiare o lavorare altrove. In vent’anni l’Italia ha perso più di un quarto dei suoi 25-34enni, mentre la popolazione totale cresceva.

Oggi quasi il 63% degli under 35 vive ancora con i genitori non per scelta, ma per impossibilità di emanciparsi, pur lavorando: il 68,7% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha un’occupazione, ma non riesce comunque a costruirsi un futuro.

Il governo rivendica un fittizio un aumento dell’occupazione: il 77% dei giovani infatti rifiuta le offerte di lavoro perché prevedono salari troppo bassi. L’ascensore sociale è bloccato: studio e lavoro non garantiscono più autonomia e emancipazione, e per molti la precarietà lavorativa appare l’unico futuro possibile.

Usciamo dal nucleo familiare a trent’anni perché stipendi insufficienti, lavoro nero e contratti sottopagati ci impediscono qualsiasi passo. Nel frattempo, le tasse universitarie, gli affitti e il costo della vita erodono ciò che guadagniamo, rendendo impossibile una vita indipendente.

Che la nostra generazione stia peggio di quella dei nostri genitori e sia costretta a scappare dall’Italia è il migliore certificato del fallimento totale del modello di sviluppo del Paese. Non è un caso, la colpa è da trovare e un evento come quello di oggi dovrebbe occuparsi di questo.

Al contrario, gli attuali titolari di ministeri importanti come quello di università e ricerca e quello che si occupa di Affari europei, Sud, politiche di coesione e PNRR siedono in questo evento accanto a un segmento molto specifico del Paese, banchieri, industriali, giovani imprenditori di Confindustria.

Non sono questi gli interlocutori adatti a rappresentare la maggioranza delle fasce giovanili del paese strette nella morsa della crisi. Al contrario, molti degli invitati a questo evento portano la responsabilità delle politiche economiche e delle riforme che in ambito di formazione e lavoro hanno prodotto il disastro che abbiamo di fronte seguendo innanzitutto i i diktat vergognosi dell’Unione Europea.

L’UE ci ha imposto un modello economico che ha trasformato l’Italia in ciò che oggi siamo: la periferia produttiva d’Europa, un Paese subordinato, alla cui “generazione Erasmus”, libera di circolare da Schengen in poi, si impone di essere un bacino di manodopera sottopagata, pronta a partire o a rassegnarsi.

Le regole del Patto di Stabilità, l’austerità, la religione del pareggio di bilancio da Maastricht 1992 hanno significato tagli alla spesa pubblica, disinvestimento nella scuola, nell’università, nella ricerca, nella sanità, nel welfare. Le stesse politiche che voi avete difeso per trent’anni come “necessarie” sono quelle che ci hanno tolto il futuro.

E così, mentre l’Europa del Nord si arricchisce attirando i nostri migliori studenti e ricercatori,  i nostri salari rimangono tra i più bassi d’Europa, la solita competitività al ribasso che relega l’Italia a fanalino di coda, senza industrie strategiche, senza autonomia produttiva, senza investimenti pubblici.

Da trent’anni ci ripetete che la precarietà “è il mondo che cambia”. No: è il risultato di scelte precise, fatte da governi precisi. Il Pacchetto Treu alla fine degli anni ‘90 ha aperto la strada alla precarietà moderna: lavoro interinale, lavoro “a chiamata”, la figura del lavoratore usa-e-consuma.

La Legge Biagi del 2003 ha completato l’opera: contratti a progetto, intermittenti, part-time esteso come soluzione universale. Una giungla contrattuale costruita per togliere tutele, non per creare lavoro.

La riforma Fornero del 2012 ha poi reso tutto più grottesco: a noi è stato detto di lavorare di più e più a lungo, sapendo benissimo che con salari da fame e contributi minimi non arriveremo mai a una pensione dignitosa.

E infine il Jobs Act del 2015 ha chiuso il cerchio: l’abolizione dell’articolo 18 ha reso ogni posto di lavoro revocabile, ricattabile, temporaneo.

È stata la trasformazione definitiva del lavoratore in un numero, non una persona. Queste riforme non sono “il passato”: sono ciò che ha costruito l’oggi. Sono la ragione per cui noi, pur lavorando, non possiamo permetterci una casa, un futuro, una vita autonoma.

La stessa demolizione l’abbiamo vista nella scuola e nell’università. Il tasso più basso di laureati in Europa e il terreno per un futuro di precarietà  l’avete costruito voi, mattone dopo mattone.

La riforma Ruberti del 1989 ha aperto la strada alla trasformazione dell’università in un’azienda: autonomia solo nei bilanci, non nei diritti; competizione esasperata tra atenei; ingresso dei privati nelle decisioni strategiche. È lì che è iniziato il modello in cui lo studente diventa un cliente e la ricerca un costo da tagliare.

Poi è arrivata la Gelmini nel 2010, che ha tagliato fondi a scuole e università come nessuno aveva mai fatto: classi più affollate, precari storici cancellati dal giorno alla notte, fondi ridotti ovunque, ricercatori costretti a lavorare gratis per mandare avanti i corsi. È stata la riforma che ha fatto crollare un sistema già fragile e che ha svuotato ancora di più i territori, soprattutto il Sud.

E oggi siamo davanti a Lei ministra Bernini che prosegue fieramente sulla stessa strada: 700 milioni di tagli al FFO, nuove figure precarie della ricerca e poi la nuova bozza sulla riforma della governance, rappresentanza studentesca dimezzata e cancellata per i lavoratori, un Senato Accademico depauperato e rettori in carica per 16 anni. Un bavaglio a chi dentro le istituzioni prova ad alzare la testa.

Se le riforme degli ultimi decenni hanno già demolito le prospettive di lavoratori e studenti, dopo la pandemia la situazione è precipitata: abbiamo assistito a una vera accelerazione della militarizzazione della società.

Il Documento di Economia e Finanza del 4 ottobre e la manovra di fine anno lo dicono chiaramente: ci aspetta una manovra lacrime e sangue sulle spese sociali, mentre le uniche risorse che aumentano sono quelle destinate agli armamenti. È la traduzione, riga per riga, del nuovo Patto di Stabilità europeo: meno welfare, più guerra.

L’Italia prevede 34 miliardi di spesa militare, in crescita continua, perfettamente allineata alla corsa al riarmo voluta da Bruxelles e da Washington. Da una parte c’è il piano europeo da 800 miliardi, che permette agli Stati di indebitarsi per gli armamenti ma non per scuola, sanità o salari. Dall’altra parte la Nato che alza l’obiettivo al 5% del PIL: per l’Italia significherebbe quasi 100 miliardi l’anno destinati al comparto bellico entro il 2035.

E come se non bastasse, il ministro Crosetto rilancia l’idea di reintrodurre la leva militare, mentre si tagliano fondi all’istruzione, ai giovani, alla ricerca. È la conferma più evidente che garantire pace, stabilità e un futuro dignitoso non è nella lista delle priorità né del governo né di questo Parlamento.

Il riarmo non è un dettaglio: significa trasformare l’economia, militarizzare la società, restringere gli spazi democratici. È la strategia con cui la classe dirigente cerca di uscire da una crisi che non vuole spiegare e che questo convegno, ancora una volta, preferisce osservare senza mai affrontarne le cause reali.

In questi mesi nel nostro Paese si è aperta una frattura profonda, evidente nelle piazze oceaniche dell’autunno: tre scioperi generali, manifestazioni nazionali imponenti, mobilitazioni diffuse nelle città e nei luoghi della formazione. Piazze che hanno sostenuto la Global Sumud Flotilla, che hanno chiesto di fermare il massacro del popolo palestinese e di spezzare ogni complicità del nostro governo e dell’Unione Europea con l’aggressione di Israele.

Ma erano piazze anche contro il governo Meloni, e contro i suoi ministri-riformatori — da Crosetto a Bernini — che stanno trascinando il Paese lungo un sentiero di regressione sociale e democratica.

E non è un caso che accanto alla classe operaia ci fossero soprattutto giovani. Giovani che hanno le idee più chiare di chi ci governa su quali siano le priorità reali per far ripartire il Paese:

  • nazionalizzare i settori strategici;
  • assumere centinaia di migliaia di lavoratori nel pubblico;
  • investire nelle tecnologie al servizio dell’emancipazione sociale, non dei profitti privati;
  • ridurre l’orario di lavoro a parità di salario;
  • cancellare tutte le forme di precarietà, dal part-time involontario al sistema degli appalti e subappalti;
  • combattere senza tregua il lavoro nero e il lavoro grigio;
  • dirottare la spesa militare su casa, sanità, scuola e università.

Perché senza un lavoro garantito e stabile non c’è futuro. Perché riarmo e guerra sono la condanna definitiva di qualsiasi possibilità di sviluppo.

Diciamolo chiaramente: se invece di assumere 100–200 mila persone l’anno nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nella ricerca, si preferisce accettare l’emigrazione giovanile di massa, è perché non si vuole mettere in discussione i tre pilastri che hanno governato gli ultimi trent’anni: Patto di Stabilità, austerity, rendite e profitti.

Se non partiamo da questi presupposti però il dibattito di oggi sarà un esercizio di stile sul Titanic. La differenza è che noi non stiamo qui a dirvi che l’orchestra suona bene. Noi vogliamo cambiare rotta per conquistarci un futuro.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *