Improvvisamente folgorato sulla via di Damasco, Ernesto Galli della Loggia scopre, sulle colonne del “Corriere”, il rapporto tra la politica e i soldi nel senso del titolo del suo articolo “ La politica senza partiti e la ricchezza privata” apparso martedì 16 maggio.
Il caso preso in esame è naturalmente quello, molto di moda, di Macron.
Un caso sicuramente eclatante ma sollevato senza che in questi anni non ci fosse mai interrogati, rispetto alla situazione italiana, non tanto e non solo sul “caso Berlusconi”, ma anche su vicende di facile escalation nella visibilità pubblica agevolate da improvvise disponibilità di danaro utilizzato per forti campagne elettorale di vario tipo, “primarie” incluse.
Scrive Galli della Loggia, sempre alla ricerca della scoperta dell’acqua calda, : “ Se nei regimi democratici scompaiono i partiti organizzati (Macron, lo ricordo, non aveva inizialmente alcun partito dietro le spalle), se non ci sono o latitano le grandi associazioni sindacali e di categoria, e se non esiste il finanziamento pubblico alla politica, allora tutto il meccanismo politico – elettorale non può che essere fatalmente dominato dalla ricchezza privata. Da quella dei singoli ricchi o, più facilmente, dalla ricchezza istituzionale delle banche e dei grandi interessi finanziari in genere”.
Nella sostanza, all’interno di un quadro generale di vero e proprio “salto all’indietro” da parte dei padroni del vapore si punta, e non da oggi, ad un ritorno a quello che fu il “partito dei notabili” poi soppiantato, nella seconda metà dell’800, dal “partito di massa” sorto l in seguito alla seconda rivoluzione industriale e all’entrata sulla scena della storia delle organizzazioni politiche del movimento operaio: i partiti socialisti già collegati tra loro nell’Internazionale operaia.
A prescindere dall’accenno nell’articolo di Galli della Loggia, nel “caso italiano”alla ricchezza delle banche e dei grandi interessi finanziari (un accenno da brividi) l’intervento in questione solleva il grande tema dei corpi intermedi: dai partiti, ai sindacati, ai soggetti associativi di rappresentanza.
Si tratta , a questo punto, di un tema troppo vasto da affrontare in questa sede e del resto già sviluppato in tante altre occasioni.
Interessava invece, a questo punto, segnalare semplicemente l’improvviso risveglio d’interesse (il riferimento, però, è sempre Macron) e ricordare ancora come l’ondata di antipolitica travestita da “politica” che ha pervaso il sistema italiano ormai da oltre vent’anni abbia fatto dimenticare alcuni principi fondamentali.
La politica e i soldi, intreccio inestricabile particolarmente in un Paese come l’Italia nel quale la connessione stretta tra questione politica e questione morale rappresenta una costante si può dire “costituiva” del sistema.
Ricordiamo allora la storia dell’indennità parlamentare e del finanziamento pubblico ai partiti: una parte parziale ma non marginale della storia infinita di questo rapporto tra la politica e i soldi.
La storia dell’indennità parlamentare è questa:
Lo Statuto Albertino del 1848, in ossequio alla concezione "elitaria" della rappresentanza politica allora predominante (nell'Ottocento la selezione degli eletti e degli elettori avveniva in base al censo e all'istruzione), aveva optato per la gratuità del mandato parlamentare (art. 50: "Le funzioni di senatore e di deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità") .
La Costituzione repubblicana, in quanto espressione di una visione democratica della vita pubblica, sposa il principio opposto, ossia che l'esercizio della funzione parlamentare costituisce un doveroso costo per la collettività (art. 69: "I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge") Questo articolo non costituisce una disposizione isolata, ma fa sistema, in particolare, con l'art. 51 (accesso dei cittadini alle cariche pubbliche elettive in condizioni di eguaglianza) e con l'art. 67 (rappresentanza nazionale e divieto di mandato imperativo), giacché l'onerosità del mandato elettivo serve a garantire, in concreto, il libero funzionamento del sistema democratico.
All'art. 69 della Costituzione venne data una prima attuazione con la legge 9 agosto 1948, n. 1102, la quale strutturò l'indennità parlamentare in due voci distinte: la prima (indennità vera e propria) costituita da una quota fissa mensile di lire 65.000; la seconda da una diaria, a titolo di rimborso spese per la partecipazione alle sedute, il cui ammontare veniva demandato ad apposita deliberazione degli uffici di Presidenza delle rispettive Camere, tenendo conto della residenza o meno nella Capitale di ciascun membro del Parlamento.
Entrambi gli emolumenti erano esenti da ogni tributo.
La suddetta legge è stata abrogata dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261,tuttora vigente,
Appare quindi evidente come la scaturigine dell’istituto dell’indennità parlamentare corrisponda esattamente alla possibilità di accesso per tutti i cittadini all’elezione a deputato.
Nei primi anni del XX secolo, infatti, molti deputati socialisti usufruendo quale solo beneficio derivante dalla carica del “permanente” ferroviario dormivano sul treno Roma – Firenze e ritorno non disponendo del denaro per poter essere ospitati in una pensione.
Diversa l’origine del finanziamento pubblico ai partiti: Il finanziamento pubblico ai partiti è introdotto dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 (cosiddetta legge Piccoli). Proposta da Flaminio Piccoli (DC) ma su idea iniziale del PRI di Ugo La Malfa.
La norma viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI.
La legge imponeva l'obbligo di presentazione di un "bilancio" da pubblicare su un quotidiano e da comunicare al Presidente della Camera, che esercitava un controllo formale assistito da un ufficio di revisori, cioè il "Collegio di revisori ufficiali dei conti".
Infatti essa da un lato introdusse il finanziamento per i gruppi parlamentari "per l'esercizio delle loro funzioni" e per "l'attività propedeutica dei relativi partiti", obbligando il gruppo stesso a versare il 95% ai partiti, mentre dall'altro introdusse un finanziamento per l'attività "elettorale" dei partiti.
La legge disciplinava anche il finanziamento privato.
La nuova normativa nascvae a seguito degli scandali Trabucchi del 1965 e Petroli del 1973: il Parlamento intendeva rassicurare l'opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi potentati economici.
A bilanciare tale previsione, s’introdusse il divieto – per i partiti – di percepire finanziamenti da strutture pubbliche e un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità e d’iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se superiori a un certo ammontare.
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I buoni propositi risultarono tuttavia smentiti dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona) : primi di una lunga serie che si trascina ancora ai giorni nostri estendendosi anche ai livelli locali, essendo intervenute nel frattempo norme che riguardano il finanziamento dell’attività istituzionale in particolare nelle Regioni (scandalo delle “spese pazze”).
Si può ben affermare che lo scopo istitutivo della legge non è stato assolutamente raggiunto.
L'11 giugno 1978 si tenne il referendum per l'abrogazione della legge 195/1974.
Nonostante l'invito a votare "no" da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell'elettorato, il "si" (sostenuto soltanto da PLI, Partito Radicale e PdUP) raggiunse il 43,6%, pur senza avere successo.
Si trattò, in quell’occasione, del primo consistente segnale di distacco tra il sistema politico e la società italiana chiudendo una lunga fase nella quale la partecipazione politica era rimasta costantemente a livelli elevati come avevano dimostrato le percentuali dei votanti nelle occasioni delle elezioni politiche costantemente sopra il 90% degli aventi diritto fin dalla I legislatura eletta il 18 Aprile 1948.
Da allora in avanti si è verificato il crollo nella dimensione complessiva (non certo soltanto numerica) dei partiti di massa e, in risposta ai tre accadimenti storici sulla base dei quali si è verificato un riallineamento dell’intero sistema (Maastricht, Muro di Berlino, Tangentopoli con relative analisi sbagliate da parte di quello che appariva ormai l’incontrovertibile “pensiero unico dominante”) cui si è risposto semplicisticamente con la linea del sistema elettorale maggioritario intrecciato con l’emergere del partito personale e ell’individualismo portato a modello con l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, il collegio uninominale, il sistema elettorale maggioritario.
Tre soluzioni queste dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, del collegio uninominale e del maggioritario (con annesse “primarie”) propedeutica del disastro che abbiamo sotto gli occhi.
L’esempio delle Regioni è il più evidente sotto questo aspetto: dall’elezione diretta dei Presidenti e dall’affidamento a questo Ente la potestà sui delicatissimi campi della sanità e del trasporto pubblico, la Regione si è trasformata in una istituzione destinata esclusivamente alla spesa con una organizzazione destinata a rappresentare costantemente per tutto l’arco della legislatura un enorme comitato elettorale per la rielezione del Presidente.
Nel frattempo i cosiddetti “costi della politica” sono conseguentemente lievitati, in coincidenza con la crescita del debito pubblico, rappresentando una delle ragioni più forti nel processo di sconquasso che ha attraversato il sistema politico italiano negli ultimi 30 anni.
Il punto vero di riflessione che può suscitare questa succinta ricostruzione storica riguarda dunque il ruolo dei partiti, la loro funzione complessiva, il loro ruolo, la formazione dei quadri dirigenti, la necessità d’intermediazione politica e sociale e soprattutto di rappresentanza.
Necessiterebbe un diverso approccio di cultura politica e strumenti organizzativi di aggregazione e di pedagogia: è questo che manca, in definitiva.
Il tema della politica e dei soldi, così riscoperto all’improvviso, rimane un terreno decisivo per la credibilità dell’intero sistema mai così in basso come oggi nelle valutazioni dell’opinione pubblica: un tema fra l’altro affrontato in maniera decisamente improvvisata soprattutto dai sostenitori della – altrettanto mal definita – “antipolitica” impropriamente appellati come “populisti” che stanno godendo di incerte e completamente immeritate fortune elettorali.
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