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Rallenta l’aspettativa di vita, in Italia la causa è l’attacco alla sanità pubblica

Se c’è una cosa che ha reso evidente a tutti lo straordinario miglioramento delle condizioni sanitarie avvenuto nell’ultimo secolo è stato il veloce aumento dell’aspettativa di vita nei paesi più sviluppati, che in una certa misura sta interessando sempre più anche altre realtà che un tempo veniva classificate come appartenenti al Terzo Mondo.

Il risultato è quello che, in campo medico, viene chiamata la ‘transizione epidemiologica’, così definita in una pagina della Treccani: “il passaggio da una situazione di prevalenza di malattie infettive a patologie croniche e degenerative, con un conseguente slittamento in avanti dell’età di morte“.

Questa transizione è parte di un più generale ‘circolo virtuoso’ invece che ‘vizioso’, che viene definito come ‘transizione sanitaria’, i cui fattori principali sono il miglioramento del tenore di vita e dell’alimentazione, i progressi della medicina e l’aumento del livello di istruzione, che ha portato con sé una maggiore consapevolezza sulle pratiche igienico-sanitarie individuali.

In sintesi, un generale sviluppo della società ha allungato l’aspettativa di vita, accompagnandosi alla progressiva preminenza di malattie legate più alla vecchiaia che ai pericoli pandemici. Ovviamente, il Covid-19 ha segnato una battuta d’arresto in questo processo, e ci ha ricordato che gli agenti patogeni sono ancora da tenere sott’occhio.

Il 18 febbraio, però, su The Lancet Public Health è stato pubblicato un articolo molto dettagliato e approfondito, che ha detto qualcosa di più. È il risultato dell’analisi dei GBD 2021 Europe Life Expectancy Collaborators, ovvero di esperti dell’ambito della salute che lavorano dentro questo grande programma di studio che ha lo scopo di “migliorare i sistemi sanitari ed eliminare le disparità“.

Nicholas Steel, il primo autore del contributo scientifico, ha così commentato: “dal 1990 al 2011, la riduzione dei decessi per malattie cardiovascolari e tumori ha continuato a portare ad aumenti sostanziali dell’aspettativa di vita, ma decenni di miglioramenti costanti hanno infine rallentato intorno al 2011, con marcate differenze internazionali“.

L’Italia, come spesso accade in queste classifiche europee, va male. Anche se è l’Inghilterra che ha segnato la frenata più brusca, il tasso di aumento dell’aspettativa di vita nel nostro paese si è ridotto a una media di 0,36 anni, ogni anno. Ovviamente non possiamo aspettarci di vivere in eterno, ma la distanza tra i vari paesi considerati ha, secondo gli autori, una ragione molto chiara.

Chi ha mantenuto un aumento della longevità più significativo lo deve al fatto di aver saputo ridurre l’impatto “della mortalità per malattie cardiovascolari e neoplasie, sostenute da una minore esposizione a rischi importanti, probabilmente mitigata dalle politiche governative”. In poche parole, chi ha saputo offrire buoni servizi di prevenzione attraverso un intervento pubblico più solido.

L’effetto si è poi sviluppato a cascata: “i continui miglioramenti nell’aspettativa di vita in cinque paesi durante il 2019-21 indicano che questi paesi erano meglio preparati a resistere alla pandemia di COVID-19. […] Questi risultati suggeriscono che le politiche governative che migliorano la salute della popolazione rafforzano anche la resilienza agli shock futuri“.

Insomma, una grossa responsabilità politica della strage fatta dalla pandemia ce l’hanno le classi politiche che hanno smantellato la sanità pubblica per far spazio al profitto privato. Certo, non va nascosto come un forte impatto ce l’abbiano anche gli stili di vita e l’ambiente che si ha intorno, ma anche questi sono elementi dipendenti dalla ‘offertà’ che dà il sistema sociale, non dalla semplice volontà individuale.

Un altro studio, uscito anche questo pochi giorni fa su Nature Medicine, ha evidenziato l’esistenza di 23 fattori ambientali che hanno un impatto importante sull’aspettativa di vita e in generale su buone condizioni di salute. Il loro peso è di gran lunga maggiore di qualsiasi predisposizione genetica: contano per il 17% nella variazione del rischio di morte, mentre i geni ereditati per meno del 2%.

Tra questi fattori, il fumo è associato con il maggior numero delle malattie che sopraggiungono con la vecchiaia (21 su di un totale di 25 patologie considerate). E poi, nel testo, leggiamo così: “il reddito familiare, l’indice di deprivazione di Townsend, la proprietà della casa (rispetto all’affitto o al vivere senza affitto) e la frequenza della sensazione di stanchezza sono stati associati a 19 malattie“.

Una evidenza scientifica che mette sotto accusa le politiche perseguite almeno negli ultimi trent’anni. Ma che, soprattutto, ci ricorda come non esiste ‘liberazione’ di alcun tipo, neanche dai danni collaterali dell’aumento dell’aspettativa di vita, dentro un sistema che è segnato da profonde disparità sociali, e che pone al primo posto l’interesse individuale piuttosto che quello collettivo.

Di fronte a questi studi, bisognerebbe interrogarsi nuovamente anche su un altro tema molto dibattuto in Italia, ovvero quello delle misure pensionistiche. Le riforme che sono state varate all’inizio dello scorso decennio hanno agganciato automaticamente l’età pensionabile agli aumenti dell’aspettativa di vita (da sottolineare, solo agli aumenti, non alle sue possibili riduzioni).

Si tratta di scelte, da parte dei legislatori, che non solo palesano l’evidente ingiustizia di certi meccanismi pensati appositamente per allungare la vita lavorativa e ridurre le spese pubbliche, ma che esprimono anche un modello completamente disinteressato alla ricerca del miglioramento delle condizioni di vita per la maggioranza della popolazione.

Chi è ricco, può difendersi meglio dalle malattie, vivere più a lungo, mentre chi è povero deve sperare di rimanere in forze più a lungo possibile, altrimenti gli è preclusa la sussistenza ora e gli verrà anche preclusa la pensione futura. L’introduzione del sistema contributivo per le pensioni è l’esempio lampante di come un problema collettivo viene scaricato sulla capacità individuale di versare contributi lauti e per lunghi periodi di tempo.

Quello che ci stanno dicendo, per dirla senza mezzi termini, è che bisogna lavorare fino alla morte. Anzi, se moriamo prima è meglio, ché così le casse dello stato respirano e, magari, si può distribuire qualche altro incentivo fiscale alle aziende.

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