Giulia Cecchettin è morta, uccisa da un uomo di cui si è detto di tutto, perfino che le faceva i biscotti.
Un uomo che si è procurato dei contanti, che è uscito di casa con un coltello e che è stato visto trascinarla in auto e andarsene. Era sparita da due giorni, tanto ci è voluto perché finalmente fosse preso in considerazione quel video nel parcheggio e si cominciasse a cercarli sul serio, perché già all’inizio di questa storia c’era chi sminuiva, chi voleva che fosse solo una fuga, chi “ma sempre male state a pensare?”.
Naturalmente noi, e intendo le donne che seguivano questa come altre storie, invece lo sapevamo. Quel gelo arriva subito, per tutte, lo sappiamo da sempre e lo sappiamo ogni volta. Il che non toglie lo strazio e la rabbia quando viene confermato, perché poi restiamo umane e in fondo una piccola speranza c’è sempre, che riesca a cavarsela, a scappare, a sfruttare magari un attimo di disattenzione come vediamo nei telefilm. E invece niente, perché lo sappiamo da subito come finisce.
Tutto questo è già insopportabile di suo, già inaccettabile, fa rabbia e furia e dolore e neanche ci sono parole per descrivere come ci si sente. Capita perfino di sentirsi fortunate perché neanche stavolta è successo a me o ad una figlia o ad un’amica e poi ci si chiede “perché lei e non io?” e il ciclone che abbiamo dentro riprende forza.
Ecco, in tutto questo sappiamo che il patriarcato, un mostro dalle mille teste e diecimila facce, c’entra, ma ogni volta restiamo agghiacciate perché c’è qualcuno che difende, trova scuse: e magari si fermasse là.
Ogni volta c’è qualcuno, che chiamare umano fa un brutto effetto, che va oltre riesce ad aggredire chi? l’essere orrendo che ha ucciso una ragazza? il sistema sociale, educativo, anche valoriale che gli ha permesso anche solo di pensare di poterlo fare e poi di organizzare tutto? No, aggredisce chi accusa, chi fa emergere le responsabilità anche culturali, anche sociali, perché una cosa del genere non nasce dal nulla, in mezzo al deserto, ma in un giardino ben innaffiato che si chiama patriarcato.
Oggi, un tale, un uomo (ma non mancano le donne che lo appoggiano, il patriarcato è più diffuso di quanto si creda anche tra le donne) che è stato eletto a rappresentare i cittadini nel Consiglio Regionale e che per questa responsabilità avrebbe dovuto provare quella che Zerocalcare chiama vergogna positiva, invece riesce a scaricare un vomito verbale sulla sorella di Giulia. Invece di esprimere solidarietà, o perlomeno di stare zitto perché in fondo parlare non è mica obbligatorio, si inventa un abbigliamento con simboli satanisti e parla di un messaggio ideologico per zittirla, perché la società patriarcale è anche questo, è un inventarsi trame inesistenti. Le immagini nel profilo social della sorella sono utilizzate per attaccare lei, perché non sono educative, perché non ci sono crocefissi o santini.
Le indagini devono fare chiarezza, secondo costui. Su cosa, sulla sorella di Giulia? Cosa sta dicendo, che Elena Cecchettin c’entra qualcosa con quello che è successo a sua sorella? Non che esiste un sistema che attraverso migliaia di forme di condizionamento permette a queste persone (non si parli di mostri, non si dia la scusa della mostruosità o peggio del raptus) di fare quello che fanno? Sta alludendo ad un possibile coinvolgimento della sorella nella morte di Giulia? Se ha prove di questo, parli. Se non ne ha se ne vada, subito.
Il problema secondo costui è “la cultura dello stupro”. Che fa il paio con la teoria gender e con chissà cos’altro, tutto pur di non affrontare mai il nodo terribile della cultura patriarcale. Perché quella sì che fa parte dei “valori tradizionali”, da difendere a tutti i costi, anche e soprattutto mistificando la realtà, insinuando che si debba fare chiarezza nella vita di sua sorella. Nella vita della sorella di una ragazza morta ammazzata, sorella che ha il grande torto di non mostrarsi piangente e disperata ma di essere arrabbiata, furiosa e lucida, di saper individuare e denunciare l’onnipresenza di una cultura tossica.
Le fogne si aprono subito. Irripetibili e terrificanti i commenti, i cuoricini di apprezzamento, tutto l’ambaradan che si utilizza in questi casi.
Il Consigliere Valdegamberi non si deve solo vergognare. Il suo ruolo non gli concede la vergogna. Il Consigliere ha un ruolo pubblico, lo riveste da diversi anni, non è un novellino. Non è accettabile che resti al suo posto, a fomentare criminalmente quella fogna ribollente che si cerca malamente di mascherare da difesa dei valori tradizionali. La sua non è difesa dei valori tradizionali perché non c’è nulla di tradizionale nel ribattere in quel modo alla lucidissima accusa di Elena Cecchettin. I social amplificano all’infinito queste parole, chi riveste un ruolo come il suo ha il dovere ineludibile di prendersi le responsabilità di quello che dice e anche di come viene percepito. Se il Consigliere ha ancora un briciolo di dignità si deve scusare pubblicamente e dimettersi, andarsene e tacere.
Il Consiglio Regionale Veneto tuteli la propria dignità e pretenda le dimissioni del Consigliere Valdegamberi, adottando provvedimenti adeguati e soprattutto prendendo immediatamente le distanze da quanto dal consigliere affermato.
Rifondazione Comunista – Unione Popolare chiede le dimissioni immediate del Consigliere Regionale Stefano Valdegamberi, ritenendo che le sue parole abbiano superato ogni limite non solo di decenza, ma di umanità.
* cosegretaria PRC Treviso. Comitato regionale Veneto di Rifondazione Comunista
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa