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Napoli. “Il posto dell’anima”, meglio morti che disoccupati

Il posto dell’anima, diretto da Riccardo Milani, con Silvio Orlando, Michele Placido, Paola Cortellesi e Claudio Santamaria, costituisce il secondo appuntamento, all’interno del ripreso ciclo di proiezioni del Cineforum Popolare -dal titolo Cinema e Lavoro– che, con cadenza quindicinale, si tiene il Giovedì, ormai da un anno, nei locali del Civico 7 Liberato di Napoli, situato in Piazza Museo, portici della Galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo Archeologico Nazionale. Ne proponiamo, di seguito, una riflessione critica.

IL POSTO DELL’ANIMA: MEGLIO MORTI CHE DISOCCUPATI

La multinazionale USA, CarAir, produttrice di pneumatici, ha una propria sede in un paesino dell’Abruzzo. Pur essendo una fabbrica in attivo, decide di delocalizzare per ridurre ancora di più i costi di produzione, con la conseguente e tragica evenienza che circa 500 persone rischiano il licenziamento. Questo, lo scenario drammatico -politico, sociale, personale- su cui si apre il film di Riccardo Milani.

Siamo nel 2003. Gli anni ’90 -con il dilagante trionfo del pensiero unico neoliberista- sono passati da poco, lasciando in eredità la liquidazione delle ideologie, la sconfitta storica delle prime esperienze comuniste (la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss), il conseguente arretramento delle forze progressiste un po’ ovunque e, per qualche improvvido vate della politologia, addirittura la Fine della Storia. Il tessuto del mondo del lavoro comincia a disgregarsi. A partire, poi, dagli anni 2000, l‘accelerazione impressa, dalle élite finanziarie, alla globalizzazione selvaggia -con l’acuirsi inesorabile della crisi sistemica del modello capitalistico e la susseguente e altrettanto inevitabile caduta tendenziale del saggio di profitto- determinerà la graduale ma irreversibile cancellazione dei diritti.

La concorrenza monetaria, la contrazione dei salari, la riduzione del loro potere di acquisto, la precarietà, i licenziamenti facili, la deindustrializzazione, la delocalizzazione, sono gli evidenti sintomi di una crisi che, agli inizi del XXI secolo, cominciano a mostrarsi con palpabile evidenza, specie in un paese come l’ Italia -membro onorario di quel circolo Pigs creato dalle borghesie affaristiche europee, come ben sottolinea il professor Luciano Vasapollo nel suo La vendetta dei maiali– da sempre periferia dell’impero statunitense e patria di un capitalismo fondato più sulla corruzione, sul clientelismo, sull’economia criminale, che sulla reale capacità di investimento della classe imprenditoriale.

Inizia così, in quegli anni, l’attacco brutale al mondo del lavoro e allo Statuto dei lavoratori -simbolo di una conquista operaia in un’ epoca di avanzamento delle lotte e del conflitto di casse- che approderà, nel più immediato presente, all’ abolizione definitiva dell’articolo 18 e ai licenziamenti di massa. Il sindacalismo confederale, ormai in disarmo, vira irrimediabilmente verso la concertazione, pronto alla resa e all’accordo coi padroni. La logica e ineluttabile conseguenza è il timido ma salutare riaprirsi di un fronte di lotta e l’ inasprirsi del conflitto sociale. Conflitto che non troverà, però, degna rappresentanza, né a livello istituzionale e politico, né sul piano delle rivendicazioni vertenziali.

Il posto dell’anima di Milani prende, dunque, le mosse in questo complesso e delicato quadro storico-politico. Un quadro, contro la cui asfittica cornice va necessariamente a scontrarsi lo sciopero permanente, e un po’improvvisato, indetto dai lavoratori dello stabilimento CarAir. Abbandonato ad un destino apparentemente segnato sin dall’inizio, lo sciopero assume, con il passare dei giorni, forme di lotta poco convenzionali, addirittura, a tratti, antisindacali: come la scelta estrema di incatenarsi o il bivacco di fronte ai cancelli della fabbrica occupata.

Il paese, però, si schiera con gli operai. E tornano a vedersi, allora, i banchetti per la raccolta delle firme, la solidarietà portata agli scioperanti dai concittadini premurosi, vecchi e nuovi simboli di rivoluzione. Un entusiasmo e una voglia di lottare destinati, ben presto, tuttavia, a trasformarsi in show televisivo. Le telecamere entrano, con tutta la loro prepotente violenza distorcente, a raccontare, ad amplificare, a svilire questa realtà di disagio, sociale ed umano. È da manuale, ad esempio, a questo proposito, l’ironico cameo di Sandro Ruotolo nei panni di sé stesso!

Il racconto televisivo divarica gli spazi di lotta, cnfonde i presupposti del conflitto, sbiadisce i principi ideali, slabbra i margini dell’incertezza, sbattendo in prima pagina le fratture, i dissapori e gli inevitabili contrasti di opinione dei protagonisti; piuttosto che far trasparire la sostanza della lotta da loro portata avanti.

E in quel contesto, che si intuisce sconfortante, la politica appare distante, lontana, quasi assente. Ciò che più viene alla ribalta, in una situazione così dolorosa, è proprio la mancanza di bandiere di partito: le sole che spuntano sono quelle bianche e verdi dei sindacati confederali. Quegli stessi sindacati che stanno svendendo, nella maggior parte dei casi, la pelle degli operai sui tavoli di mogano delle trattative coi padroni. In tal senso, commovente, nella risoluzione quasi grottesca adottata da Milani, risulta essere il tentativo -compiuto dai principali protagonisti dello sciopero- di rivolgere una richiesta d’aiuto alle nuove istituzioni politiche del Parlamento Europeo. Il loro viaggio a Bruxelles si concluderà con un irrisorio nulla di fatto. Saranno ricevuti da un’anonima funzionaria che gli spiegherà -per di più in francese- che già tutto è stato deciso e che il loro personale intervento non era affatto necessario. Oltre il danno, anche la beffa, insomma.

All’aspetto politico della vicenda, la regia di Milani -che gira con mano leggera ma mai superficiale- affianca anche quello più intimo, esistenziale. Conflitto sociale e vita privata si intrecciano, così, in un film che viaggia su un doppio binario narrativo. Antonio -un Silvio Orlando ispiratissimo- vorrebbe passare più tempo con la sua Nina -una convincente Paola Cortellesi- che è costretta a lavorare a Milano. Salvatore -un Michele Placido ruvido e combattivo nei panni del sindacalista, benché leggermente sopra le righe- crede fortemente in quello che fa, ma la sua passione politica si scontra con il carattere di un figlio chiuso e irrequieto, che pensa al padre come ad un idealista fuori dal tempo e dalla Storia. Infine Mario -un ironico Claudio Santamaria, come sempre capace di costruire i suoi personaggi con puntuale attitudine attoriale- giovane operaio, preoccupato di portar avanti la sua famiglia, si inventerà -una volta perduto il proprio lavoro- un’occupazione alternativa, mettendo su un pastificio, pur tra le vibranti proteste di alcuni compagni di lotta.

Dunque una pellicola, quella di Milani – sceneggiata con la collaborazione di Domenico Starnone- capace di riportare la filmografia italiana, dopo anni di colpevole silenzio, a battere le strade di quel cinema politico, di impegno, persino operaista, che si era affermato -e tanto aveva contribuito al dibattito politico-culturale in atto- durante gli anni della contestazione. A Milani, certo, mancano l’incisività e lo sguardo a tutto tondo, l’oggettivita analitica e il piglio duro della critica inflessibile, sulla realtà trattata. I suoi sono i toni leggeri, semplici, ironici, seppur declinati in cadenze di dramma sociale, di un cinema italiano, ormai, poco incline alla severità di giudizio verso quel capitale alle cui leggi si è, da tempo, assuefatto. Ma c’è senz’altro dell’onestà intellettuale, nel regista romano, e la voglia di denunciare le ingiustizie di un modello produttivo iniquo. Il finale di tragica amarezza, in cui si evidenzia l’aspetto nocivo, esiziale del Capitalismo, con le sue regole barbariche, sembra riaffermare quella frase crudele, eppur incontestabile, messa in epigrafe al film. Meglio morti che disoccupati.

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