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Arretramento storico e paura della politica

Contributo per il Forum: “Come si organizzano i comunisti nel 21° secolo “

Care compagne e cari compagni in occasione del Forum organizzato dalla Rete dei Comunisti “sul tema “Come si organizzano i comunisti nel 21° secolo” mi permetto inviarvi, come contributo personale, questo stringato intervento attraverso il quale ho cercato di affrontare alcune questioni di carattere esclusivamente teorico, esulando però dal tema organizzativo.

E’ necessario ricordare, in premessa, che la sinistra d’alternativa all’interno della cui lista (“Potere al Popolo”) si sono schierati i comunisti è risultata elettoralmente ai propri minimi storici e come sia necessario confrontare con grande attenzione il dato elettorale e la capacità di presenza e radicamento sociale.

Nelle varie proposte che da varie parti (ad esempio l’intervento di Guido Liguori pubblicato dal Manifesto il 6 aprile scorso) fin qui sono state avanzate sul tema, come quelle riguardanti il rifiuto di una soggettività politica organizzata e nell’evoluzione verso una non meglio precisata “rete di democrazia di base” (che si presume accolga l’idea della cosiddetta “democrazia diretta” mutuata, è bene ricordarlo, da quella che è stata definita “antipolitica”), si coglie tutta la sostanza dell’arretramento storico che abbiamo patito nel corso degli ultimi 25 anni (Rossanda nella sua intervista pubblicata il 5 aprile sul Manifesto ritorna come punto di partenza allo scioglimento del PCI) e la conseguente “paura della politica” che ne è derivata.

Tutte belle le proposte di mutualità, ambulatori, volontariato vario: ma è necessario riprendere a capire che questa situazione sociale e politica ha bisogno di un’opposizione che mi permetto ancora una volta di definire come “sistemica” e non soltanto di buonistici buoni esempi.

Il riferimento di queste note è stato quindi rivolto esclusivamente al piano più direttamente politico e, sotto quest’aspetto, appare del tutto obbligata l’esigenza di costruire adeguati livelli di quella che appunto ho appena definito come “opposizione sistemica”.

Si tratta di una necessità ineludibile, quella di produrre socialmente e politicamente sia pure in dimensioni numeriche ancora molto limitate proprio un’intransigente (e con questo termine comprendiamo tante questioni inclusa quella istituzionale – elettorale) opposizione.

Emerge, in questa situazione, proprio al fine di rendere almeno visibile, praticabile, condivisibile da più soggetti, la necessità di una prospettiva progettuale dell’opposizione che, però, non potrà che essere elaborata, affinata, messa in campo da una nuova soggettività politica che abbia la capacità di innovare davvero quel che serve della tradizione della sinistra e delle organizzazioni del movimento operaio.

Un soggetto dell’opposizione che risulti insieme autonomo ed egemone rispetto all’articolata (e anche contraddittoria) per certi versi area sociale e politica di riferimento.

Sarebbe necessario, secondo la visione derivante appunto dai più opportuni riferimenti storici, costruire e organizzare un partito politico: perché soltanto un partito politico, per quanto possiamo conoscere e immaginare dal punto di vista dell’organizzazione, può svolgere le funzioni necessitate dall’impostazione di un discorso che non risulti – appunto – di coscienza esterna o di puro riflesso della realtà del movimento.

Qui casca l’asino: o meglio entra in campo la “paura della politica”.

Pur tuttavia proprio l’analisi della drammatica situazione in cui stiamo vivendo e la necessità d’iniziativa politica che essa richiede ci obbliga, se intendiamo muoverci sul terreno dell’onestà intellettuale, ad affrontare proprio il tema del partito, avanzando in questo senso alcuni elementi di riflessione, posti per ora sul piano più propriamente teorico.

Appare pura illusione pensare che la crisi stessa, assumendo sempre più il carattere di recessione, impoverimento, repressione aperta produca un meccanismo spontaneo anche nella forma di una radicalizzazione e generalizzazione della rivolta (anche su questo punto alcuni passaggi della citata intervista a Rossanda andrebbero ripresi e sviluppati).

Si rileva una sempre più crescente incongruenza tra i bisogni, oggettivamente anticapitalistici, che esprimono strati sociali numerosi e larghi e i “mezzi” disponibili anche soltanto per avanzare (appunto nella forma dell’opposizione) un livello accettabile di rivendicazioni complessive. E’ stato in questo cuneo, tanto per restare al “caso italiano”, che si è infilato – per una parte del suo modo d’essere – il M5S occupando spazi al riguardo dei quali oggi svilupperà alla fine una vera e propria azione di rigetto restituendoli forse al limbo della marginalità.

Questa contraddizione si è verificata perché in effetti, come mai nel passato, tutto quanto socialmente esiste, tutto l’arco delle forze produttive (scienza, tecnica, impianti, consuetudini, istituzioni, modelli di consumo, schemi morali e quant’altro) porta il segno del sistema, è stato creato in modo da funzionare secondo le sue leggi, e dunque – come abbiamo già visto – per ordinarsi ad altre finalità, alla soddisfazione di altri bisogni e, di conseguenza, il soggetto della proposta di alternativa a tutto ciò deve essere ripensato e ricostruito da capo.

In questo senso può valere ancora la citazione leninista circa il maggior bisogno della mediazione della coscienza, del progetto, dell’azione consapevole, organizzata, di lungo periodo, della tensione ideale verso una società che si vuol costruire. In questo senso lo “spontaneismo” si dimostra l’errore più grave e fatale.

Non si può superare lo spontaneismo sul serio dicendo che ci vuole un po’ di organizzazione e che anche la teoria ha la sua importanza; occorre vedere su che cosa può reggere tale organizzazione, su cosa può nascere tale teoria, se non solo soltanto un riflesso di una presunta volontà di lotta, uno strumento di efficienza, una traduzione verbale di ciò che già nel movimento sia pure in forma ridotta esiste almeno per questa fase, ma un elemento specifico attivo che nasce da una contraddizione della realtà e la media.

La lotta di massa, fin che esiste una società di classe (ed è questo il dato culturale che dobbiamo reintrodurre nel dibattito e nella concretezza dell’azione politica quotidiana) non può produrre un’evoluzione teorica continua ma una serie successive di rotture e di sistemi teorici, non può fare a meno di una propria “istituzione”, né controllarla pienamente, ma deve contestarla e ricostruirla. Il processo di costituzione della classe in partito è segnato dalla formazione e dalla distruzione di una serie di partiti e di una serie di sistemi teorici, tanto più che la fase ha svoltato adesso bruscamente e il rapporto tra l’insieme articolato delle classi subalterne e ciò che idealmente e socialmente il capitalismo non è stato in grado di assorbire si ripresenta continuamente trasformato.

Dobbiamo operare con molta lucidità sapendo che per molto tempo non avremo la forza, la caratterizzazione teorica, i legami sociali necessari.

Questo senso del limite ci consentirà anche di affrontare in modo costruttivo i nodi politici non sciolti, impedendoci di ritagliarci uno spazio politico tradizionale.

Su queste basi si può ancora pensare alla necessità di portare avanti un discorso di soggettività politica fondata sulla rappresentanza e sull’espressione dei soggetti portatori di contraddizioni sociali concrete e, di conseguenza, sviluppare l’opposizione ai livelli di sistema e di progettualità radicalmente alternativa com’è necessario (e urgente).

Attorno a questi punti si ritrova la necessità di una presenza dei comunisti che si collochi all’’altezza della complessità di contraddizioni che segnano la realtà soprattutto attorno a due punti: il ritorno della possibilità di guerra globale sulla scena della storia e l’allargamento ben oltre la “frattura principale” della condizione di sfruttamento e di coercizione di classe quale caratteristica portante dell’attuale gestione del ciclo capitalistico.

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