Con la pandemia di Covid-19 la questione della salute è tornata ad essere un argomento sensibile, se non centrale nel dibattito politico. E anche se alla fine, alle nostre latitudini occidentali, non è cambiato molto in termini di privatizzazione dei servizi sanitari e speculazione attraverso grandi affari farmaceutici, si è sviluppato un rinnovato interesse sulle politiche sanitarie internazionali.
Bisogna premettere che ogni volta che si affrontano questioni riguardanti la diplomazia sanitaria, che si delinei in relazioni bilaterali o nella mediazione che avviene dentro le stanze di organismi multilaterali, non bisogna scordarsi che si parla pur sempre di diplomazia: la centralità è da riconoscere a fini di politica estera, perseguiti sul terreno sanitario come potrebbero essere perseguiti su altri terreni.
Consapevoli di questo, non bisogna però guardare con cinismo ad aiuti e sostegni offerti nel campo della salute, ma semmai alla funzione che questo tipo di iniziative assumono nella strategia dei suoi promotori. Se prendiamo USAID, esso era un programma per la proiezione della potenza egemonica statunitense e, di conseguenza, per il rafforzamento delle sue catene imperialistiche.
L’impegno internazionale per il miglioramento delle condizioni sanitarie può essere invece anche usato per emancipare i popoli e renderli più forti contro il neocolonialismo. Nell’articolo che riportiamo qui sotto, viene citata una missione medica cubana in Algeria nel 1963, ma negli stessi anni anche la Cina si sarebbe impegnata in iniziative simili in Africa, per far crescere il cosiddetto ‘Terzo Mondo’.
Il triangolo di diplomazia medica di cui qui si discute, quello tra Iran, Cuba e l’Africa, ha l’evidente scopo di far crescere la ‘resilienza’ – scusate la parola – del ‘Sud Globale’, e allargare così le faglie aperte dall’emergere del mondo multipolare sull’oppressione imperialistica occidentale. Ha insomma un valore strategicamente positivo, al di là di qualsiasi opinione che si possa avere degli attori in campo.
C’è però anche da specificare un nodo di fondo rispetto alle forme dell’impegno internazionale che sono delineate nell’articolo. Infatti, nel testo vengono alla fine sottolineate delle criticità riguardanti, ad esempio, le missioni mediche cubane, che finirebbero per tappare un buco piuttosto che rafforzare “i sistemi sanitari autoctoni“.
Per quanto questo possa risultare come un effetto possibile, il problema di fondo è che tali mancanze non potrebbero in alcun modo essere affrontate senza rimuovere le ragioni del sottosviluppo, cioè ottenendo l’emancipazione dalle pressioni occidentali. Stiamo parlando di un tema che si ripresenta uguale da decenni.
Sin dalle origini dell’OMS, ad esempio, si è sviluppato un dibattito su cosa la cosiddetta “technical assistance” dovrebbe essere. Ha vinto sin da subito la visione statunitense, per cui l’assistenza deve costituirsi come trasferimento del know-how, formazione di specialisti, al massimo qualche fornitura di beni strumentali, senza mai però intaccare le ragioni di fondo del sottosviluppo economico e sociale.
A ciò si è accompagnato un approccio verticale di azione, mirato a intervenire su singole questioni piuttosto che a un miglioramento delle condizioni di salute generali. Il risultato sono stati una serie di interventi verticali di cui l’importanza è epocale (basti pensare al piano di eradicazione del vaiolo, promosso dal virologo sovietico Zhdanov), ma che alle fondamenta ci siano alcune tare non deve essere nascosto.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, questo tipo di approccio venne criticato proprio dall’Unione Sovietica, perché di fronte a paesi distrutti e senza risorse, una tale forma di assistenza non avrebbe permesso nessun miglioramento autonomo, e avrebbe semplicemente aperto un nuovo mercato all’industria statunitense (scopo che Washington non nascose mai).
Per l’idea ambiziosa di assistenza che aveva in mente Mosca, però, servivano risorse ingenti, di cui l’OMS non disponeva e che nemmeno i sovietici in quel momento potevano permettersi di spendere. Un modello rivoluzionario fu quello della Primary Health Care, promossa dal Direttore Generale dell’OMS Halfdan Mahler negli anni Settanta.
Questo nuovo tipo di intervento si fondava proprio sul miglioramento dei servizi sanitari di base, venne sancito in una conferenza tenuta in territorio sovietico e si nutrì di alcune esperienze della Cina comunista, come quella dei barefoot doctors. Ma anche in questo caso esso venne fortemente ridimensionato dall’azione congiunta del governo statunitense e della Fondazione Rockefeller.
Con questa breve disamina storica si voleva mettere in evidenza come i nodi sulle criticità riguardanti l’assistenza sanitaria che emergono nell’articolo non sono una questione nuova a chi si occupa di politiche sanitarie. C’è da decenni una tensione di fondo, che potrebbe essere risolta solo da un tipo di assistenza che richiederebbe ingenti risorse per essere messa in campo. Iran e Cuba questa forza non ce l’hanno.
Allo stesso tempo, non deve essere oscurato il ruolo comunque emancipatorie di altre iniziative, nonostante le tare che si portano dietro. E inoltre, nel testo viene fatto riferimento alla costruzione di ospedali e alla produzione in loco di vaccini: queste sono attività che, invece, svolgono precisamente quella funzione di rafforzamento dei sistemi sanitari autoctoni, che in prospettiva può tradursi anche in maggiori possibilità di emancipazione dalle catene imperialistiche.
Un ultimo appunto va fatto, proprio sui vaccini. Nell’articolo si cita Soberana, e in generale l’industria biotecnologica cubana. Va fatto presente che quando L’Avana decise di produrre i propri vaccini, fece una scelta di fondo sui metodi di produzione, così che non ci fosse alcun bisogno della ormai famosa ‘catena del freddo’ e che la somministrazione fosse più semplice.
Ciò liberava la distribuzione dei vaccini cubani da enormi pesi logistici, permettendo anche a paesi più poveri – privi delle tecnologie e delle competenze necessarie per gestire i vaccini occidentali – di poter programmare una propria campagna vaccinale. Una scelta di questo ha un legame fondamentale con il tema della ‘non neutralità della scienza’.
Forse Cuba non ha le risorse per permettere ad altri paesi del Sud Globale di sviluppare una propria filiera biotecnologica autonoma, e la sua azione si deve quindi ridurre alla fornitura di medici e strumenti. Ma scelte di questo tipo hanno ugualmente quell’impatto liberatorio che spesso le forme dell’assistenza tecnica in campo sanitario oggi non riescono ad avere.
E il motivo di fondo per cui ce l’hanno è perché la dirigenza cubana non si nasconde il fatto che nella scienza non esistono scelte tecniche, come invece succede alle nostre latitudini. Ogni opzione tecnica è legata a un quadro interpretativo, infrastrutturale e di concezione dello sviluppo fortemente segnato dalle forme delle relazioni sociali e politiche in cui si vive.
La scienza non è neutrale, e i comunisti devono riappropriarsene nella battaglia per l’abbattimento dello stato di cose presente.
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Negli ultimi anni, si sta rafforzando una forma sempre più visibile di diplomazia sanitaria Sud‑Sud, in cui Paesi emergenti come l’Iran e Cuba stanno sviluppando alleanze dirette con altri Stati del Sud globale. Puntano su formazione, trasferimento tecnologico e produzione locale di vaccini e apparecchiature mediche, bypassando in parte le tradizionali rotte Nord‑Sud.
In particolare, si sta delineando un possibile triangolo di cooperazione Iran-Cuba-Africa: un’alleanza in costruzione, che intreccia il know-how cubano nell’invio di personale medico, l’infrastruttura scientifica iraniana e la crescente domanda africana di cooperazione sanitaria sostenibile e indipendente dai canali occidentali. Tale convergenza non solo mira a colmare lacune strutturali nei sistemi sanitari locali, ma riflette anche una visione alternativa dell’assistenza globale, più orizzontale e meno condizionata da vincoli geopolitici imposti dalle grandi potenze.
Iran: dalla WHA di Ginevra alla rete con Cuba, Armenia e Africa
Nel settembre 2023, l’Iran aveva annunciato la creazione di gruppi di cooperazione sanitaria con Paesi dell’Africa e dell’America Latina, nel contesto del già esistente G5+ (Iran, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Tajikistan e Oms).
Nel maggio‑giugno 2024, nel corso dell’77ᵃ Assemblea Mondiale della Sanità a Ginevra, il Ministro della Salute iraniano Bahram Einollahi ha incontrato i suoi omologhi di Cuba, Armenia e Zimbabwe per discutere di cooperazione in campo medico e tecnologico, anche sulla base del successo della produzione congiunta del vaccino Soberana durante la pandemia Covid‑19.
Ad aprile 2025, secondo media iraniani, durante un vertice a Teheran dedicato all’Africa, un alto funzionario sanitario ha illustrato l’intenzione di rafforzare le collaborazioni in ambiti come produzione farmaceutica, ricerca, infrastrutture sanitarie, formazione e telemedicina. In quell’occasione, l’Iran ha invitato esperti africani a stabilire rapporti con università e imprese sanitarie iraniane.
La relazione con Cuba è definita “strategica” e si fonda su una solida solidarietà politica, alimentata da commissioni congiunte e da cooperazioni settoriali in ambito vaccinale, formativo e tecnologico.
Cuba e la tradizione consolidata di cooperazione sanitaria globale
Cuba rappresenta un esempio emblematico di medical diplomacy. Dal primo contingente inviato in Algeria nel 1963 ad oggi, diverse generazioni di medici e infermieri cubani sono stati schierati in risposta a emergenze sanitarie (terremoti, epidemie, etc…) o nell’ambito di accordi bilaterali con Paesi del Sud che necessitano di personale medico.
Durante la crisi Ebola in Africa occidentale del 2014, Cuba inviò circa 465 operatori sanitari quali medici, epidemiologi e chirurghi in Sierra Leone, Guinea e Liberia, risultando il contributore più consistente rispetto ad altri Stati.
Nel corso degli anni, oltre 50 000 operatori sanitari cubani hanno operato in decine di Paesi come Brasile, Venezuela, Zimbabwe, Kenia, Sudafrica, Timor Est, contribuendo alla capillarità dell’assistenza sanitaria in zone rurali o svantaggiate e potenziando università mediche locali.
Iran e Africa, una cooperazione sanitaria in espansione
Negli ultimi due anni, l’Africa è diventata un asse centrale della strategia sanitaria estera dell’Iran. Durante il Vertice Iran-Africa dell’aprile 2025 a Teheran, il Ministro della Salute iraniano ha evidenziato l’impegno a espandere le collaborazioni nei settori di produzione farmaceutica, costruzione di ospedali, formazione di medici e specialisti, e telemedicina. L’obiettivo dichiarato è duplice. Contribuire al miglioramento della salute pubblica nei paesi partner e promuovere l’industria biomedica iraniana come leva diplomatica e commerciale.
Il governo iraniano ha anche invitato delegazioni africane a visitare centri di eccellenza e università mediche, sottolineando la disponibilità a trasferire tecnologie e offrire borse di studio per la formazione avanzata. In cambio, cerca partenariati stabili che possano aprire nuovi mercati per le sue imprese farmaceutiche pubbliche e private.
Non è un caso che l’Iran stia cercando alleanze sanitarie bilaterali con Paesi come Zimbabwe, Senegal e Nigeria, alcuni dei quali già collaborano con Cuba in programmi di assistenza medica. Questo crea un possibile triangolo di cooperazione Iran-Cuba-Africa, che da una parte vede il know-how cubano in interventi umanitari, dall’altra l’infrastruttura scientifica e produttiva dell’Iran.
Queste alleanze rispondono anche alla crescente esigenza dei Paesi africani di diversificare i propri partner sanitari, dopo le criticità emerse durante la pandemia di Covid-19, quando molti Stati africani furono lasciati ai margini della distribuzione di vaccini da parte dei produttori occidentali.
Sostenibilità e criticità delle modalità di cooperazione Sud‑Sud
Le iniziative di Iran e Cuba condividono un approccio ibrido, che unisce solidarietà e strategia geopolitica. Da un lato, il miglioramento dell’accesso alle cure, la formazione di personale locale e il rafforzamento dei sistemi sanitari. Dall’altro, l’utilizzo della cooperazione sanitaria come leva diplomatica verso Paesi politicamente sensibili o distanti dagli equilibri imposti da Washington e Bruxelles.
Studi recenti indicano che le missioni cubane sono spesso rivolte a Stati con gravi carenze di personale medico, con disuguaglianze territoriali marcate o colpiti da emergenze sanitarie, specialmente nei Paesi a basso reddito che faticano a trattenere i propri operatori.
Tuttavia, emergono anche delle criticità. Ad esempio, le condizioni lavorative dei medici cubani all’estero, le tensioni con gli ordini professionali locali come in Brasile o Sudafrica, e il rischio che queste missioni sostituiscano, piuttosto che rafforzare, i sistemi sanitari autoctoni.
La cooperazione sanitaria Sud‑Sud, pur avendo nell’asse Iran-Cuba-Africa uno dei suoi sviluppi più visibili, non si esaurisce in questi attori. Paesi come India e Cina stanno investendo da anni in progetti sanitari in Africa, Asia e America Latina in forniture di vaccini come Covaxin e Sinopharm, costruzione di ospedali e programmi di formazione specialistica. Questo contribuisce a delineare un ecosistema multilaterale in espansione, dove le collaborazioni tra Paesi del Sud del mondo cercano di ridefinire le regole del gioco della salute globale.
Questo slancio verso l’Africa avviene inoltre in un contesto delicato per l’Iran. Le recenti tensioni militari con Israele, culminate anche in attacchi a infrastrutture sanitarie e nella parziale militarizzazione del personale medico, sollevano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine dei progetti di cooperazione e sulla reale capacità di Teheran di coniugare ambizioni internazionali e resilienza interna nel settore sanitario.
*pubblicato su InsideOver il 18 luglio
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