“Con le scarpe rotte” è un progetto portato avanti dai compagni del Circolo Granma di Bologna, un progetto culturale che nasce dalla passione per le passeggiate in montagna, la natura e l’interesse del territorio in cui viviamo, sia dal punto di vista geografico che storico per conoscere e rispettare i territori, averne coscienza della storia e del tessuto sociale.
Il circolo Granma è la sede politico-culturale della Rete dei Comunisti e di Noi Restiamo, nato dall’esigenza e dalla volontà di aprire luoghi alternativi di studio, confronto e controcultura, ma anche uno spazio che per le sue attività quotidiane politiche, sociali e culturali è un presidio popolare all’interno del quartiere. Con le scarpe rotte sui sentieri della resistenza è un ciclo di escursioni per le valli e i monti emiliani luoghi che, come sappiamo, sono stati teatro delle vicende belliche e della Resistenza antifascista tra il 1944 e l’anno successivo, fino alla liberazione di Bologna (21 aprile 1945). La prima tappa è stata un trekking che ci ha portato da Marzabotto a percorrere il sentiero che attraversa i luoghi della strage, per arrivare fino a Montesole dove si trova la “stella rossa”, il monumento eretto in onore della brigata partigiana capitanata dal Lupo (Mario Musolesi). Vi aggiorneremo a breve sul prossimo appuntamento di CON LE SCARPE ROTTE, intanto ci ritroviamo in via del Pratello il 25 aprile come ogni anno.
Condividiamo ora quello che ci siamo raccontati durante il percorso per ricordare la storia antifascista di quei luoghi e trovare delle similitudini col periodo presente.
*********************************************************************************************
Appunti da Montesole, di Roberto Sassi
Cercherò di evitare quello che, nei decenni che ci separano dall’esperienza partigiana, si è dimostrato più inutile dal punto di vista pedagogico: l’antifascismo retorico, che pone l’accento in maniera unilaterale sull’eroismo dei partigiani, che ci fu senz’altro, o sulle atrocità dei nazisti, che ci furono senz’altro, ma dando per scontato, in maniera infida, che la Resistenza sia stata una lotta vittoriosa, che la Costituzione sia il sedimentato storico di quella vittoria e che celebrare la Resistenza significhi difendere la Costituzione e lottare per la sua applicazione.
Comincerò con una breve citazione di un grande partigiano e un grande filosofo della scienza, che in uno dei suoi ultimi scritti fece un bilancio della Resistenza:
“La Resistenza è stata sconfitta poiché le è stato impedito (o lei stessa non vi è riuscita) di modificare le strutture di fondo della nostra società e dello stato italiano. Il fascismo invece, in ultima analisi è risultato vincitore. Certamente il fascismo di facciata è crollato, ma il fascismo vero, quello che si è radicato nelle strutture dello stato, in una certa mentalità per la gestione del potere, quello che ha creato le proprie gerarchie burocratiche e il proprio apparato di potere, ebbene questo fascismo è uscito pressoché indenne dalla bufera della Resistenza e ha mantenuto intatto il suo potere all’interno dello stato, delle forze di polizia, delle questure, delle carceri e della magistratura. Questo fascismo più profondo e più pericoloso ha guidato e controllato ancora una volta lo sviluppo post-bellico della nazione”
Ludovico Geymonat, La società come milizia (1989)
Un discorso molto crudo, da filosofo che analizza la realtà con rigore scientifico e partigiano. Entrando nello specifico si chiede: “quali sono le sconfitte della resistenza?”
La mancata epurazione. Gran parte del gruppo dirigente fascista (così come quello nazista) rimane sostanzialmente impunita dopo la guerra, a partire dai principali responsabili dell’eccidio che qui è stato consumato. C’è chi non ha mai pagato come il principale responsabile: Albert Kesselring (comandate delle truppe tedesche di occupazione in Italia); c’è chi ha pagato troppo poco: Walter Reder; e ci sono i criminali di guerra italiani, primo tra tutti Graziani. La maggior parte non ha pagato, non è stata epurata, è rimasta esattamente dov’era e molti sono riusciti purtroppo a morire serenamente.
Il disarmo delle formazioni partigiane. Alla fine della guerra questa esperienza politica viene completamente esautorata da ogni efficacia. I partigiani escono dalla vita attiva e l’ANPI diventa un’associazione reducistica, non l’organismo politico che coordini e mantenga attiva questa struttura. In Sudafrica, dopo l’apartheid, il braccio armato de African National Congress (ANC) Umkhonto we Sizwe, fondato da Nelson Mandela, è stato integrato nell’esercito e nella polizia. Se ci pensate sarebbe stato logico che, davanti all’esercito del re che non oppose nessuna resistenza all’invasione tedesca, quei trecentomila insorti che presero le armi fossero considerati un reparto di elezione delle nuove forze armate. Invece così non fu, vennero disarmati e spesso anche perseguitati.
La trappola della costituente e la conservazione della legislazione fascista. Nell’immediato dopoguerra, mentre i partiti antifascisti sono impegnati nel dibattito sulla Costituzione, i partigiani vengono giudicati da tribunali fascisti, da giudici fascisti, con leggi fasciste. Anche dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana il Codice penale rimane il codice fascista. Dal 1975 con la legge Reale, fino ad arrivare ai decreti Cossiga poi ai decreti Minniti e poi Salvini, quel Codice penale integralmente fascista che era il codice Rocco è stato solo inasprito. Sono state tolte alcune cose, come la pena di morte ma il corpus legislativo è rimasto fondamentalmente fascista, basti pensare all’uso che viene fatto del reato di “devastazione e saccheggio” contro le manifestazioni di piazza. La preoccupazione di mantenere la continuità dello Stato fu quella che mise all’angolo ogni reale possibilità di trasformazione del paese.
I “veri padroni” della nazione rimangono sempre gli stessi. I grandi industriali, i grandi agrari, le grandi famiglie della borghesia italiana non cambiano, restano quelli, rimangono al potere. Quelli che avevano sostenuto, finanziato e armato il fascismo rimangono lì e continuano a decidere delle sorti del paese.
I rappresentanti politici della Liberazione non contano nulla. Vengono cooptati nell’area di governo fintanto che la situazione è estremamente instabile. Una volta che la situazione si stabilizza (1947) le sinistre vengono espulse dal governo e rimangono confinate per tutto il trentennio di quella che oggi chiamiamo prima repubblica, oppure vengono cooptate, ma per essere cooptate devono abbandonare quell’intransigenza che caratterizzò la lotta partigiana.
La sostanziale continuità della cultura tradizionale. Non solo a livello di cultura accademica ma anche a livello di cultura quotidiana, di senso comune e di organi che sono preposti a produrre il senso comune. Esemplare è il caso del “Resto del Carlino”, giornale non solo fascista durante il ventennio ma anche protofascista, da sempre ultrareazionario, che per esempio quando ci fu la strage di Marzabotto la negò, fu revisionista e negazionista ante litteram e continua a ordire campagne diffamatorie contro i partigiani, mentre riabilita, quando non celebra, i criminali repubblichini. Uno degli elementi più sordidi e più infami è proprio l’odio verso i partigiani che viene fomentato da queste campagne.
Perché c’è l’odio verso i partigiani? Anche a fronte delle celebrazioni ufficiali, ancora prima che venissero fuori i tormentoni come quello delle foibe, c’erano, sotterranei o espliciti, nel senso comune di massa fomentato dagli organi di stampa di destra ma non solo, questi discorsi che venivan fatti a labbra strette: “se non ci fossero stati i partigiani non sarebbe cambiato nulla perché tanto la guerra l’hanno vinta gli americani”, “se ci sono state le rappresaglie come a Marzabotto è perché c’erano i partigiani che facevano le loro azioni”, “i tedeschi lo avevano detto, se fossero stati fermi e muti, se non avessero contrastato e non fossero intervenuti nelle azioni militari, non ci sarebbe stata nessuna carneficina”. La ricerca storica si è curata di smontare puntualmente questo tipo di menzogne che pure tornano periodicamente a manifestarsi.
Possiamo comprendere l’odio per i partigiani partendo da qui, da Monte Sole.
Osservando l’assestamento della Linea Gotica fra l’estate e l’autunno-inverno del 1944, notiamo che si apre ad imbuto verso est, questo è dovuto a diversi fattori:
Orografia. Il settore occidentale dell’Appennino tosco-emiliano raggiunge quote elevate, superando i 2000mt, congiungendosi con le Alpi, mentre quello orientale solo raramente supera i 1000mt, declinando dolcemente verso il mare. I tedeschi considerarono, non a torto, una difesa naturale più efficace, nella stagione umida, il delta del Po.
Competizione fra gli Alleati. L’8^ Armata britannica risaliva il versante adriatico, con l’obbiettivo di raggiungere Vienna prima dell’Armata Rossa; la 5^ Armata statunitense risaliva il versante tirrenico, e si vide ridurre significativamente gli effettivi per rinforzare il fronte occidentale, con l’obbiettivo di raggiungere Berlino prima dell’Armata Rossa; i partigiani venivano considerati dagli anglo-americani come una propaggine locale dell’Armata Rossa.
Antiguerriglia genocida. Kesselring, nelle sue memorie, dice che, secondo gli ordini di Hitler, attestarsi sulla linea gotica, era il risultato a cui si doveva arrivare prima della stagione fredda, compiendo una ritirata progressiva, lenta, che preservasse le truppe. Sempre dalle memorie di Kesselring, apprendiamo il suo timore che gli alleati sostenessero attivamente con materiali, munizioni, viveri e addestratori le forze partigiane. Con l’approssimarsi della stagione fredda, temeva più gli attacchi alle spalle che non quelli frontali, in questo senso dobbiamo interpretare le azioni di Walter Reder. Reder veniva dal fronte orientale, dove aveva già collaudato la strategia antiguerriglia nazista: se i partigiani sono come pesci nell’acqua, noi prosciughiamo il mare. Si attua una pratica genocida, si sterminano paesi interi: Marzabotto, dopo Vinca, Sant’Anna di Stazzema… Dove si vede più vicina la linea meridionale a quella settentrionale, fra il Tirreno e il bolognese, lì sono state compiute alcune delle stragi più efferate.
Arriviamo a Monte Sole, dove era attiva la brigata Stella Rossa. Non era l’unica brigata che operasse sull’alta valle del Reno: c’era la brigata Matteotti che stava a Monte Cavallo e che aveva sostenuto attivamente la Repubblica di Montefiorino, passando per alcuni sentieri che erano antiche vie di contrabbando, poi c’era una brigata Giustizia e Libertà. Riuscirono a passare le linee, dopo aver liberato un’ampia fascia del crinale, una volta che il fronte si attestò con la fine della stagione secca.
Stella rossa aveva una caratteristica, comune a molte brigate partigiane, era assolutamente autoctona, era fatta di paesani di quelle valli che non aveva mai voluto abbandonare, se non per un breve periodo, tatticamente, nell’estate del ‘44, arrivando a Pietramala, verso il Passo della Raticosa. Non accettano di scendere a valle a fine estate del ‘44 per partecipare a quella che si programmava come l’insurrezione generale. La Stella Rossa non aderisce neppure all’appello di incrementare la Repubblica di Montefiorino. Rimane legata a questo luogo e, soprattutto nella fase finale, raccoglie un gran numero di civili disarmati che sono entrati nelle zone controllate dai partigiani per evitare i rastrellamenti tedeschi.
Da Monte Sole già col binocolo si riuscivano a vedere le postazioni alleate. Con l’avanzata impetuosa nell’estate del ‘44 sembra che la guerra stia per finire, che la linea gotica non sia destinata a durare più delle altre linee fortificate che erano state fatte durante la ritirata delle truppe tedesche in Italia. In realtà i tedeschi si stavano preparando a fermarsi qui e volevano bonificare la zona. Tentano una prima volta di conquistare Monte Sole e vengono respinti. Questo gli serve però per avere un preciso quadro delle difese partigiane. E quando sferrano l’attacco finale, il 29 settembre del ‘44, immediatamente annichiliscono Stella Rossa. La preponderanza delle forze tedesche è irrefrenabile. Parte con un rapporto di 4 tedeschi per un partigiano, e dopo le prime ore di battaglia il rapporto è di 8 a uno. Hanno armi pesanti, lanciafiamme, cannoni, mortai, mitragliatrici, i partigiani hanno solo uno scarso armamentario leggero. La paura di Kesselring si era dimostrata infondata, gli alleati non avevano dato adeguato rifornimento di armi, di munizioni, di viveri, e i partigiani sono forze non militarmente in grado di reggere a un impatto offensivo di quel tipo. E quindi viene perpetrata la strage programmata, di cui queste rovine sono memoria (vi consiglio di vedere il film di Giorgio Diritti, L’uomo che verrà).
C’è un aspetto che volevo sottolineare per cercare di stimolare una riflessione che non sia quella ordinaria. Nel ricordo di queste zone è l’aspetto del martirio che diventa praticamente l’unico a essere ricordato, e sicuramente questo ha un fondamento: quasi 800 vittime, donne, bambini, anziani assolutamente inermi, villaggi, borgate che non troveranno mai più la forza di risorgere. Qui è pieno di ruderi, case e cascine che non sono mai più state ripopolate.
Ma la celebrazione istituzionale del martirio mette in secondo piano l’importanza politica dell’insorgenza partigiana. Nel vuoto di potere creatosi dopo il 25 luglio e dopo l’8 settembre del ‘43, quando il fascismo era caduto motu proprio, il re si era dileguato, l’esercito non opponeva nessuna resistenza all’invasione tedesca, il fatto che decine e poi centinaia di migliaia di persone decidessero di prendere le armi, significava prendere collettivamente in mano la propria vita, “avere il coraggio di contare sulle proprie forze per decidere del proprio destino, quando niente e nessuno lo lasciava libero” (Valerio Romitelli, L’odio per i partigiani, 2007). Per Clausewitz “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”. Sulla linea del fronte, guerra e politica si identificano perfettamente. I partigiani, nell’atto di prendere le armi per difendere il territorio, mostrano la possibilità di una pratica politica autonoma.
Oggi in Val Susa noi vediamo, dal punto di vista della presa di iniziativa politica di massa, qualcosa di molto simile a quello che hanno fatto i partigiani.
Se ci sbarazziamo della retorica resistenziale istituzionale, partendo dalla constatazione della sconfitta della Resistenza, riusciamo a capire quello che c’è veramente di importante in quell’esperienza e che genera l’odio reazionario verso i partigiani. Non rimaniamo invischiati nello stereotipo che riduce tutta la lotta di liberazione alla Costituzione, che nella realtà non viene applicata quando contiene articoli che nella loro bellezza sarebbero estremamente importanti. Quando però viene inserito il pareggio di bilancio, cosa che ai partigiani non passava neanche per l’anticamera del cervello, quello diventa assolutamente vincolate. Si tratta di uscire da questa trappola e attingere dall’esperienza partigiana per capire che cosa vuol dire prendere autonomamente l’iniziativa politica.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa