‘Entula -Indipendéntzia e Sotzialismu vi invita a prendere parte al dibattito che si terrà giovedì 1 maggio a Nuoro in occasione della giornata internazionale dei lavoratori, per confrontarci sul tema del riarmo europeo e analizzare insieme la difficile fase storica che stiamo attraversando caratterizzata da conflitti sempre più devastanti e imprevedibili, che minacciano la vita delle classi popolari in tutto il mondo. Come contributo per il dibattito portiamo una nostra analisi, che vi invitiamo a leggere.
Le contraddizioni interimperialistiche che hanno covato per decenni sotto la cenere nel cuore dell’occidente capitalista, stanno tornando drammaticamente alla luce in un lasso brevissimo di tempo, mettendo in discussione la tenuta del polo imperialista europeo e il futuro della sua classe dirigente transnazionale che cercherà di salvarsi la pelle “costi quel che costi” e senza precludersi nessuna possibile via di scampo.
Il piano di riarmo europeo, pur rappresentando il passo più importante per un accentramento del potere continentale verso il miraggio degli Stati Uniti d’Europa, verrà messo in pratica in modo da garantire ai principali paesi imperialisti la libertà di potersi sganciare dall’impalcatura europea quando lo vorranno e di poterlo fare armati fino ai denti.
Come si può facilmente intuire il prezzo sociale da pagare per il riarmo europeo sarà altissimo e sarà interamente sulle spalle della classe lavoratrice e dei territori più poveri. A trarne beneficio saranno i nazionalismi statali, in particolare la destra estrema che sta ottenendo un profitto politico sempre maggiore dal crescente euro-scetticismo e dal malcontento delle classi popolari abbandonate ed escluse dai benefici del progetto europeo. A livello socio-culturale ad essere rafforzato sarà il militarismo nel senso più ampio, che verrà facilmente integrato nell’ideologia europeista dominante.
Dopo quasi vent’anni di crisi economica costante, il protezionismo americano avrà un effetto particolarmente doloroso sulle economie europee che si basano attualmente sul settore agro-alimentare, acuendo le tensioni sociali e gli squilibri interni al vecchio continente e rendendo difficile occultare nuovamente in futuro le contraddizioni nel campo imperialista occidentale, anche con una probabile marcia indietro delle prossime amministrazioni.
La guerra economica contro la Russia, attuata attraverso le sanzioni, oltre ad avere sostanzialmente fallito nell’obbiettivo di isolarla a livello commerciale e finanziario, ha mostrato tutta la fragilità della catena di approvvigionamento energetica e nel medio periodo ha contribuito a mandare in crisi irreversibile il settore trainante dell’industria europea: l’industria automobilistica. Crisi che si è accentuata con l’incapacità di innovare mostrata dalle multinazionali europee, perdendo così la capacità di inondare i mercati asiatici con i propri prodotti, in favore dei prodotti cinesi. La Cina, che precedentemente era la prima acquirente di auto e beni di lusso europei, ha rinsaldato la partnership con la Russia ampliando la propria penetrazione economica nello spazio post-sovietico e dando vita ad una rete finanziaria e commerciale che è collegata a circa metà del prodotto interno lordo globale e che è sostanzialmente alternativa a quella occidentale.
Si è ormai palesato come il progetto del mercato unico europeo, volto sulla carta a favorire la concorrenza e la conseguente innovazione, sia servito solo a favorire la concentrazione di capitali nei poli finanziari e industriali più importanti, Germania in testa, drenando risorse dal resto del continente. La necessità di riorganizzarsi rispetto ai mutati equilibri della competizione inter-capitalista ha persuaso le élite della borghesia europea della necessità di dare vita ai cosiddetti “campioni europei” (una sorta di grossi conglomerati delle borghesie continentali, come definiti da Draghi), attraverso l’accentrazione di capitali e in cui vengano cooptate le élite europeiste delle borghesie dei paesi economicamente più deboli.
Il corollario politico-ideologico europeista, con tutta la sua mitologia sulla libertà, democrazia e giustizia europee, fine del militarismo, del centralismo e del burocratismo nazionale, potrà essere buttato alla spazzatura senza troppo rimpianto, appena diventerà superfluo continuare a commuovere le anime belle della sinistra liberale.
La guerra richiede unità in nome della supremazia dell’interesse “nazionale”, appiattimento del dibattito in favore del suprematismo europeo contro la barbarie russa, convergenza degli investimenti nel comparto bellico e drastica riduzione della spesa nel welfare: chiunque vorrà impedire tutto questo dovrà essere messo a tacere.
L’altra caratteristica della “menzogna” europeista è la natura dei trattati e dei margini entro cui devono sottostare gli stati nel mantenimento dei conti pubblici. In particolare è sempre stata una menzogna evidente il mantenimento di un’armonia negli scambi commerciali sia dentro che fuori la UE: sappiamo benissimo ormai che la dinamica degli scambi vede la Germania e pochi altri paesi come importatori di prodotti a basso valore aggiunto dal sud e dall’est (oltre alle masse di lavoratori altamente qualificati con bassi salari) ed esportatori verso l’esterno di prodotti finiti o semilavorati ad alto valore aggiunto. Questa situazione ha generato, oltre alle disuguaglianze interne ai paesi membri della UE, un disavanzo commerciale molto elevato degli USA nei confronti della UE (gli USA importano dalla UE molto più di quanto esportano verso la UE).
La seconda “menzogna” riguarda la disponibilità di risorse da investire da parte degli stati in determinati settori per generare benessere e sviluppo, a causa dei vincoli imposti al bilancio, e sulle possibilità di emettere titoli di debito utili a finanziarli. Se il meccanismo del debito comune viene osteggiato da tutti quando si tratta di finanziare lo stato sociale e le politiche espansive, ecco che invece viene proposto come strumento salvifico quando serve per rilanciare settori strategici per il grande capitalismo dell’Unione. I paesi economicamente più deboli stanno comunque tentando di scongiurare che il riarmo comporti un ulteriore aumento del loro debito.
Ecco quindi che il riarmo, spogliato degli orpelli ideologici, appare come uno strumento volto a riconvertire l’industria pesante e ampliare le commesse per le imprese dell’indotto dell’automotive con quelle delle imprese europee degli armamenti, e allo stesso tempo indirizzare l’industria automobilistica su investimenti “dual use” militari e civili. Ciò viene attuato sdoganando non solo la possibilità di infrangere il patto di stabilità per investimenti nel settore Difesa. Dall’altra parte, il piano di riarmo (che prevede un 60% di “buy european” e il restante da aziende prevalentemente americane) serve anche per riequilibrare le esportazioni nette con gli USA e indurre a sospendere o ad allentare i dazi sui beni europei (dazi che, appunto, sono stati applicati proprio con questa funzione).
L’aspetto politico e ideologico del piano di riarmo ha portato all’esasperazione del doppio standard occidentale, smascherando il suprematismo europeo che è sotteso all’idea di essere depositari di concetti e qualità universali come libertà, democrazia, civiltà, pace: una narrazione colonialista e orientalista che ha sempre caratterizzato le ingerenze degli occidentali in qualsiasi parte di mondo. Il cambio di paradigma nei rapporti internazionali e la delegittimazione sostanziale del “diritto internazionale basato su regole” che è stato spazzato via definitivamente da un anno e mezzo di genocidio in mondovisione senza che l’Europa muovesse un dito, hanno determinato che il posizionamento strategico e le potenzialità militari siano tornati ad essere in modo palese lo strumento dello scontro inter-imperialista tra le potenze affermate e quelle emergenti.
Nei primi tre anni di guerra per procura USA nei confronti della Russia, dove l’atteggiamento muscolare dell’occidente è stato accompagnato dalla retorica del “bene contro il male”, la UE ha svolto il ruolo di comprimario che alimenta la narrazione (“il giardino vs la giungla” di Borrell) e di finanziatore principale dell’esercito ucraino, ma senza avere voce in capitolo né sulle scelte militari del conflitto né su quelle diplomatiche.
Il cambio di “postura internazionale” degli USA dato da Trump, nonostante sia stato presentato come segnale di distensione o come segnale di affinità con il “cattivo russo”, in realtà muove sugli stessi presupposti suprematisti, ma senza la retorica ideologica tipica della politica estera liberal-democratica americana. Innanzitutto, l’atteggiamento “assertivo” nei confronti degli alleati serve a serrare i ranghi del blocco occidentale ed evitare che qualcuno possa tentare fughe in avanti e stringere relazioni bilaterali con altre potenze che possano favorire la loro autonomia strategica, dopo l’esempio “quasi riuscito” della Via della seta cinese che avrebbe messo definitivamente in scacco l’egemonia commerciale americana, nel cuore della stessa Europa.
Finora questo è quanto abbiamo visto con la direzione USA sul conflitto ucraino il cui obiettivo, più che indebolire la Russia, era quello di rompere le relazioni commerciali e diplomatiche della UE con la Russia stessa e la Cina (al netto delle baggianate sui principi dell’Occidente e della sua superiorità morale). Trump con la sua tattica sembra voler disciplinare i propri alleati/subalterni Nato a fare la propria parte nel lavoro sporco solitamente appaltato agli USA.
Ora che Washington ha abbandonato questa retorica da scontro di civiltà, è l’ establishment politico europeo a farsi portatore di quella stessa narrazione stantia sui valori occidentali, esibendosi in un esercizio suprematista che come negli anni più bui del colonialismo tenta di impadronirsi di valori universali che possono avere un senso logico solo in quanto patrimonio ideale di tutta l’umanità.
In ultima battuta, non può che apparire come l’ennesima dimostrazione della natura oligarchica dell’Unione Europea il modo con cui questo piano di riarmo sia stato presentato al pubblico e al processo democratico. Un piano promulgato dalla ristretta cerchia della Commissione Europea e presentato come se fosse già deciso.
Di fatto nella sostanza era già deciso, ma ciò non ha impedito che la versione ratificata dal parlamento europeo potesse essere addirittura peggiore da quella presentata dalla Von Der Leyen. Dopotutto, se il Parlamento Europeo ha poteri politici piuttosto limitati, fa specie soprattutto come alla presentazione di un simile piano di morte, la società civile e politica dei vari paesi europei non abbia preteso una reale discussione nel merito del piano di “difesa comune” nei parlamenti di ogni livello, e sia stata fatta passare una adesione acritica al progetto di riarmo e alla preparazione alla guerra totale.
In conclusione, la fase storica dell’imperialismo capitalista sembrerebbe entrata in un nuovo pericolosissimo periodo caratterizzato dalla definitiva scomparsa di una prospettiva illusoria e pacifica del mondo globalizzato basato su regole e libero scambio, per lasciare il passo al confronto bellico come strumento principale di risoluzione dei conflitti fra le potenze imperialiste.
L’incognita rappresentata dall’armamento nucleare strategico, non ci permette di prevedere se ci attenda un’unica guerra “Armageddon” dopo la quale il mondo tarderebbe forse secoli a riprendersi, o piuttosto tante guerre imperialiste minori per la spartizione della ricchezza accumulata dall’Occidente durante secoli di sfruttamento del pianeta. Guerre che potrebbero continuare a minacciarci per decenni. Non è possibile neppure sapere se un forte movimento rivoluzionario potrà scoppiare in seguito alla prima guerra fra le grandi potenze o se succederà in quelle successive, ma in ogni caso è nostro dovere lavorare sistematicamente e con perseveranza in questa direzione.
Per costruire questa prospettiva rivoluzionaria riteniamo sia indispensabile ragionare in una dimensione di scala europea, tentando di sottrarre l’agibilità di creare alleanze alle sinistre sovraniste statali che ad oggi a nostro avviso non hanno nessuna carica rivoluzionaria.
Siamo consapevoli che il popolo sardo non abbia nulla da guadagnare in un’Italia pienamente sovrana, così come la sua condizione potrebbe essere addirittura peggiore dovendo sottostare ad un potere centralista e reazionario su scala europea.
Quindi pur rifiutando l’ideologia europeista come figlia del cosmopolitismo borghese e paravento ridicolo dell’imperialismo europeo, vogliamo costruire una nuova visione strategica in cui l’Europa diventi terreno di lotta per lǝ indipendentistǝ sardǝ, oltre ai confini statali e in alleanza con le forze che siano espressione dei territori e dei segmenti sociali marginalizzati a livello europeo, con l’obbiettivo di raggiungere l’indipendenza e il socialismo, scardinando tutte le diverse dinamiche che possono essere lette come colonialismo interno.
Questo significa necessariamente scontrarci con le prospettive scioviniste di chi anche a sinistra difende i “diritti” del proprio stato-nazione sui territori che ha soggiogato con la forza nel corso dei secoli, per affermare in ogni contesto il diritto all’autodeterminazione dei popoli fino alla piena indipendenza.
Si può ben capire come la Sardegna sarà fra i territori che pagherà il costo più alto, sia per un sovra-utilizzo dei poligoni più estesi dello Stato, sia per il probabile rafforzamento delle fabbriche e infrastrutture integrate nel complesso militare-industriale, ma soprattutto perché la gioventù sarda sarà sempre più bersaglio della propaganda militarista italiana e arruolata nell’esercito, attraverso il ricatto del lavoro ma anche probabilmente attraverso il ripristino della leva obbligatoria.
Il nostro popolo, abituato da secoli a subire le guerre commerciali e i conflitti bellici degli altri, sembra che ancora una volta debba subire passivamente e dolorosamente politiche nemiche dei propri interessi e della propria esistenza, con il peggioramento della condizione già precaria dell’istruzione e sanità pubblica, l’aumento della diseguaglianza nei confronti dei centri produttivi del Nord Italia e in generale il progressivo deteriorarsi delle condizioni di vita della popolazione sarda.
È evidente come un movimento contro l’occupazione militare e per l’indipendenza abbia la possibilità di costruire un’opposizione popolare a tutto questo, ma è altrettanto prevedibile come la repressione tenterà di silenziarlo in ogni modo.
Dobbiamo essere consapevoli che il progetto di riarmo minaccerà tutti i movimenti progressivi che lottano per un cambiamento radicale delle istituzioni europee e dei rispettivi Stati: in particolare prevediamo che ad essere colpiti saranno i movimenti ecologisti, femministi, per l’autodeterminazione dei popoli, oltre ovviamente a quelli che lottano contro la guerra e contro le basi militari.
Pur escludendo che la UE possa essere riformabile in senso socialista, riteniamo importantissimo immaginare una prospettiva socialista federale o confederale del nostro progetto indipendentista, basata su un federalismo aperto, che garantisca il diritto di secedere dal patto federativo contro una politica lesiva dei propri interessi collettivi, contro un europeismo degli Stati, della libertà di circolazione dei capitali e della guerra.
Oggi più che mai ci sembra doveroso ribadire che, di fronte al riarmo, si tratta di scegliere fra socialismo e indipendenza o barbarie.
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