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La narrazione della scienza nel regime di Renzi

Nella narrazione schizofrenica che contraddistingue la comunicazione del regime renziano, l’abitudine al polpettone d’annunci, funzionale a rendere il cittadino spettatore incapace di comprendere e interpretare gli eventi sulla base dei propri interessi, di recente è tornata a chiamare in causa la “tecnologia”.

Un termine sibillino quest’ultimo, perché capace di accomunare tanto i padroni (che attraverso lo sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione massimizzano i profitti per unità di prodotto) quanto il “mondo di sotto”, (convinto che la tecnologia sia, a propri, foriera di miglioramenti della propria condizione di vita).

Va da se che la contestualizzazione del progresso tecnologico all’interno delle strutture sociali e di potere in cui si inserisce e da cui viene diretto non è mai considerato a livello di massa, altrimenti risulterebbe chiaro che, al fine di migliorare l’esistenza di ognuno, prima della tecnologia è necessario stabilire quali interessi quest’ultima debba servire.

Nonostante queste considerazioni siano state trattate un secolo e mezzo fa (!!!) con ben altra competenza dalla mente di Treviri, è sconfortante e al contempo stupefacente verificare come esse siano quasi totalmente avulse dal pensiero comune, a dimostrazione che le forze progressiste avrebbe un bisogno viscerale di condurre le masse a riappropriarsi della scienza, pena l’abbandonare il progresso al monopolio  della narrazione di mercato, che ha registrato di recente un nuovo picco “qualitativo” con la puntata di Report dedicata alla “Rivoluzione industriale 4.0”.

Un’inchiesta pressapochistica quella firmata dalla redazione della Gabbanelli, carica di entusiastici luoghi comuni (soprattutto in riferimento alla robotica, assimilata ormai da decenni negli stabilimenti produttivi ma ancora esotica nell’iconografia che ne viene fornita alla massa) e di quell’immancabile provincialismo per cui il “Dieselgate” diventa un pacco – quasi una goliardata – che la Volkswagen ci ha tirato, ma il “modello tedesco” che l’ha prodotto rimane intoccabile a maggior ragione se produce “eccellenza” anche nell’inefficiente bel paese.

Il pezzo pregiato, in quest’occasione, è l’Istituto Italiano di Tecnologia, Fondazione pubblica di diritto privato che sta vivendo un periodo di notevole esposizione mediatica, a parere di chi scrive, motivata dall’essere funzionale alla poc’anzi menzionata narrazione governativa declinata in chiave “l’Italia che riparte”.

Quale ripartenza migliore, infatti, se non quella dell’eccellenza tecnologica per un paese in crisi, oltre che economica, anche d’identità, tanto sul piano interno – da stimolare per meri fini di consenso – quanto internazionale – con la necessità d’intercettare i tanto famigerati investimenti che l’UE vieta in massima parte al settore pubblico e che il settore privato nazionale nemmeno si sogna di porre in essere –?

Si elogia, quindi, la realizzazione del modello Max Planck Institute nell’inefficiente Bel Paese, senza tuttavia sollevare alcun interrogativo di carattere sistemico e strategico in merito all’esistenza dell’IIT e al tipo di ricerca che vi si conduce.

La “dimenticanza” è comprensibile. Simili quesiti, se affrontati con onestà intellettuale, illuminerebbero le falle e contraddizioni che albergano nello sviluppo capitalistico e nella costruzione dell’Unione Europea – con particolare riferimento alla “ridefinizione delle filiere produttive” – a partire proprio dalla sua punta di diamante, la ricerca.

Qui di seguito proverò a dare conto di alcuni tri i nodi riscontrabili in merito, utilizzando l’IIT come strumento esemplificativo senza per questo voler scadere nell’identificazione del capro espiatorio o peggio nella denigrazione di chi nella Fondazione con sede a Genova spende il proprio lavoro.

Anzitutto per quale scopo è stato creato l’IIT in un contesto nazionale in cui sono già presenti ricerca universitaria e il CNR?

Si potrebbe rispondere citando l’asfissia e paralisi in cui versano questi ultimi istituti, ma allora perché non rinnovarli radicalmente al posto di mettergli al fianco un nuovo concorrente che, per altro, intercetta la maggioranza dei fondi pubblici a disposizione della ricerca, e si “nutre” in larga parte della produzione di menti formate dal settore universitario nazionale?

·         Quale obiettivo industriale si pone la ricerca svolta presso l’IIT?

Prima di rispondere a questa domanda varrebbe la pena sottolineare che l’appartenenza all’UE non consente alcuna politica industriale di scala nazionale che esuli dalla creazione di un ambiente “favorevole al mercato” e che 9 anni di crisi hanno bruciato il 25% della capacità produttiva industriale italiana. Inoltre, la ricerca fatta in IIT, almeno quella che si osserva nel servizio di Report, pare decisamente scollegata con quel che resta dell’industria, a partire dagli ex colossi pubblici sopravvissuti a Genova dove l’IIT ha la sede principale.

Si potrebbe, dunque, pensare che mediante fondi pubblici si finanzia ricerca che sarà messa a profitto da aziende estranee alla disastrata economia nazionale, non proprio un guadagno per il sistema paese insomma…

L’eventuale ruolo d’incubatore di start up che viene associato all’IIT non cambia lo scenario, considerata la quantità statisticamente risibile di start up che arricchiscono il tessuto produttivo prima di fallire o essere assorbite da qualche multinazionale.

 

·         Un quesito andrebbe posto anche nel merito dell’utilità complessiva della ricerca condotta in IIT, soprattutto se la “Rivoluzione Industriale 4.0” è focalizzata sul miglioramento della vita umana (almeno a detta della redazione di Report, le affermazioni dei vertici industriali chiamati in causa, per esempio Bosch, lasciavano trasparire un’altra visione).

Se tentassimo di rispondere onestamente, dovremmo quanto meno riconoscere che in un sistema capitalista, per definizione, nulla viene prima del profitto e che la ricerca  ovviamente non fa eccezione. Dunque, senza voler screditare la ricerca eseguita in IIT e le 5500 pubblicazioni internazionali da essa partorita, si può convenire che la fallacia del sistema sta proprio nelle sue basi di conseguenza, anche la ricerca in questo gioiello italiano potrebbe avere poco a che fare con il miglioramento della qualità della vita dell’uomo comune.

Qualche esempio pratico: IIT pare orientarsi con decisione verso progetti di riabilitazione umana e tecnologie verdi. Tutto ovviamente encomiabile, ma viene da domandarsi per quale motivo le istituzioni pubbliche che lo finanziano da una parte “investano” in questi settori e dall’altra varino impianti legislativi che paiono strutturati per aumentare il bacino potenziale di soggetti da riabilitare – il mondo del lavoro da decenni è incamminato sulla strada del peggioramento degli standard di sicurezza e l’intensificarsi dello stress psicofisico – e deperire strutturalmente la qualità ambientale – decreto “Sblocca Italia”, grandi opere ecc. –.

Il cortocircuito di un simile approccio dovrebbe risultare macroscopico a chiunque…

·         Ultima ma non meno importante la strutturazione della ricerca basata sul “merito”, per cui chi non “pubblica”, è fuori. In poche parole, l’istituzionalizzazione nel lavoro cognitivo del principio per cui il salario, anzi il posto di lavoro, è legato a doppia mandata alla produttività che si è in grado di esprimere.

Va da se che la ricerca debba necessariamente essere legata al risultato, altrimenti si finirebbe per finanziare anche i raccoglitori di cicoria, tuttavia si è davvero sicuri che il progresso, non solo scientifico, sia veicolabile secondo questi canoni?

Personalmente credo che qualche dubbio sarebbe lecito porselo…

A fronte di quanto fin qui esposto, viene da riflettere con un certo scetticismo sul nuovo annuncio per cui la ricerca (e IIT) si pongono alla testa della valorizzazione delle aree di Expo 2015 ora che la grande abbuffata universale è terminata, e si ha la netta impressione che il “marchio” IIT e il mantra del progresso tecnico-scientifico, siano chiamati in causa all’abbisogna, per mettere una pezza su progetti discutibili fin dalla propria genesi (oltre al già citato post expo, anche il parco tecnologico Erzelli a Genova).

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