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Rapporto Censis: il frutto delle disuguaglianze

Questo è il sunto del rapporto CENSIS sull’Italia 2018 reso pubblico ieri:

Un’Italia sempre più disgregata, impaurita, incattivita, impoverita, e anagraficamente vecchia. Il 52° Rapporto Censis parla di “sovranismo psichico” e delinea il ritratto di un Paese in declino, in cerca di sicurezze che non trova, sempre più diviso tra un Sud che si spopola e un Centro-Nord che fa sempre più fatica a mantenere le promesse in materia di lavoro, stabilità, crescita, soprattutto futuro. “Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”, sintetizza il Censis”.

Quale risposta, quale spiegazione?

Si può accennare a un avvio di riflessione senza ritornare su di una –pur necessaria – elaborazione riguardante la storia d’Italia (e d’Europa e del Mondo) di questi ultimi vent’anni.

Secondo i dati diffusi dall’Ocse alla fine del 2014, l’1% della popolazione italiana possedeva il 14,3% della ricchezza nazionale, praticamente il triplo del 40% più povero che ne possiede solo il 4,9%. Il 20% più ricco possedeva  il 61,6% della ricchezza, dunque al restante 80% della società ne rimane solo il 38,4%.

Quale significato si poteva attribuire a questi dati allora e ancora oggi con la situazione ulteriormente aggravata come denuncia il rapporto del CENSIS?

In primo luogo quei dati significavano e significano che lo sfruttamento capitalistico cresce continuamente e l’abisso tra la classe lavoratrice e l’area sempre più ristretta delle élite economiche diviene sempre più profondo.

La legge generale dell’accumulazione capitalistica genera costantemente concentrazione della ricchezza nelle mani di una minoranza sfruttatrice e accrescimento della miseria, sia relativa sia assoluta, dei lavoratori che sono la stragrande maggioranza della società.

L’ampliamento del fossato fra le classi è cresciuto senza soste e in questo fossato sono inghiottiti un’articolazione di settori sociali dalla composizione complessa e si afferma l’idea della disintermediazione da parte della rappresentanza sociale e della rappresentanza politica.

Fino a questo punto siamo alla classica fotografia dell’esistente, ma è necessario scavare più a fondo e interrogarci su alcuni punti assolutamente fondamentali per cercare di capire la realtà dentro la quale ci troviamo e trovare la capacità e la forza di avanzare una proposta che prima di tutto è necessario si collochi sul piano culturale.

La crescita delle disuguaglianze, così vistosa ed evidente, come si riflette sulla composizione e sulla stratificazione sociale?

Si tratta, prima di tutto, di capire come possa essere possibile ricostruire una coscienza di questo stato di cose a livello di massa, in una società così articolata e scomposta come l’attuale, in una sede di capitalismo avanzato.

Una società che si misura in maniera disordinata con “fratture” collocate ben diversamente da quelle tradizionali, attorno alle quali si erano mossi i partiti politici al momento dei successivi cicli di rivoluzione industriale tra ‘800 e ‘900.

Serve forse, sul piano teorico, uno sforzo pari a quello che fu compiuto negli anni’60 con la lettura critica del secondo libro del Capitale di Marx, consentendo un’elaborazione più avanzata da quella derivante dall’analisi del solo libro primo della stessa opera.

E’ necessario riflettere, infatti, sull’esigenza di ripartire non semplicemente dal solo antagonismo sociale, ma da una ricostruzione di forma teorica che contempli una proposta di egemonia per una visione di alternativa nella società e nella politica.

Ci troviamo in una fase di arretramento storico e d’isolamento dell’autonomia del politico: una fase sulla quale pesa ancora l’esito fallimentare dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del ‘900 e la realtà di una pesantissima controffensiva reazionaria vincente fin dagli anni’80 del XX secolo e che oggi, secondo analisi elaborate all’interno degli stessi ambienti della politologia americana, punta a una secca riduzione del rapporto tra politica e società in senso schiettamente autoritario facendo prevalere la cosiddetta “democrazia esecutiva” su quella cosiddetta “deliberativa”.

Una “democrazia esecutiva” che assume la maschera e il volto di una desolante “democrazia recitativa” del tipo di quella delle cui pantomime assistiamo da molto tempo in Italia.

L’applicazione concreta, insomma, del programma elaborato da Huntington nel 1973 per la Trilateral che, rispetto al “caso italiano”, ha avuto ampio riflesso nel documento di Rinascita Nazionale elaborato nel 1975 dalla P2 e oggi in fase di avanzata realizzazione.

La sola risposta possibile, per quanto possa apparire difficile da realizzare in questo momento di vero e proprio “vuoto del pensiero politico”, com’è dimostrato molto bene dalla nuova qualità di governo emersa dal voto del 4 marzo scorso, è quella di un’espressione di soggettività che recuperi e riprenda un piano di cultura politica che non lascia alla sola spontaneità della reazione sociale il compito del contrasto, limitandosi ad agire nelle pieghe di una relazione marginale al riguardo del sistema.

E’ necessario che il terreno del conflitto sia occupato a pieno titolo dalla visione del cambiamento e dall’organizzazione operativa nell’immediato partendo dalla piena comprensione dell’estensione piena delle contraddizioni su di una società che ha bisogno di contrastare collettivamente il durissimo attacco cui è sottoposta nelle sue fondamenta di convivenza civile.

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