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Roma. Cosa succede in città? Una settimana di piazze

Conta sì il denaro, altro che no.  Me ne accorgo soprattutto quando…  quando non ne ho!  Conta sì il denaro, altro che… altro che chiacchiere. Cosa succede… cosa succede in città, c’è qualche cosa… qualcosa che non va!

Recita così linizio e il ritornello dell’omonima canzone di Vasco Rossi, datata 1985, ritornello che a distanza di trentacinque anni sembra avere la forza di individuare quanto sta accadendo a Roma in questi giorni.

La settimana che si avvia alla conclusione infatti ha visto in città un numero elevato di momenti di lotta e di rivendicazione da parte delle più diverse categorie sociali.

Una bella novità, se considerata all’interno di una realtà lavorativa e sociale da molto, troppo tempo incapace di esprimere il livello di conflittualità necessario alla riconquista dei diritti svenduti dall’azione dei politici – di tutti i colori e di tutti gli schieramenti – degli ultimi trent’anni, nonché dalla triade Cgil, Cisl e Uil. Ecco alcuni esempi.

Lunedì 9 novembre i lavoratori della sanità hanno affollato la piazza antistante il Ministero della salute per chiedere una risposta concreta alle insufficienze del comparto sedimentate in trent’anni di tagli ed esplose con la pandemia, piazza da cui l’Unione sindacale di base (Usb) ha annunciato lo sciopero nazionale per mercoledì 25 a seguito delle mancate risposte del Ministero.

Martedì 10 a Fiumicino è andato in scena il presidio delle dipendenti (dieci, più un uomo) della Venchi, multinazionale del cioccolato, colpevole di aggirare il blocco dei licenziamenti tramite il trasferimento di punto in bianco delle proprie lavoratrici, tutte iscritte con Usb, da una regione all’altra, senza considerare le rispettive situazioni economiche e familiari, con figli, scuola, genitori anziani, lavoro dei rispettivi coniugi ecc.

Mercoledì 11 sono scesi in piazza a Montecitorio i lavoratori e le lavoratrici della ristorazione, del pulimento, dello spettacolo e del turismo per chiedere al governo lo sblocco immediato dell’erogazione degli ammortizzatori sociali, fermi in alcuni casi anche da sette mesi.

Alcuni di loro si sono poi ritrovati a Montecitorio giovedì mattina, 12 novembre, riuniti da tutta Italia assieme all’Usb e a Noi Turismo per chiedere un reddito garantito e il blocco delle imposte per i lavoratori autonomi a partita Iva.

Tornando a mercoledì, il pomeriggio a San Lorenzo studenti-lavoratori organizzati nella campagna Work&Class da Noi Restiamo hanno manifestato la loro condizione a seguito della lunga crisi economica che costringe chi non è “figlio di papà” a lavori in nero o altamente sfruttati, impedendo di fatto lo studio necessario ad affrontare il percorso universitario.

Giovedì mattina, gli inquilini Ater di Tor Bella Monaca assieme all’Asia Usb e a Potere al Popolo hanno protestato duramente alla sede Acea a Piazzale Ostiense contro i distacchi dell’acqua causati dell’impossibilità, sancita dall’infame decreto Renzi-Lupi, di regolarizzare le rispettive posizioni alloggiative in quanto assegnatari. Stamane si replica, da Torbella a Primavalle.

Il pomeriggio invece gli operatori sportivi delle Palestre popolari della città hanno fatto sentire la loro voce in Campidoglio, in quanto lavoratori con una funzione sociale rilevante, eppure sacrificati sia dall’essenza di diritti fondamentali come l’Inail, sia sull’altare delle prime chiusure inadeguate di questa seconda ondata.

In ultimo, ieri c’è stato lo sciopero nazionale di educatori, educatrici e assistenti alla comunicazione per l’integrazione degli alunni disabili scesi in piazza Montecitorio, rivendicando la reinternalizzazione dei servizi scolastici sulle parole d’ordine del lavoro pubblico, del salario garantito, della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Come si vede, tanti pezzi di società hanno scelto la piazza per manifestare il loro dissenso in questi giorni durissimi, dove pandemia, crisi economica e impossibilità di piene relazioni sociali picchiano duro sulla vita delle persone, soprattutto se non si ha una villa dove trascorrere placidamente la fase emergenziale…

Ma c’è qualcosa che tiene insieme tutti questi frammenti? C’è un terreno comune dove riunire le singole specificità?

In realtà, quel che emerge da questa breve quanto intensa rassegna è lo stato dell’arte di un pezzo consistente di città, e più in generale di sistema-paese, diviso sì in mille rivoli, ma unito in una condizione generale.

Stiamo parlando di quella condizione che non permette di programmare con serenità la propria vita, di chi ha un lavoro malpagato, non garantito o scarsamente tutelato, di chi subisce l’abbandono dello Stato, di chi è vittima dell’insufficienza e della disorganizzazione degli enti a tutti i livelli, della privatizzazione dei servizi essenziali e delle bugie di una classe politica e imprenditoriale indecente, fatta di “ruba galline” che tutto fanno tranne che servire gli abitanti di questo paese.

Questa è la conseguenza delle scelte fatte dai governi degli ultimi decenni, il cui brillante risultato è sotto gli occhi di tutti, oggi più palese che mai.

Cosa servirebbe per affrontare questa situazione?

Questione sanitaria a parte, su cui in cui questo giornale ha già fornito delle indicazioni, rispetto alle piazze elencate c’è bisogno sicuramente di un reddito garantito per chiunque viva in questo paese, erogato per tempo, da un unico ente (evitando il caos gestionale) e sufficiente a superare degnamente la fase emergenziale, che tenga perciò conto di mutui, affitti, bollette, spese vive per cure mediche, studio, nutrimento, trasporti. I soldi ci sono, quel che manca è la volontà politica di fare gli interessi delle classi meno abbienti e dei lavoratori.

Sul lungo termine invece si dovrebbe mettere fine alla concorrenza tra Stato e Regioni, se necessario provvedendo alla riduzione a enti amministrativi di quest’ultime, alla sovrapposizione degli enti nella gestione dei servizi (con conseguente continuo e inaccettabile scarico di responsabilità, dalla casa, all’acqua, alla manutenzione ecc.), che impedisce una normale erogazione degli stessi.

Poi, come minimo bisognerebbe ripartire con un piano di investimenti pubblici nel lavoro e nelle infrastrutture per lo sviluppo eguale ed ecosostenibile del territorio (la “green economy” non ha quest’obiettivo), reinternalizzando i servizi essenziali, redistribuendo la ricchezza mediante una riforma fiscale a favore di chi lavora, dei piccoli commercianti e degli strati più in difficoltà, implementando un nuovo modo di gestione dei rifiuti come il porta a porta, e mettendo fine allo strapotere delle multinazionali di qualsiasi settore, dall’alimentare, all’e-commerce, alla siderurgia ecc., che sulla pelle dei lavoratori impiegati nel paese “stampano soldi” come se non fossimo nella peggiore crisi economica dell’ultimo secolo.

Inutile negarlo, per realizzare tutto questo l’attuale classe politica, da Fratelli d’Italia alla Lega, dal M5S al Pd e affini, deve andare a casa o passare in minoranza rispetto all’avanzata di un rinnovato movimento per il riscatto popolare e dei lavoratori che sappia rappresentare, nei quartieri e nelle istituzioni, i bisogni e i desideri della maggior parte della popolazione, di quelli come noi.

Per dirla di nuovo con Vasco, “siamo noi, siamo noi quelli più stanchi! Siamo noi, siamo noi che dovremo andare avanti!”.

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